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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 3 Introduzione 6 Alcool 12 Oppio e oppioidi 34 Cannabis 69 Coca e cocaina 88 Tabacco 107 Caffè 117 Allucinogeni 125 Il peyote 126 Funghi sacri 134 LSD: il prototipo degli allucinogeni 140 Amfetamine 153 Conclusioni 170 Meglio conoscerle - Schede sulle sostanze 180 Bibliografia 196 Siti internet 200 Glossario 201 |
| << | < | > | >> |Pagina 6Ho scritto questo libro perché solo attraverso la storia si può comprendere il presente e avere un'idea di ciò che può riservarci il futuro. La storia antica e recente delle droghe insegna molte cose. La prima è che in tutti i tempi e sotto tutte le latitudini, l'umanità ha usato sostanze in grado di alterare temporaneamente lo stato di coscienza. Secondo il grande botanico Richard Evans Schultes, fra le 800.000 specie di piante che popolano la terra, siamo riusciti a scoprirne circa 3.000 che danno frutti o parti commestibili, e circa 4.800 contenenti alcaloidi. Fra queste ultime, circa 150 piante - un centinaio classificabili come "allucinogene", le altre come "sedative" o "stimolanti" - sono state usate per i loro principi psicoattivi, e in particolare, una ventina di queste sono state usate, in qualche parte del mondo, lungo tutta la storia conosciuta. Tutte le società umane hanno usato diverse sostanze per diversi scopi: medici, magici, religiosi, cerimoniali o semplicemente ricreativi. Solo i popoli dell'estremo Nord, dove non crescono piante, non hanno usato droghe per gran parte della loro storia: ma l'hanno fatto come tutti gli altri appena qualcuno gliele ha portate. In realtà, la vera eccezione - che forse nemmeno esiste - è l'uomo o la donna che non usa mai nessuna "droga". Perché anche se oggi si vorrebbe considerare l'uso medico come unico uso accettabile delle "droghe", si può tranquillamente dire che la stragrande maggioranza delle persone usa regolarmente una o più droghe a scopo non-medico, e quasi sempre lo fa con tanta naturalezza che nemmeno se ne rende conto. Un aspetto piuttosto ridicolo di questa situazione si evidenzia quando appassionati bevitori di whisky o fumatori di tabacco - tra cui non mancano politici, giornalisti e medici si scatenano contro le droghe e i drogati senza rendersi conto di parlare anche di loro stessi. La storia insegna che, sempre e ovunque, l'uso di sostanze psicoattive è stato regolato da norme più o meno definite e che ogni società ha sviluppato metodi di autocontrollo nel consumo "normale" di queste sostanze, e metodi di controllo dei consumi "devianti". Fatti anomali e imprevisti - come l'introduzione di nuove sostanze o di nuove modalità d'uso - hanno spesso determinato l'adozione più o meno improvvisata di nuove e più severe regole, fino all'estremo della proibizione. Ma la storia insegna anche che quasi mai all'aumento del controllo e della severità è corrisposta una riduzione dei comportamenti devianti. Anzi, focalizzarsi sui comportamenti più devianti per definire i sistemi di controllo e le sanzioni per la generalità dei cittadini, si è regolarmente dimostrato inutile e anche controproducente. Il sistema di regole che circonda l'uso di sostanze psicoattive (come altri comportamenti di forte rilievo etico) svolge - oltre a quello pratico - un importante ruolo simbolico. Le regole sono espressione del potere e riflettono i valori morali (almeno quelli dichiarati, anche se non praticati) della classe dominante. Attraverso la dettatura delle regole, incluse quelle sulle droghe, si afferma e si consolida il potere di caste o gruppi o classi sociali. In generale, tuttavia, quando per affermare il potere si tenta di imporre regole troppo lontane dal comune sentire, è solo una questione di tempo perché esse siano cancellate. Ciò si è verificato, per esempio, con tutti i vari tentativi di proibizione che si sono succeduti nella storia, per l'alcool come per il tabacco, per il caffè come per l'oppio. Nessuna proibizione è durata, o è stata seriamente applicata, per più di poche decine di anni. Un'eccezione è costituita dall'attuale regime proibizionista, che ormai resiste da quasi un secolo. Il proibizionismo moderno nasce a cavallo fra il XIX e il XX secolo negli Stati Uniti d'America e assume la sua forma definitiva nel 1914 con la prima vera legge in materia, l'Harrison Narcotic Act americano. Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale - in quella che negli Stati Uniti fu chiamata Era Progressista - si sperò, certo peccando di ottimismo, di poter trovare soluzioni pratiche per tutti i problemi dell'umanità. Per quanto riguarda "le droghe", in un'epoca in cui il mondo aveva alle spalle addirittura due guerre per il commercio dell'oppio, la soluzione più semplice apparve quella di proibirne ogni uso "non strettamente medico". Così come i disastri dell'alcolismo indussero gli Stati Uniti e diversi altri paesi a proibire per tutti birra, vino e liquori. Stranamente (cosa che meriterebbe qualche approfondimento), il proibizionismo moderno - almeno nella forma che sopravvive a tutt'oggi - riguarda solo le sostanze che hanno anche un qualche valore terapeutico o almeno religioso-cerimoniale, come l'oppio, la cannabis, la coca, le amfetamine, il peyote, l'LSD, l'ecstasy, e non quelle che, come l'alcool, il tabacco, il caffè, sono usate soltanto a scopo ricreativo. Non si può fare a meno di pensare che in questa scelta abbiano giocato un ruolo le organizzazioni professionali di medici e farmacisti, nonché, su un altro piano, le Chiese organizzate - tutte forze politiche alla ricerca di propri spazi "riservati" di potere. E la genesi delle prime leggi proibizioniste, alla fine del XIX secolo, sembrerebbe provarlo, anche se poi si è forse andati troppo oltre, e la "politica pura" ha preso il sopravvento con l'esclusione (non sempre giustificata sotto l'aspetto scientifico) di alcune sostanze anche dall'uso terapeutico, come è per esempio, anche se le cose sono un po' diverse nei diversi paesi, il caso dell'eroina e della cannabis, dell'LSD e dell'MDMA. Dei fatti che hanno determinato tutto questo parleremo in dettaglio nei capitoli successivi. Per ora basti dire che, mentre la proibizione dell'alcool non poté essere mantenuta a lungo, salvo che nel mondo islamico, la proibizione delle altre sostanze, grazie all'egemonia politica americana, fu esportata con successo in tutto il mondo e successivamente consolidata con una serie difficilmente attaccabile di convenzioni internazionali, ratificate da quasi tutti i paesi. Anzi, la decisione che certe sostanze - definite "droghe" o "narcotici" o "stupefacenti" non possono essere usate liberamente da nessuno, eccetto che sotto stretto controllo medico (e anzi, in molti casi, neppure sotto controllo medico), è stata a quanto pare l'unica scelta politica che, nel bellicosissimo secolo appena trascorso, ha trovato d'accordo democrazie e dittature, fascisti e comunisti, medici e sacerdoti, militari e civili, laici e religiosi. Questo strano fatto, forse, dovrebbe bastarci per guardarla con sospetto. Vorrei aggiungere a questo punto, prima di passare al vivo della storia, qualche altra riflessione di carattere generale. Gli errori più grandi che si possano fare quando si ragiona sulle "droghe" sono tre. Il primo è pensare che le droghe siano sostanze in qualche modo diverse dalle altre, capaci per la loro natura di appropriarsi della nostra vita annullando la nostra volontà. Sostanze quasi dotate di una loro vita propria, e non semplicemente sostanze chimiche che interagiscono (come qualunque altra sostanza farmacologicamente attiva, ma anche come gli alimenti, l'acqua, l'ossigeno dell'aria) con un organismo vivente che comunque resta il "padrone della situazione". Il secondo errore è pensare che non sia possibile il semplice uso di droghe ma solo l' abuso, ovvero che non sia possibile trarre dal consumo di droghe effetti positivi, ma solo effetti negativi. Questo non è ovviamente vero, ed è anzi probabile che in generale gli effetti positivi superino largamente quelli negativi. Certo, in un mondo che per sostenere il proibizionismo si è basato sulle più spregiudicate tecniche di propaganda e sulle più clamorose falsificazioni dei fatti, questo errore è ormai spesso preso per buono anche dai consumatori di droghe, e si è trasformato in molti casi in una profezia auto-avverantesi. Se infatti si è convinti a priori che, cominciando con l'uso, non si potrà fare a meno di cadere nell'abuso, si renderà altamente probabile, se non inevitabile, questo passaggio. Il terzo errore è non riuscire a vedere "le droghe" con un occhio normalmente lucido e critico. Anche persone che per studi ed esperienze non dovrebbero cadere nella trappola dei pregiudizi e dei luoghi comuni sono in molti casi incapaci di sottrarsi a quella specie di "lavaggio del cervello" (parole di Lester Grinspoon) che troppo spesso è ancora oggi la discussione pubblica sul tema "droga". E che ha fatto scrivere che le droghe sembrano provocare seri danni soprattutto al cervello di molti che non le usano. Un esempio tipico