Copertina
Autore Giorgio Caproni
Titolo Racconti scritti per forza
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Nuova Biblioteca 80 , pag. 446, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x3 cm , Isbn 978-88-11-68337-7
CuratoreAdele Dei
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


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Indice

Introduzione                                  7

LA DIMISSIONE
I 23 II 29 III 35 IV 40 V 49 VI 53 VII 59 VIII 66 Il gelo della mattina 68
RACCONTI DI GUERRA E PARTIGIANI
Colloquio col capitano 87 A causa dei motori 90 Il rumore dei passi 94 Come un'immensa pietra 100 L'arma in pugno 103 Il segreto 106 Tana da' 'Urpe 110 Sangue in Val Trebbia 114 Anche la tua casa 121 Un discorso infinito 127 Il Natale diceva Pablo... 136 Il labirinto 138 Bandiera bianca 165
IL DOPOGUERRA
Invisibili rovine 175 Il sasso sui bambini 178 Una spallata al re 183 Il segno della schiavitù 187 Per colpa dei poveri 191 Le coltellate 195 La forza dell'automobile 199 Il Paradiso 203
INCONTRI DIFFICILI
Il biglietto 209 Il giuoco del pallone 215 La lontananza dal mondo 229 Il cappuccino 235 Il suono del violino 239 Una paura misera 245 Delitto d'amore 250 La collisione 255 Nell'anticamera del Procuratore del Re 261 Un indicibile batticuore 266
STORIE DI MARCELLINO
La tromba del silenzio 273 Aria celeste 278 Come in una foresta 283 Il Largo di Veracini 287 Concertino 291 Il bagno di luce 295
IN POLONIA
Impresa Wasovicz 301 L'odore dei capelli 306
RACCONTI DI TERRA E DI MARE
Grande pesca in Atlantico 313 Cinquanta cavallini nuovi 321 Brindisi sulla terrazza 326 Sotto la luna mediterranea 330 Messaggio dal faro 341 La maliarda 344 Nota al testo 375 Note ai racconti 387  

 

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Pagina 22

LA DIMISSIONE
[1937]



Un ordine m'arrivò all'improvviso verso la fine dell'anno: ero trasferito a R., così su due piedi, il quale essendo un luogo che nemmeno una volta avevo ancor sentito nominare, mi misi a cercare subito su una carta trovando col dito questo: ch'era in una gola dell'Alta Val di Tr. - una zona completamente a me ignota.

Ne rimasi scosso, soprattutto perché l'ordine telegrafico non dava la minima spiegazione di quel movimento, per esso concedendomi un maximum di ventiquattr'ore. «Seguiranno istruzioni in loco», diceva il testo telegrafico. E anche questo diceva, togliendomi con ciò la speranza che si trattasse d'una missione brevissima: «Vostra Signoria ivi fisserà temporanea dimora».

Nella medesima mattinata un giovanotto pressappoco della mia età si presentò nel mio ufficio: «primo Commissario Governativo Adolfo Zerba», mi disse inchinandosi e porgendomi la carta statale che lo qualificava mio successore. Cui a me non rimase che restituire l'inchino e la presentazione («Mariano Gruker, Commissario uscente»), subito iniziando le dovute consegne.

Ero da quel momento, nel mio ufficio, ospite del signor Zerba, e espletate le pratiche di rito per il trasferimento dei poteri fu lui il primo a offrirmi una sigaretta e una conversazione che non aveva più nulla ormai d'attinente al nostro ministero. Senonché non piacendomi troppo il suo modo un poco untuoso di fare (capivo con fastidio ch'egli s'ingegnava di non mettermi a disagio - cioè ch'egli si sentiva nei miei riguardi, chissà perché, in trionfo) tagliai corto col miglior garbo possibile dicendo: «Ho appena ventiquattr'ore di tempo e non so nemmeno che razza di viaggio mi tocca fare. La prego di scusarmi se le chiedo commiato e il permesso di salutare un attimo i miei ex subalterni».

«Ma le pare», mi rispose nuovamente inchinandosi il signor Zerba. E uscendo dallo scanno dietro lo scrittoio dove già s'era insediato, aggiunse: «Lei può rimanere nei locali finché vuole – io certe cose le capisco».

