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| << | < | > | >> |Pagina 5Un paio di volte al giorno, dalla mia finestra a occidente, posso scorgere un treno percorrere le vaste distese prative del fondovalle. È questo l'unico segno che mi rammenta il mondo dal quale provengo, un segno discreto, e così lontano da non turbare neppure fuggevolmente la quiete in cui sono immerso. Vedo il lungo convoglio scivolare sull'erba, più silenzioso di quei trenini elettrici con cui amavo giocare da bambino, e a volte mi diverto a contare i minuscoli vagoni prima che scompaiano l'uno dopo l'altro dietro le pendici di una montagna.Ogni cosa, qui all'Hotel Flora, corrisponde grossomodo alle mie aspettative. All'arrivo l'impiegato della reception mi ha accompagnato alla mia stanza attraverso una serie di sale e di corridoi in cui a quell'eleganza generica che accomuna gli alberghi di un certo livello si aggiungevano qua e là tocchi di colore locale: sculture di legno, angeli dipinti dalle alucce dorate, riproduzioni di antiche miniature, insomma, tutto queh'amabile bric-à-brac dello stile alpino che non mi sentirei di definire bello e che pure ogni volta mi commuove, come ci commuovono le piccole, innocue manie dei nostri cari. Nello stesso stile è ovviamente arredata la mia camera, dove le comodità moderne ritenute a torto o a ragione indispensabili, dal frigo bar al televisore, sono state confinate negli angoli meno visibili per non turbare l'atmosfera d'insieme. Questi mobili di legno dipinto, sulle cui superfici si intrecciano complicate ghirlande di fiori, non li tollererei mai in casa mia, ma qui mi sembrano perfettamente appropriati. Così non posso guardare senza un impeto di infantile felicità il letto coperto dallo spesso piumino sul quale i cuscini sono stati sistemati in modo da assumere una forma torreggiante. Qualche volta la mattina, attraverso gli usci aperti delle stanze, mi è già accaduto di scorgere le cameriere che modellavano con pochi tocchi sapienti quelle singolari sculture. Si tratta certo di ragazze del posto, il gusto dell'ornamento e la ripugnanza per tutto ciò che è meramente funzionale devono essere innati in loro a tal segno da guidarne i gesti persino nel rifare i letti. Ma anche senza considerare questo speciale talento di cui sono dotate, il loro stesso aspetto, quando le si incontra in corridoio o si ha la ventura di vederle entrare nella stanza per portare un posacenere o una coperta, non può non suscitare nel turista sensibile un'intensa soddisfazione: sono tutte bianche e rosse, hanno occhi chiari e vivaci e ricciuti capelli delle più varie sfumature di biondo, e la sana rotondità delle loro figure avrebbe fatto la gioia della strega di Hänsel e Gretel. Insomma, paiono create anch'esse in puro stile alpino, come quegli angioloni dipinti con cui presentano un'innegabile somiglianza, e tale impressione è rafforzata dagli abiti che indossano, camicette bianche dalle corte maniche a sbuffo e ampie gonne verde scuro che scendono in pieghe ordinate sino a sfiorare le caviglie. I camerieri sono meno graziosi, ma svolgono le loro mansioni con ammirevole solerzia, sicché davvero sembra non mi rimanga nulla da desiderare. Anche l'idromassaggío funziona a meraviglia, e il balcone sul lato ovest mi consente di seguire i mille, appassionanti colpi di scena che il sole al tramonto escogita ogni sera inondando il paesaggio di una luce sempre diversa. Solo il salottino è più piccolo di quanto mi aspettassi, ma abbellito da un pittoresco bovindo; ad ogni modo mi offre tranquillità sufficiente per rivedere le bozze del mio saggio sul simbolismo e magari per iniziare quel nuovo libro di cui finora non ho stabilito altro che il titolo, Narciso e Narciso, ovvero i labirínti della bellezza. Il giorno stesso dell'arrivo, più per ricreare un'atmosfera domestica che nutrendo seriamente l'intenzione di lavorare, ho sistemato i libri nell'unico scaffale disponibile e le mie carte sullo scrittoio, una sorta di secrétaire prodigo di cassetti e cassettoni di ogni dimensione e sormontato da un grosso crocifisso di legno. Quell'immagine in un certo senso mi disturba, non saprei immaginare nulla di più estraneo ai pensieri che vado elaborando quando siedo allo scrittoio: una qualche divinità greca, o magari addirittura un Narciso, si sarebbe intonato meglio all'oggetto dei miei studi. In sé, comunque, il crocifisso merita una blanda ammirazione. È di fattura piuttosto rozza, rivela una totale ignoranza circa le proporzioni effettive del corpo umano, eppure ogni volta che lo guardo