è l'estrema importanza che si dà al concetto di "dipendenza", senza pensare che, di per sé, dipendenza non significa assolutamente nulla. Siamo infatti tutti dipendenti da aria, acqua e cibo (e, se ci pensiamo, da una miriade di altre cose) senza nemmeno accorgercene. La "dipendenza" diventa un problema solo nel momento in cui la cosa da cui siamo dipendenti diventa difficile o impossibile da avere: quello che potrebbe succedere fra persone "normali" perse nel deserto con una sola bottiglia d'acqua non è dissimile da quello che potrebbe succedere in un gruppo di "eroinomani" rimasti con una sola dose. Solo la proibizione della "droga" fa diventare la dipendenza una cosa rilevante. Prima della proibizione, ci sono voluti secoli solo per capire che a usare l'oppio tutti i giorni si diventava "dipendenti". Ma non è solo questione di evitare un approccio errato. Il primo passo per formarsi un'opinione "difendibile" - ovviamente in coerenza con le proprie idee politiche, etiche, religiose su una materia così controversa è informarsi sui fatti e sui dati scientifici che riguardano le "droghe". In questo libro cercherò quindi di guardare alla lunghissima storia del rapporto che l'umanità ha avuto con le sostanze psicoattive senza perdere di vista, nel bene e nel male, i loro effetti sul corpo e sulla mente di chi le usa. Sapere di più sulle sostanze e sulla loro storia dovrebbe da un lato aiutare tutti noi - consumatori e non consumatori - a cambiare il nostro modo di vederle, e anche a batterci per modificare radicalmente le leggi inefficaci e controproducenti che abbiamo inventato per difenderci da esse: leggi sbagliate alla radice perché dirette contro un nemico immaginario. E dall'altro lato dovrebbe aiutare quelli fra noi che comunque scelgono di far uso di sostanze psicoattive, legali o illegali, a usarle in modo responsabile, con il minimo rischio possibile. | << | < | > | >> |Pagina 12Le origini. La scoperta delle bevande alcoliche si perde letteralmente nella notte dei tempi. Gli amidi e gli zuccheri, in un ambiente povero di ossigeno, si decompongono per l'azione dei cosiddetti lieviti, microrganismi diffusissimi nell'ambiente. I principali prodotti di questa decomposizione sono anidride carbonica e alcool etilico. Questo processo chimico è detto "fermentazione", e tutti i frutti zuccherini, o i semi ricchi di amido, in condizioni adatte possono fermentare. L'alcool ha un odore e un sapore molto gradevoli, e il suo effetto dopo l'ingestione è quasi immediato. Non c'è quindi da stupirsi se persino molti animali mangiano avidamente, appena possono, i frutti caduti a terra e fermentati. Lo stesso fece sicuramente l'uomo primitivo, che però, rispetto agli animali, fece ben presto un passo avanti, trasformandosi da semplice raccoglitore-consumatore in produttore autonomo di bevande alcoliche.
È probabile che la prima scoperta della fermentazione sia stata del tutto
casuale, a partire forse da avanzi di minestre di cereali ammuffiti o
contaminati da saliva. Comunque sia andata, ci sono innumerevoli prove
archeologiche che l'uomo imparò fin dai tempi più antichi a produrre bevande
alcoliche facendo fermentare cereali, uva e altri frutti in appositi recipienti.
La birra. Le più antiche bevande alcoliche furono probabilmente delle birre di cereali. Anche se quella che oggi chiamiamo "birrà" viene prodotta solo dal malto di orzo con l'aggiunta di luppolo, una specie di birra si può ottenere per fermentazione di qualunque tipo di cereali mescolati con acqua. I più antichi recipienti usati per preparare birra sono stati trovati nell'area mesopotamico-anatolica (Iraq, Turchia) e risalgono a circa 6400 anni prima di Cristo (periodo Neolitico). Molto più recenti, più o meno del 4500 a.C., sono i primi reperti egizi. La birra, ricca di lievito e proteine, nell'antichità non era solo una bevanda inebriante, ma anche un importante alimento oltre che un'offerta rituale agli dei o ai defunti. Ne esistevano diversi tipi, semplici o arricchiti con miele e spezie. Le tombe egizie hanno conservato molte e dettagliate rappresentazioni delle varie attività quotidiane, sia come dipinti o bassorilievi, sia come gruppi di statuette di terracotta colorata. Particolarmente interessanti per noi sono quelle che rappresentano le varie fasi del processo di produzione della birra. L'orzo parzialmente germinato veniva mescolato ad acqua, poi impastato in pani e fatto seccare. Successivamente, questi pani venivano spezzati, mescolati nuovamente con acqua, e messi in vasi per la fermentazione.