Non so cosa potesse capire, comunque un poco irritato per quest'ultime sue frasi lo pregai di far chiamare il primo Segretario. Al quale come fu giunto dissi di presentare lui ai nostri funzionari il Signor Commissario entrante, io purtroppo non avendo che ventiquattr'ore di tempo per spostarmi. E presentatolo a mia volta col cerimoniale d'uso al signor Zerba, uscii alfine da quella che non era più la mia stanza facendo il giro per stringere a uno a uno la mano ai miei dipendenti: a coloro che non avevo voluto radunare in forma ufficiale per il commiato e la presentazione, non foss'altro per non dare una soddisfazione a colui ch'era subentrato in un modo che mi parve antipatico nella sua perfetta correttezza burocratica.

Strinsi la mano a tutti, anche all'usciere commosso fino alle lacrime, e varcato il portone del Palazzo Governativo corsi a preparare alla meglio il bagaglio e un itinerario per mettermi il giorno stesso in viaggio.

Ciò che m'angustiava di più era soprattutto questo: il pensiero di non avere agio di poter salutare la mia fidanzata, cui avevo appena fatto in tempo a comunicare le solite righe permesse dall'economia telegrafica: «Improvvisamente trasferito a R., scriverò. Parto oggi stesso, Mariano»; con i baci in più e un «tranquillizzati», ch'ora mi pareva la più infelice di tutte quelle parole asciutte, in quanto non c'era forse qualcosa in me per cui proprio io non avrei potuto dirmi, a causa di quel comando repentino, in una condizione di assoluta tranquillità?

«È il fastidio di non saper ancora il perché», mi dicevo per giustificare la mia vaga inquietudine. La quale forse non sarebbe nemmen cresciuta tanto da diventare vera e propria assenza di tranquillità, se nell'ufficio dell'Ispettore Generale dove mi recai per la visita di dovere, proprio lui in persona non m'avesse detto:

«Credo d'immaginare, Gruker, il suo stato d'animo. Credo che anche a lei è facile immaginare lo scopo della sua missione. Io sono fiero, Mariano Gruker, che per una cosa tanto delicata sia stato scelto un funzionario educato (mi permette di dirlo?) da me».

E mentre io stavo a sentire pieno d'interna sorpresa, aggiunse:

«Lei conosce l'Alta Val di Tr., no? È un luogo dove bisogna stare un poco in guardia – una zona, come lei ben sa, in cui...». Ma io non sapendo nulla del luogo né immaginando nulla della mia «missione», non potei non interrompere onestamente il mio superiore: «Io non conosco affatto l'Alta Val di Tr. Eccellenza. Mi permetta di dirle che R. l'ho sentito nominare ora per la prima volta e che non posso minimamente immaginare perché mi si mandi là».

E fu allora che ebbi alfine un po' di lume, proprio dalla bocca cordiale di Sua Eccellenza:

«È un luogo dove il polso del Governo non si sente più», mi disse. «Immagino e le auguro che lei sia stato comandato là appunto perché vi torni la presenza del polso governativo. In tal caso (un caso di cui non dubito affatto) ho ragione d'essere fiero della scelta caduta su lei».

E disse anche, con uno di quei suoi improvvisi slanci d'umanità che spesso accusavano in lui, sotto la veste ufficiale, un uomo eccellente:

«Mi permetto di darle un consiglio. Usi tatto ed estrema fermezza. Credo non abbiano scelto lei a caso: è perché non c'è fra noi un altro Commissario (le assicuro che in questo momento i complimenti sarebbero assolutamente fuori luogo) che possa imporsi quanto lei con la sola presenza fin dal primo apparire. Una minima crepa in quello che si chiama ascendente o prestigio della propria personalità, laggiù per lei potrebbe significar la rovina totale».

Ero davvero un poco emozionato a causa di queste parole e se n'accorse subito l'Ispettore:

«Vede», mi disse pieno di persuasione, «si tratta in definitiva di saper costruire bene i primi istanti di contatto che sono i più difficili. È gente ormai abituata a irridere e si tratta fin dal primo istante di fare in modo che ciò non accada pur usando solamente le proprie risorse strettissimamente personali: cioè il proprio contegno in modo che la prima impressione, nonostante tutto, sia di rispetto. Il resto poi verrà da sé; come naturale conseguenza di questo primo anello della catena».