sono colpito dalla sua sconcertante potenza espressiva. Per quanto il paragone possa suonare assurdo e addirittura sacrilego all'orecchio di un intenditore, mi rammenta in qualche modo il Cristo dipinto da Grünewald per l'altare di Isenheim. Forse la somiglianza è data dalla posizione del corpo che anche qui appare teso, quasi stirato dal dolore: l'esatto opposto di quell'abbandono un po' decadente che caratterizza nella maggior parte dei casi le immagini di San Sebastiano. Non il compiacimento, ma la nuda iperbole della sofferenza. Che tutto ciò possa risultare convincente dal punto di vista estetico è un paradosso che non finirà mai di stupirmi. | << | < | > | >> |Pagina 61Camminare, camminare, camminare: oggi sento davvero il bisogno di stancarmi, di vagare per boschi e prati fino a quando il sole, abbassandosi sull'orizzonte, non mi segnalerà che è giunto il momento di tornare indietro. Cammino da un pezzo, senza curarmi di leggere ai crocevia i numeri dei sentieri, sicché ormai non so assolutamente dove mi trovo. Posso dire di essermi perso, esperienza nuova e a suo modo eccitante: la zona che sto attraversando mi risulta del tutto sconosciuta e da più di un'ora non incontro anima viva. L'ultima persona che ho incontrato, un giovane turista munito di zaino, mi ha chiesto indicazioni per tornare in paese confessandomi di aver smarrito la strada; ho risposto che l'avevo smarrita anch'io, e ci siamo salutati ridendo.Per quanto mi è dato di capire sto risalendo una piccola valle laterale, incassata tra le montagne, dalla quale non posso scorgere né le case del villaggio, né il ridente panorama che finora ha fatto da cornice alle mie passeggiate. In qualunque direzione io guardi, la visuale è interrotta quasi subito dalle ripide pareti dei monti, ora nude e rocciose, ora coperte di una vegetazione caotica. Non si ode alcun rumore, salvo un boato lontano di cui non riesco a stabilire l'origine. Ma ecco che all'improvviso il percorso obbligato che sto seguendo si interrompe, e mi trovo davanti a un bivio. Sulla destra il sentiero svolta digradando, presumibilmente verso il fondovalle; a sinistra, lungo il fianco della montagna, serpeggia un viottolo di terra battuta al cui imbocco sorge un cartello indicatore a forma di freccia. Mi avvicino al cartello e sulla sua superficie di legno scrostato riesco a decifrare a fatica, in alti caratteri goticheggianti, la scritta: "Grand Hótel d'Europa et des Alpes". Un Grand Hotel? È davvero strano. Nessuna delle mie guide turistiche menzionava l'esistenza di un Grand Hotel al villaggio o nei dintorni, a quanto mi risulta il miglior albergo del posto è l'Hotel Flora. E poi, un Grand Hotel proprio quassù, in questa zona impervia e fuori mano, dove si può capitare soltanto per caso o per un caparbio desiderio di evitare gli itinerari più frequentati... Incuriosito, decido di seguire la direzione indicata dalla freccia. Quanto più procedo, tanto più mi sembra incredibile che abbiano costruito un albergo in una zona così selvaggia e disabitata. Non vi è neppure una panchina lungo l'interminabile sentiero, non una di quelle edicole con il crocifisso che altrove si incontrano ad ogni pie sospinto, e persino i prati hanno un'aria incolta, polverosa, del tutto inconsueta da queste parti dove pendii e radure appaiono sempre ammantati di un brillante velluto. Da qualche tempo avverto intorno a me una crescente umidità che, insieme con il boato ora più vicino e chiaramente riconoscibile come uno scrosciare d'acqua, mi rivela la presenza di un torrente. Forse per effetto di tale rivelazione, all'improvviso mi assale un leggero brivido di freddo e mi affretto a infilare il golf che finora avevo tenuto legato intorno alla vita. Sono tentato di tornare indietro, quando mi si para dinanzi un altro cartello: "Grand Hótel d'Europe et des Alpes", e la freccia consiglia al viandante di seguire ancora il viottolo. Un consiglio superfluo, almeno per chi non abbia intenzione di lasciarsi rotolare lungo la scarpata irta di rovi che in questo punto costituirebbe l'unica alternativa.
Quanto a me, preferisco obbedire alla freccia e
proseguire tenendomi il più possibile lontano dal ciglio del
sentiero. A tornare indietro ho rinunciato,
sono troppo curioso di vedere che aspetto abbia questo Grand
Hotel d'Europe e che specie di clientela vi alloggi. Vipere
e porcospini, suppongo, o forse, come suggerisce lo scroscio
sempre più fragoroso del torrente, una scelta compagnia di
bisce d'acqua dall'elegante livrea smeraldina.
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