La tecnica di produzione della birra si diffuse rapidamente dal Medio
Oriente alla Grecia, a Roma e a tutto il continente europeo. In particolare
conquistò i popoli del Nord, dove certamente arrivò prima della colonizzazione
romana. Sia Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) che, più tardi, Tacito (circa 56-120
d.C.) riferiscono dell'uso di birra fra i Sassoni, i Celti e i Germani. Nel
Medio Evo, che vide il crollo di tutte le attività economiche e professionali,
l'arte della birra si salvò grazie ai monaci. L'uso del luppolo come additivo al
malto di orzo inizia in Germania nell'XI secolo. Da qui passa nei Paesi Bassi e,
molto più tardi, in Britannia. Ciò ha lasciato una traccia importante: molte
parole ancora oggi in uso nell'industria della birra sono di origine
anglosassone.
Il vino. Il vino, che deriva dalla fermentazione dell'uva fresca, pigiata o no, fu inventato sicuramente molto tempo dopo la birra. Le prime tracce della coltivazione della vite domestica (Vitis vinifera) sono state rinvenute nella regione del Caucaso, in Armenia e nel Turkestan, l'area in cui secondo molti, circa 10.000 anni prima di Cristo, nacque l'agricoltura. E forse non è un caso l'identificazione del monte Ararat, il monte sacro degli armeni, come il luogo dove si troverebbero i resti dell'arca di Noè. A Noè, infatti, secondo la Bibbia, si deve la prima coltivazione della vite. Come scrive il Libro della Genesi, che risale probabilmente al 1700 a.C., cessato il diluvio e ristabilita l'alleanza fra Dio e gli uomini, Noè appena uscito dall'arca «piantò una vigna, ne bevve il vino, si ubriacò e si mise a dormire nudo nella sua tenda» (Genesi 9, 20-1). Per cui, secondo la sacra scrittura, Noè sarebbe stato non solo il primo coltivatore, ma anche il primo uomo a dar scandalo per ubriachezza. La Bibbia cita il vino in circa cinquecento punti diversi, sia per elogiarlo, sia per mettere in guardia dai suoi effetti. Al di fuori del mito, si hanno innumerevoli prove dell'importanza culturale ed economica del vino nel mondo mesopotamico e mediterraneo. A partire dal 4000 a.C. circa, oltre che nel Caucaso, Armenia e Turkestan, la vite fu ampiamente coltivata in Caldea, Giudea, Palestina e Egitto. E proprio in Egitto troviamo le raffigurazioni più antiche. Per esempio, nella tomba di Phatah-Hotep, vissuto a Menfi intorno al 4000 a.C., sono rappresentate scene di coltivazione della vite e di produzione di vino. E scene simili si trovano in molte pitture più tarde. Per gli egizi, il vino era, come la birra, un dono di Osiride, e un simbolo di forza e vitalità. In Mesopotamia, il più antico riferimento scritto al vino, alimento degli dei e simbolo di lunga vita, risale a circa il 2350 a.C. Per gli Ittiti, l'antica popolazione anatolica, già nel 1400 a.C. il vino era un importante bene di consumo e di commercio. Ma è soprattutto nell'antica Grecia e a Roma che esso divenne un elemento essenziale della vita sociale, e fu al centro di numerosi rituali religiosi e profani, entrando nella quotidianità e diventando un bene commerciale di primaria importanza. | << | < | > | >> |Pagina 34Nella notte dei tempi... Se domandiamo da quale parte del mondo arriva il papavero da oppio, probabilmente nove persone su dieci risponderanno "dall'Oriente" o "dalla Cina'. Ma non è così. Quasi certamente, in origine, il Papaver somniferum fu coltivato nel cuore dell'Europa: resti fossili di capsule e semi, risalenti a 5000 e più anni fa, sono stati trovati in villaggi su palafitte dell'altopiano centrale della Svizzera e in molte altre zone, inclusa la pianura Padana (Lagozza). Non si sa se questi antichi popoli usassero il papavero solo come alimento, per i suoi semi oleosi, o anche come antidolorifico e sonnifero. Ma l'antichissimo legame del papavero con il sonno