Era un discorso geometrico che pur piacendomi e convincendomi come ogni cosa esatta, in me tuttavia l'assenza di tranquillità subentrò lo stesso soprattutto per questo, per la domanda improvvisa che sorse in me: «Per una faccenda così seria quanto tempo avrei dovuto restare a R.?». Pensavo che a questo modo il mio matrimonio sarebbe andato alle calende greche, e con una stizza di cui per fortuna non s'accorse il mio superiore uscii dall'Ispettorato per dirigermi, gremito d'inquietudini cui cercavo invano di ribellarmi, verso casa e quindi al mio nuovo destino.

Ma ora al lettore forse è bene ch'io specifichi, prima di proseguire in queste note, quella certa agitazione che m'era presa e che non vorrei nemmeno ora chiamare inquietudine. Di volo ne ho già accennato la causa: prevedevo ormai una lunga e difficile permanenza a R., ciò rovinando totalmente i piani del matrimonio ormai prossimo fra me e Olga, la mia fidanzata. Senonché devo ancor dir questo: io non avevo un'eccessiva fretta di «celebrar» tali nozze. E poiché questa è una confessione a quell'unico Lettore cui veramente mi rivolgo (occorre che lo nomini?), io dirò anzi che da questo punto di vista, se non fossi stato una persona educatissima, tale differimento avrebbe perfino potuto inebriarmi di gioia pur lasciandomi intatta e pulita la coscienza. Ma proprio perché ero una persona educata e colma del senso dell'onore, differire sia pure mio malgrado una data a una fanciulla cui del resto ora, sul punto di lasciarla, sentivo per la prima volta con viva sorpresa d'esser legato da un sentimento meno stanco di quello che supponevo, mi diede un dolore forse pari a quello di chi è illimitatamente innamorato. Perché sapendo infine che di me era illimitatamente innamorata Olga, il dolore che di certo sarebbe penetrato in lei per il differimento d'una data a lei promessa quale impegno d'onore entrava in quel momento, acutissimo e imprecisabile, pure in me.

Insorgevano ora in me le immagini e le parole di Olga, quali io le avevo ricevute nell'ultima mia visita a X (una cittadina di riviera tra il mare e le olivete, distante dal capoluogo dov'io prestavo servizio non più di cinque ore a buona velocità), e soprattutto queste frasi mi suonavano vive nel petto:

«Dovunque ti recherai io sarò presente, Mariano. So che in questo momento così delicato il Governo potrebbe trasferirti da un momento all'altro chissà dove, ma so anche che ovunque tu andrai tu mi chiamerai. Perché tu m'hai promesso che il mio destino deve compiersi unito al tuo».

Ed erano frasi cui, se allora non avevo fatto gran caso, ora tornavano in me con un indicibile sapore doloroso – d'un dolore che non sapevo con precisione se mio o di lei ma che certamente mi legava proprio in quell'istante a Olga con una potenza che non avevo sentito mai.

Amavo dunque veramente Olga e soffrivo dunque veramente per lei ora che dovevo distaccarmene? Senonché non era nemmeno questa domanda troppo categorica e inutile la radice del mio orgasmo. Amare o non amare Olga era in certo senso indifferente, dico per quanto riguardava la mia situazione: in quanto quel che contava ora era la promessa fatta, ineliminabile anche se un sentimento avverso fosse per caso insorto in me. Piuttosto ora quelle parole di lei suonandomi come uno strano presentimento suo, generavano di rimbalzo nel mio animo un presentimento nient'affatto lieto e peraltro inspiegabile sul mio nuovo destino — una specie di biglietto nero per un viaggio di cui ora presagivo un esito imprecisabilmente cupo.

Generavano dunque la mia inquietudine (ora bisogna proprio che la chiami così) questi due sentimenti: il disappunto di dover mancare a una parola data a una giovinetta e, infinitamente più profondo di quel disappunto, il superstizioso presagio di dover compiere a R. il mio destino con grave responsabilità rispetto a quello di Olga («Perché il mio destino», aveva detto Olga, «deve compiersi unito al tuo»), ciò scoprendo nel mio carattere una debolezza cui qualsiasi altra sciagura, credo, allora sarebbe stata preferita dal mio incommensurabile orgoglio. Ed ero veramente intricato in questa rete di pensieri per nulla confortevoli, mentre due ore dopo un'autocorriera mi trasportava a R. carica di sovraeccitati dialetti, ciascuno d'una mistura sufficiente a darmi una sensibile idea geografica (quasi il punto) di R., fino alla mattina ignorato perfino di nome: un cuneo fra le tre regioni settentrionali, che in esso infatti avevano un pernio come già prima avevo potuto vedere col dito puntato in quel luogo nella carta.

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Pagina 87

COLLOQUIO COL CAPITANO
[1948]



Adelina era giunta quasi di corsa al Deposito. Batteva un sole immenso sull'atrio di cemento, e tante donne erano aggruppate in quel sole per chiedere all'ufficiale di picchetto proprio la stessa cosa che voleva chiedergli lei: di parlare un minuto solo col capitano.

Adelina squadrò un attimo quelle donne un poco preoccupata, subito però ridistendendo il suo animo, comprendendo subito che nessuna di esse, nemmeno le ragazze più giovani, potevano starle a pari. Infatti l'ufficiale di picchetto, che con le altre era pieno di cavilli, con lei diventò subito molto gentile: «Veramente non è possibile vedere il capitano», disse, «comunque lei può parlare liberamente con me». La fece entrare nella saletta a lui riservata e la fece sedere, anche lui sedendosi di fronte a lei.

Adelina era vestita di bianco e aveva le braccia nude: era un vestitino d'un tulle molto leggero che lasciava trasparire l'odore del corpo giovane e della cipria. S'era data molta cipria e anche un po' di profumo che ora si spargeva nella saletta avvolgendo le dure cose militari, e l'ufficiale di picchetto, coi baffetti neri stirati all'insù com'usavano allora, era molto ben disposto proprio a causa di quel profumo, mentre ogni tanto si sentivano nel sole gli squilli delle cornette che chiamavano i caporali di giornata.

Aveva raccontato con garbo lo scopo della sua visita: voleva convincere il signor capitano a richiedere subito indietro suo marito e a dire ch'era stato messo in lista per uno sbaglio. Non era un elemento insostituibile, suo marito?

L'ufficiale di picchetto non si decideva a farla accompagnare. «Già, già, già», diceva, «io la capisco, signora mia; ma è una cosa molto difficile, molto». E non si decideva a farla accompagnare dal capitano: perdeva il tempo stando soprappensiero e tamburellando con le dita sul piccolo tavolo presso il quale, lui di fianco con le gambe accavallate, stavano seduti.

«Mi lasci dunque parlare col capitano», disse alfine lei con uno scatto di cui si pentì subito aggiungendo: «Sia tanto buono di farmi parlare subito col signor capitano, prima che la tradotta sia partita». E poiché l'ufficiale continuava a tamburellare perplesso il tavolo, Adelina, con uno sforzo enorme, proprio perché in alcun modo poteva tollerar più quel silenzio e quelle dita in cui era ormai tutto il rumore della guerra, posò la mano sul dorso di quella dell'ufficiale e ancora una volta disse sforzandosi di guardarlo negli occhi: «La prego, sia buono».

L'ufficiale smise subito di tamburellar con le dita, quasi avesse paura che quel movimento facesse fuggir la mano di lei. Fece, impercettibile, l'atto d'afferrar quella mano che invece si ritirò adagio strisciando sul dorso della sua, e con un'aria un poco ebete disse guardandola in viso: «Benedette queste signore innamorate del marito». Senonché lei non cadde nel laccio, comprese l'intenzione di questa frase (lo scopo inquisitivo di essa) e mentendo perché ormai si sentiva sicura di poter portar fino in fondo quel necessario giuoco, diede proprio la risposta che mosse il cuore dell'ufficiale: «A certe cose come vuole che ci si pensi? Io ho bisogno di mio marito perché ho una famiglia».