e la morte sembrerebbe provato dalle capsule poste come offerte funerarie in tombe neolitiche, e può essere dedotto dalla mitologia greca per la costante associazione del papavero con Ypnos, dio del sonno, Morfeo, dio dei sogni, Nyx, dea della notte, e Thanatos, dea della morte. Fin dall'antichità il papavero fu probabilmente coltivato anche in Mesopotamia. Nelle tavolette mediche dei Sumeri (3000 a.C. circa) si cita una pianta chiamata hul-gil, che sembra essere il papavero da oppio. In un bassorilievo assiro del Louvre (IX sec. a.C.), è raffigurato un medico-sacerdote con in mano un lungo stelo con tre capsule, apparentemente di papavero. A Cipro, sembra, il papavero fu coltivato fin dal 1500 a.C. A Creta è stata trovata una statuetta di terracotta del 1300 a.C. circa, che rappresenta una divinità femminile con la testa coronata da tre capsule di papavero. Anche gli antichi Egizi conoscevano il papavero e l'oppio, che forse inizialmente importavano da Cipro. Molte collane e orecchini rappresentano capsule di papavero. Il papiro Ebers, il più importante testo medico egizio (1550 a.C.), parla di una sostanza chiamata seter-seref o shepen, raccomandata per calmare i bambini che piangono: probabilmente l'oppio.
Il papavero ha grande importanza in Grecia, in Asia Minore e in tutto il
bacino del Mediterraneo orientale. In Anatolia, la città di Afyon - il cui nome
stesso significa oppio - fu a lungo il centro principale di coltivazione, e ad
Afyon era anche il più importante santuario di Cibele, la dea Madre Terra,
sempre raffigurata con spighe di grano e capsule di papavero. Il papavero è
spesso, insieme all'uva, un attributo di Dioniso (Bacco), dio del vino, delle
feste sfrenate e dell'ebbrezza. Molte monete lidie, greche, romane, maccabee
raffigurano capsule di papavero.
L'oppio agli albori della medicina. L'oppio è uno dei farmaci principali della medicina fin dai tempi in cui essa si confondeva ancora con la magia e con la religione, e certo uno dei pochissimi che per il loro valore hanno attraversato i millenni fino ai nostri giorni.
Ippocrate (V sec. a.C.), considerato il più grande medico dell'antichità,
parla più volte dell'oppio
(mekonion),
e lo raccomanda come narcotico e contro la dissenteria. Il contemporaneo Diagora
di Melos accenna per primo alla tendenza al consumo ripetuto dell'oppio.
Teofrasto di Lesbo (IV sec. a.C.) ne descrive l'estrazione dalle capsule del
papavero. Nicandro di Colofone (III-II sec. a.C.) è il primo a parlare della
theriaka,
un "antiveleno" a base di oppio e altre sostanze che avrà una lunghissima
storia. Pedanio Dioscoride (I sec. d.C), medico alla corte di Cleopatra,
descrive molto bene gli effetti dell'oppio:
«Elimina il dolore, calma la tosse, riduce il catarro dei polmoni, blocca i
flussi intestinali, e si applica sulla fronte di chi soffre di insonnia. Però,
prendendolo in gran quantità, fa male, perché provoca letargia e uccide».
L'oppio a Roma. A Roma la medicina fu per lo più praticata da medici greci. Aulo Cornelio Celso, nel suo De medicina (circa 30 d.C.) parla di circa 250 piante medicinali, tra cui il papavero sonnifero, e descrive l'oppio («lacrime di papavero») come farmaco contro il dolore. Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) descrive le diverse varietà di papavero e i loro usi: è il primo a usare la parola latina opium (dal greco opion, "succo"). Nella Roma imperiale del I-II secolo d.C., l'oppio è contemporaneamente farmaco, veleno, e antidoto ai veleni. Nerone, Tito, Nerva, Traiano, Adriano e Marco Aurelio sono i più famosi degli imperatori romani per cui ne è documentato l'uso. Di Marco Aurelio si ricorda non solo la lunga familiarità con l'oppio, che prendeva quotidianamente, ma anche un non riuscito tentativo di disintossicazione, raccontato da Galeno.