L'ufficiale ora la guardava con una strana aria di padronanza e, alzandosi con un gran sospiro, come se stesse per compiere Dio sa quale sacrificio, «Lei lo sa ch'è irresistibile?», disse a bruciapelo a Adelina che non poté frenare una vampa di rossore improvviso. «Lei – continuò l'ufficiale di picchetto muovendosi con estrema lentezza – mi farà prendere il più solenne cicchetto della mia carriera, perché gliel'ho già detto che ho la consegna di non far entrare nessuno. E lei poi – fece un altro sospiro nel dire questo – si dimenticherà perfino di passare a ringraziarmi, lo so. Sono tutte così queste benedette signore innamorate del proprio marito». E anche questo disse, mentre con le dita sottili s'era messo a frugare nel portafoglio: «Comunque mi permetta di...». Non continuò la frase e le mise in mano il suo biglietto da visita aggiungendo: «Si ricordi ch'io sarò sempre felice di esserle utile, per quel che potrò». E soltanto a questo punto, quasi avesse alfine compiuto un doloroso dovere, si decise a chiamare il sergente d'ispezione riacquistando d'un tratto il suo comportamento militare: «Accompagnate la signora dal capitano», ordinò portando la mano alla visiera mentre Adelina, con quel biglietto che le scottava fra le dita come una lamina arroventata, s'avviò senza una parola dietro il sergente.

Era già per le scale quando pensò sentendosi avvampare: «Ho recitato bene la mia parte, m'ha preso proprio per una di quelle». Senonché si sentiva anche stranamente fiera di aver raggiunto, con quel mezzo, i suoi scopi, ora preparandosi per le scale a recitar la sua parte anche con il capitano. Perché anche con lui, certo, doveva prostituirsi un poco a quello stesso modo: era proprio nei suoi calcoli, ciò, comprendendo bene che quella era l'unica arma nelle sue mani fragili di donna.

«Darò qualche irrealizzabile speranza anche al capitano», pensava convincendosi che dopotutto non sarebbe stato per lei un grosso peccato. Ma intanto perché le trombe continuavano a squillare nel sole? Cos'aspettavano ancora, nella caserma e nell'universo, tante donne?

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Pagina 215

IL GIUOCO DEL PALLONE
[1948]



Ill.mo Signor Direttore
del Carcere Giudiziario di Marassi
Genova


Il sottoscritto detenuto per reato comune Orlandini Osvaldo fu Lucrezio, cella 118 Ala Sud, rispettosamente espone alla S.V. Ill.ma che da ragazzo suo padre lo portava per mano sui prati neri di trifoglio, a Livorno, a veder giuocare a pallone le squadre dei sedicenni venuti su di città.

Pertanto il sottoscritto si permette di ricordare che essendo essi ragazzacci aizzati dai primi subbugli del sangue, in camiciola e con le gambe già irte di peli urlavano anarchicamente sui campi - facevano scempio di erba medica e di trifoglio, dalle loro gole uscendo le più sbavagliate parolacce del non delicatissimo vernacolo labronico: un'altalena di «madonna qui» e «madonna lì» e «tu' ma' buona'», che nell'odore nero ed umido di terriccio in tanto spazio aperto si accordava con indicibile armonia ai colpi elasticamente cupi, quasi spinte imbottite nell'aria, la cui eco o volume rimane tanto dolorosamente imprigionata nella camera d'aria come, dentro il petto, la colpa ch'ora a nessun modo il sottoscritto può sopportare più.

Procedendo.

In certi capannoni sulla rena al Marzocco, il padre dello scrivente allora torniva tappi d'ottone a vite per le stagnate di benzina che la Società Italo-Americana pel petrolio mandava al fronte, essendo quelli gli anni lontani ma non ancora dimenticati dell'altra guerra mondiale.

Per sei giorni la settimana il padre del sottoscritto, dal sorgere al calare del sole, stava chiuso nel capannone della S.i.a.p. tra il mare ed i vagoni cisterna odorosi di petrolio, con la schiena curva sull'utensile a tornir tappi e pile di tappi. «Una vita», diceva quando tornava a casa a buio, «che perfino un cane s'ammazzerebbe». Senonché come lo scrivente una volta gli chiese: «E un uomo perché non può ammazzarsi?», lui gli rispose a bruciapelo questo: «Perché bisognerebbe che ammazzasse prima te, gobbo, e tua madre». Cui la madre del sottoscritto, essendosi esso messo a piangere in un angolo della cucina, aggiunse con voce molto calma: «Anche perché un uomo, caro il mio figliolo, preferisce giustamente consumarsi gli occhi e le unghie sul tornio piuttosto che far la guerra al fronte». Frase certamente giusta, in quanto il padre del sottoscritto, col viso sul suo piatto di fave sfatte, non trovò da opporre una sillaba nemmeno quando l'ultima cucchiaiata calda fu scomparsa nel suo stomaco.

Fu invece la madre, continuando a sventagliare nel fornello dove ribollivano i fondi, ad aggiungere senza nemmeno voltare la testa: «Non dovresti nemmeno chiamarlo così il tuo figliolo: gobbo. E cosa t'ha fatto perché tu lo chiami gobbo? Barbagrazia se resta al mondo esilino com'è».

«Un ragazzo», disse alfine il padre alzandosi per andare a lavarsi le mani, «che non ce la fa nemmeno a dare un calcio a un pallone. Lo preferirei morto, guarda». Il quale essendo un discorso dal padre ripetuto Dio sa quante volte, proprio come se lo scrivente avesse colpa lui di non reggersi ritto, nel petto di lui, fin dall'infanzia, era cresciuto il senso d'una colpa, che quasi ogni giorno il padre gli rinfacciava anche se dopo aggiungeva subito pentito, come quella volta guardandolo di sottecchi mentre si risciacquava sotto il rubinetto le mani: «Andremo anche domenica agli Archi, ti va? Andremo a vedere giuocare al pallone». E ciò con la sua voce che sapeva farsi all'improvviso veramente e paternamente protettrice, forse addolorato ogni volta (com'accade sempre agli uomini) di quella sua naturale cattiveria.

Procedendo ancora.

Essendo a quell'epoca il sottoscritto un ragazzo veramente ed innocentemente ipocrita come tutti i ragazzi (cioè pronto ad appigliarsi all'ultima parola buona udita pur di non dover più piangere per quelle cattive in precedenza fatte penetrare in lui), con una gratitudine del tutto irragionevole lo scrivente, udendo quella promessa, si asciugò all'istante le lacrime – corse all'istante ad abbracciare le ginocchia paterne con questo grido di giubilo: «Un uomo non s'ammazza finché può andare ogni domenica a vedere la partita di calcio. Vero che proprio per questo non t'ammazzi come un cane, babbo?».

Era non soltanto lo slancio di una gioia sincera per la prospettiva di una nuova partita da vedere (non deve la S.V. affatto credere ch'egli, per la sua inabilità, non provasse la stessa paterna irrefrenabile passione per il giuoco del calcio a lui inibito) bensì anche lo slancio di chi infine crede di aver fatto una scoperta molto importante nell'Universo. Talché quella volta gli suonò proprio come una stecca in orchestra ciò che la madre volle aggiungere quale precisazione: «Specie quando un uomo lo fa per distrarre un figliolo».

Il solito mercantilismo, pensa ora il sottoscritto, delle donne: il solito loro modo di ricattare di una gioia il figlio o il loro uomo buttando sulla bilancia la parola magari sottintesa «sacrificio»: il sacrificio, stando all'oggetto della presente istanza, che faceva il padre del sottoscritto imboscato portandolo a vedere il giuoco della palla dopo una settimana di lavoro anziché star chiuso in casa. Un sacrificio, si capisce, che lo scrivente avrebbe dovuto ricompensare – un conto aperto di cui anche lei, la madre, chissà con quale diritto si faceva parte esigente.

A prescindere da quanto sopradescritto, sta di fatto che a meno non ci fosse un velo di ghiaccio o una palude sui campi, anche nel più buio inverno ogni domenica padre e figlio la S.V. avrebbe potuto vederli agli Archi, incantati dalla partita degli irregolari di sedici anni venuti su dal Gigante, o da rioni ancor più malfamati, a lacerare l'aria con i loro urli di libertà. E ciò anche quando soffiava di piombo il libeccio, ed essendo il cielo un altissimo tetto cupo che toglieva il sole dai campi, si vedeva il pallone muoversi in un'aria spenta seguendo a strattoni più il capriccio del vento che l'impulso del giuocatore.