Claudio Galeno (131-200 d.C.) fu il medico di Marco Aurelio, per il quale
preparava la
theriaka.
Considera l'oppio buono per tutti i mali: «Combatte i veleni e i morsi degli
animali velenosi, cura il mal di testa cronico, la vertigine, la sordità,
l'epilessia, l'apoplessia, la debolezza della vista, la perdita della voce,
l'asma, la tosse di ogni genere, l'emottisi, la difficoltà di respirare, le
coliche, il veleno iliaco, l'itterizia, la durezza della milza, i calcoli, i
disturbi urinari, le febbri, le idropisie, la lebbra, le malattie delle donne,
la melancolia e tutte le pestilenze». Secondo Escohotado, nel 312 d.C. l'oppio
era venduto in quasi 800 botteghe di Roma, e dava il 15% delle entrate fiscali:
stranamente, in latino esistono una dozzina di parole per indicare il bevitore
di vino e l'ubriacone, ma nessuna per indicare specificamente
il consumatore di oppio.
Quando le scienze fioriscono solo fra gli Arabi. Con la decadenza dell'Impero romano, la scienza medica greca sopravvive presso gli Arabi. Nella prima enciclopedia medica araba (IX secolo), c'è una completa trattazione dell'oppio come analgesico, calmante della tosse, narcotico, veleno o - come theriaka - antidoto ai veleni. È documentato già allora l'uso voluttuario dell'oppio: secondo l'interpretazione dell'epoca, il Corano proibisce il vino, ma non l'hashish o l'oppio, che diventano perciò sempre più popolari. Secondo al-Biruni (973-1048): «Gli abitanti dei tropici e dei climi caldi, soprattutto quelli della Mecca, prendono l'abitudine di usare l'oppio ogni giorno, per eliminare le preoccupazioni, sollevare il corpo dagli effetti dell'intenso calore, avere un sonno più lungo e profondo, ed espellere gli umori superflui e eccessivi. Cominciano con dosi piccole, che però pian piano vengono aumentate fino a dosi letali». Abu Sina (980-1037), noto anche come Avicenna, il medico e filosofo più importante del medioevo arabo, è di origine persiana. La sua carriera di medico inizia proprio con la prescrizione di oppio a un emiro colpito da una colica, e di oppio parlerà ampiamente nel suo Canone («ottunde la mente, diminuisce la coscienza, ostacola le decisioni razionali, debilita la digestione e da ultimo porta alla morte per l'eccessivo raffreddamento delle funzioni naturali»). | << | < | > | >> |Pagina 69Mille e mille anni fa. La canapa è stata sicuramente una delle prime piante coltivate dall'uomo. Fin dall'antichità, fu usata per le fibre, per i semi commestibili, per l'olio estratto dai semi, per gli effetti inebrianti, come farmaco. Senza la canapa, che permise di fabbricare corde e vele robustissime, non sarebbe stata possibile l'evoluzione dell'arte navale che portò ai grandi viaggi di esplorazione e al grande sviluppo dei commerci via mare. Senza la carta, originariamente ottenuta dalla canapa, non sarebbe stata possibile la diffusione e la trasmissione delle conoscenze. La canapa in Cina. In un villaggio dell'isola di Taiwan sono stati trovati resti di corde di canapa che risalirebbero a circa 10.000 anni fa. Numerosi, particolarmente nel nord-est della Cina e nella valle del Fiume Giallo, sono i reperti del Neolitico (4000-2200 a.C.). I più antichi libri cinesi sull'agricoltura citano i due principali usi della canapa, quello tessile e quello alimentare. Intorno al 100 d.C., i cinesi inventarono la carta, anch'essa ottenuta inizialmente dalla canapa, e ne conservarono a lungo il segreto. Solo verso il IX secolo la tecnica di fabbricazione fu copiata dagli arabi.
Il
Pen Ts'ao Ching,
il più antico trattato cinese di medicina (le cui nozioni si fanno risalire al
mitico imperatore Shen-Nung e al III millennio a.C.), dice che la canapa è utile
per disturbi mestruali, malaria, beri-beri, stitichezza, dolori reumatici e
disturbi mentali. E contiene anche una sorta di avvertimento riguardo alle
proprietà psicoattive: ad alte dosi, la canapa «fa vedere demoni».