Sull'erba illuminata dal sole o annerita nei giorni nuvolosi, insieme al sottoscritto ed a suo padre stavano a guardare il pallone e quei ragazzi in camiciola tutti coloro che non potevano comprare un biglietto allo stadio: manovali ed operai di una certa età (quelli giovani o erano al fronte o, se esonerati, formavano squadra in piazza d'armi secondo una loro abitudine), i quali se non si potevano riconoscere dai loro abiti domenicali, subito appariva la loro condizione sentendo il loro fiato o vedendo quelle loro mani che, anche dopo il sapone, conservavano nelle crepe della pelle indelebili strisciature di morchia, meravigliando tuttavia, anche così grosse e incupite, per la tenerezza con cui sapevano reggere la mano piccola e nuova d'un figlio. E insieme a quegli operai altra gente – perfino della gente, come si diceva in quegli anni, di condizioni più elevate, quali custodi scolastici o uscieri in divisa, o vecchi che non avendo più nulla da fare al mondo venivan lì unicamente per contentezza dei nipotini. E anche, per pochi istanti, militari né troppo vecchi né troppo giovani della territoriale a braccetto a una serva, costoro il sottoscritto comprendendo più tardi cosa venissero a fare con la scusa della partita: s'allontanavano infatti sul più bello della partita, quando nessuno faceva più caso a loro, e andando nella macchia là potevano toccare un po' alla loro garzona quelle parti delicate ed umiliate che nessuno nomina mai seriamente e che pur sono nel pensiero di tutti per un buon terzo delle ore diurne e notturne. Territoriali e serve cui la partita soltanto per questo importava: per potere, i primi, dire alla donna pensando a quelle cose di lei delicate: «Andiamo a vedere la partita»; e alle seconde per poter rispondere «sì» all'invito, pensando senza dover arrossire alla mano calda e un poco liscosa di lui.

Lo scrivente soltanto ora può pensare come dovesse esser illimitatamente dolce, a una di quelle coppie, compiere le sue elaborate e minuziose liturgie clandestine, mentre in tutta la densità dell'aria era il vigore elastico di una partita così profondamente umana come è quella del calcio. Alla bellezza ed utilità della quale, anche per quelle coppie così apertamente persuase d'un universale assenso dalle spinte del pallone e dalle grida del campo, il sottoscritto ritiene che anche la S.V. Ill.ma deve chissà quante volte aver prestato orecchio, proprio per la ragione da cui lo scrivente è stato spinto a vergare queste righe: dall'essere queste carceri proprio a muro a muro con lo Stadio Genovese.

Senonché procediamo ancora senza precipitar la conclusione della presente istanza.

La gente che era al campo capitava spesso che da spettatrice si faceva attrice – poteva capitare che qualcuno non ne potesse più di star lì inerte a vedere le sorti dubbie di una prediletta squadra e, irrompendo sul trifoglio ormai maciullato, desse con due o tre calci ben assestati quell'aiuto che con la voce non poteva dar più. Era qualche ragazzo staccatosi dalla mano paterna, o anche viceversa, in quanto un limite d'età non poteva essere in quella passione. E come soltanto lo scrivente non si staccava mai dalla mano paterna (era sempre il padre, ogniqualvolta il pallone capitava loro in fallo fra i piedi, a mollare la pedata regolatrice), un giorno uno ch'essendo accanto a loro vedeva il sottoscritto così sacrificato disse: «Lasci che anche lui si muova. Ha gli scarpini di pelle lucida?». Cui soltanto questo rispose allora il padre, con una voce incupita ad un tratto: «Ma se non si regge ritto». Proprio con lo stesso tono con cui avrebbe potuto dire: «È maligno». Né per tutta la sera pronunciò più una sillaba (di solito la partita durava finché si accendevano sui viottoli i primi lumi incantati e trasparenti come bolle d'aria), quasi lo scrivente avesse lui colpa di tale inabilità.