La canapa in India. Tutt'altra storia è quella dell'India, permeata di spiritualità e misticismo, in cui le proprietà psicoattive della canapa, scoperte fin dai tempi più antichi, ebbero una grande importanza, diventando elemento fondamentale nella vita religiosa. Fin dall'antichità, in India la canapa viene usata in tre preparazioni principali, di diversa potenza: - bhang, la preparazione più leggera: foglie e infiorescenze secche, mescolate con altre spezie in dolcetti detti maadjun, o da usare come bevanda (in genere a base di latte), previa bollitura o infusione; - ganja, molto più potente: preparazione da fumare, a volte mescolata a tabacco, fatta solo con le foglie delle cime e con le infiorescenze femminili; - charas, la preparazione più potente di tutte, equivalente all'hashish: pura resina delle infiorescenze femminili, anch'essa da fumare. All'India spetta il più antico riferimento scritto alle proprietà inebrianti della pianta. L' Atharvaveda ("Libro degli incantesimi"), scritto fra il 2000 e il 1400 a.C., narra la leggenda del dio Shiva che, trovato riparo dalla calura del mezzogiorno all'ombra di una pianta di canapa, ne mangia le foglie e ne farà per sempre il suo cibo preferito, donandola poi anche agli uomini. L' Atharvaveda dice anche che la canapa «libera dall'angoscia». Diversi sistemi medici tradizionali indiani, tra cui l'Ayurvedico e l'Unani, mettono la canapa fra i farmaci principali. Come scrisse J.M. Campbell in una Nota acclusa al famoso rapporto dell'Indian Hemp Drug Commission (1892-1894), in India la canapa viene ampiamente usata nella medicina popolare in quanto, oltre a curare la febbre: «raffredda il sangue caldo, provoca il sonno negli ipereccitati, dona bellezza e assicura lunga vita. Cura la dissenteria e i colpi di calore, purifica il flegma, accelera la digestione, stimola l'appetito, corregge la pronuncia nella blesità, rinfresca l'intelletto, dona vivacità al corpo e gaiezza alla mente». Anche se «in eccesso provoca ascessi, o anche pazzia». | << | < | > | >> |Pagina 107Paese che vai, droghe che trovi. Il 15 ottobre 1492, tre giorni dopo il famoso «Terra, terra!», Colombo scrive nel suo diario: «Nel mezzo del golfo fra queste due isole trovai un uomo solo nella sua canoa che andava dall'isola di Santa Maria all'isola Fernandina. Aveva con sé cibo, acqua e delle foglie secche che devono essere una cosa molto apprezzata da loro, perché me ne avevano già offerte alcune in dono a San Salvador». Queste ultime parole dicono che fin dal giorno dell'arrivo in America Colombo e i suoi videro - senza capire che cos'erano - le foglie di tabacco, offerte dagli indigeni come dono. Ben presto Colombo scoprì che gli indigeni di quelle che egli credeva "le Indie" ogni tanto si mettevano in bocca una specie di rotolo di queste strane foglie secche, lo accendevano, e inalavano voluttuosamente il fumo. Una cosa mai vista in Europa. Infatti, alcune settimane dopo il primo contatto con le foglie, gli esploratori inviati da Colombo all'interno di una delle isole (forse Cuba), alla ricerca del palazzo del Gran Khan, descrissero questa sorprendente usanza: gli indigeni «bevono il fumo». Per chi usava il fuoco solo per cuocere i cibi, scaldarsi o fare luce, "fumare" era una cosa che poteva lasciare molto perplessi. Ma è così che avvenne la scoperta del tabacco da parte dell'Occidente, e Colombo ne prese diligentemente nota nel suo diario. Trentacinque anni dopo, nel 1527, Fra Bartolomé de las Casas descrisse a sua volta questa avventura nella sua Historia de las Indias, notando anche che questi rotoli di foglie erano chiamati "tobacos". Bartolomé de las Casas è anche il primo a riconoscere la dipendenza da tabacco: «Ho conosciuto Spagnoli in quest'isola di Hispaniola [Cuba] che avevano preso l'abitudine di usarli, ed essendo rimproverati per questo, e avvisati che si trattava di un'abitudine viziosa, risposero che non era in loro potere smettere di usarli». Tutti gli esploratori che arriveranno nel Nuovo Mondo negli anni successivi racconteranno di queste foglie tanto desiderate. André Thevet nel 1557 descrive dettagliatamente l'uso ricreativo e rituale del tabacco presso gli indios Tupinamba del Brasile. Pedro Cabral, approdato qualche anno dopo sulle coste del Brasile, descrive per primo l'uso della pipa. Altri scoprono che il tabacco può anche essere "masticato", messo in infusione e usato come bevanda, o fatto seccare, ridotto in polvere finissima e "fiutato" attraverso una cannuccia biforcuta, le cui estremità si inseriscono nelle narici. Gli europei scoprirono non solo i diversi modi di usarlo, ma anche molte altre cose. Per esempio quello che oggi chiamiamo effetto bifasico della nicotina, che a basse dosi è uno stimolante e un analgesico, capace anche di ridurre fame e sete, mentre ad alte dosi è un narcotico e un allucinogeno. Oppure le diverse situazioni in cui esso si usava, e i diversi scopi per cui lo si usava. Il tabacco serviva infatti per consolidare amicizie, tenere consigli di guerra, fare danze di guerra, dare forza ai guerrieri. Ma serviva anche a propiziare il bel tempo, una buona caccia, una buona pesca, il successo in amore, nonché per entrare in trance e avere visioni, interrogare gli spiriti, curare malattie. | << | < | > | >> |Pagina 117Le origini. La pianta del caffè è con ogni probabilità originaria dell'altopiano etiopico. Le sue origini e la sua scoperta sono sconosciute, e dobbiamo affidarci alle molte leggende. In una delle più famose, si racconta che un pastore vide un giorno le sue capre correre e saltare tutte allegre e piene di energia dopo aver mangiato le bacche di un arbusto. Il pastore provò anch'egli a mangiare le bacche, e scoprì l'effetto stimolante del caffè. Una variante dice che il pastore riferì la storia delle capre a un religioso derviscio, il quale pensò subito di usarlo con i suoi confratelli per restare svegli nelle notti di preghiera. Un'altra leggenda ancora dice che l'Arcangelo Gabriele fece dono del caffè a Maometto ammalato, per tenerlo sveglio e assicurargli una rapida guarigione. Comunque siano andate le cose, pare che il caffè fosse noto agli Arabi già nel VI secolo. [...] Punti di vista... Dato che molti si sorprendranno dell'inclusione di queste pagine sul caffè in una storia delle "droghe", vorrei far notare che ciò che è o non è "droga" è molto spesso solo una questione di punti di vista. O un atteggiamento mentale legato allo spirito del tempo in cui si vive. Solo cent'anni fa - quando si cominciava a ragionare pubblicamente sui "narcotici", e qualcuno pensava di proibirli, così come moltissimi avrebbero volentieri proibito le bevande alcoliche - il caffè e il tè non erano certo visti come oggi. Ecco quello che scrisse T.D. Crothers, professore di Malattie nervose e mentali della New York School of Medicine. Sul caffè: «In alcuni casi estremi, si manifestano stati illusionali di carattere grandioso; raramente violenti o distruttivi, ma generalmente con aspetti di avventatezza e di incapacità a riflettere. Associati ad essi compaiono sospetti di errori e ingiustizie subiti da altri; o stravagante credulità e scetticismo». E sul tè: «È un fatto ben conosciuto in tutti gli ambienti medici che un considerevole numero di persone si danneggiano seriamente con l'eccessivo uso di tè ... In molti di questi casi il medico viene chiamato a curare improvvisi attacchi di delirio e allucinazioni stravaganti, come la comparsa di tumori, malattie, infezioni, o veleni contagiosi, tutte basate sui sintomi soggettivi. Queste condizioni durano diversi giorni, con intensità variabile» (T.D. Crothers. Morphinism and Narcomanias from Other Drugs. Philadelphia, Saunders 1902, pag. 303 e 311-2). [...]
Ma al di là di queste espressioni, che oggi nessuno si sognerebbe più di
usare, resta il fatto incontrovertibile che la caffeina è una droga. E per di
più di quelle che danno non solo dipendenza psichica, ma anche dipendenza
fisica. I lettori che prendono regolarmente più di 5 o 6 caffè al giorno possono
fare un esperimento su se stessi. Smettano di colpo di prendere caffè. Dopo 24
ore di astinenza non si sentiranno più tanto bene. Saranno fiacchi e irritabili,
e qualcuno si sveglierà con un mal di testa che con il passare delle ore
diventerà insopportabile. Ma con un bel caffè doppio - cioè con una buona dose
di droga - questa fastidiosa crisi da astinenza sparirà per miracolo.
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