Il sottoscritto porta a conoscenza della S.V. che da quella sera alla partita non volle più andarci, col padre, perché proprio questo era capitato: che colui al quale il padre aveva detto: «Non si regge ritto», proprio costui teneva per la mano una femminuccia la quale subito mettendosi a ridere e correndo a dar lei un calcio al pallone aveva detto: «Un maschio che non ce la fa». E ciò con un tono di voce (anche lei) dove se non era il risentimento del resto ogni volta smorzato del padre, era lo stesso inspiegabile sottinteso – la stessa punta di scherno e un poco anche di un disprezzo che al sottoscritto, per la prima volta da che era al mondo, ora gli proveniva dalle labbra tepide d'una femminuccia cadde sulle spalle come una grandine dalla quale è impossibile risollevarsi.

Il padre dello scrivente non smise per questo di sacrificarsi lo stesso ogni domenica andando solo agli Archi. Con questa differenza però, che ora la giustificazione era in una frase pari a questa: «Un figlio che gli fa fatica anche prendere una boccata d'aria. Io in casa non ci resto a vederlo lì infognato come una talpa. Bisogna che me ne vada per non dargli un manrovescio – non posso riposarmi in casa nemmeno una volta alla settimana». Al che subito la madre, con gli occhi acuminati sullo scrivente, aggiungeva: «Lo vedi quel pover'uomo?». Deve sacrificarsi anche la domenica per colpa tua, sì».

Ma v'ha di più.

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Pagina 341

MESSAGGIO DAL FARO
[1963]



C'è un faro, nell'oceano, i cui guardiani son frati di clausura.

Vi dessi il punto, potreste anche metterci il dito sopra, sulla vostra carta geografica. Ma non ve lo darò per delicatezza, dato che delicata, anche se innocente, è la piccola avventura che sto per narrarvi.

Ero allora a bordo dell' Etelina II, come aiuto Erretì.

Ci capitava di passare davanti a quel faro, ch'è su uno scoglio il quale manco merita il nome d'isolotto, quasi sempre di notte. E per noi marinai – anzi, per noi «marittimi», come ci tenevamo a precisare – quel passaggio obbligato era sempre motivo di gran fermento a bordo, tanto che, nonostante l'ora notturna, l'equipaggio era ogni volta sveglio sul ponte, e mica soltanto gli uomini al loro quarto.

Erano (sono, chi lo sa) frati maledettamente curiosi, e la cosa, anche se ci dava in superficie ai nervi, in fondo in fondo ci eccitava, se proprio non voglio dire ci metteva allegria.

Frati e «marittimi» (parlo di quelli di certe «carrette») sono in fin dei conti dei solitari allo stesso modo. Ma mentre i «marittimi» possono sfogarsi almeno due volte l'anno, i frati di clausura non possono farlo mai, specie se la clausura è vigilata dall'oceano.

Avremmo perciò dovuto comprendere la loro curiosità, che forse era pari alla nostra; senonché ci dava ai nervi il modo come quelli cercavano di soddisfarla, con mezzi che noi non avevamo. Mezzi che a noi sembravano sleali.

Oltre il faro e il normale «morse», la loro dotazione infatti comprendeva anche dei potentissimi riflettori. Ed era con quelli che ogni volta, al nostro passaggio, ci illuminavano spazzando in pieno il ponte (riflettori così potenti da bucar la foschia e la spruzzaglia), mentre a noi non restava che il tità tarì titità dell'antenna.

Cosa dicessimo con quei tità fuori servizio, e cosa rispondessero loro coi tarì pure fuori servizio, non lo dirò. Ma dirò soltanto che erano tali dialoghi ad eccitarci, e a farci stare svegli nelle belle nottate estive, con gran sollazzo dei frati che così, attraverso i loro binocoli, potevano a loro agio guardarci, e studiarci, uno per uno.

Ci conoscevano ormai, uno per uno, per nome. E anche noi li conoscevamo uno per uno per nome, con la differenza che mentre loro ormai sapevano a memoria non dico i nostri volti ma anche le nostre pipe, noi non conoscevamo, con quei riflettori negli occhi, nemmeno se le loro barbe eran bianche o nere.

«Chi si confessa», titatiteggiavano loro, «non deve conoscere, o è meglio che non conosca, il volto del confessore».

La cosa stava passando i limiti, o così almeno diceva il nostro cambusiere.

Ci mettemmo allora a studiare, nel quadrato, il piano più adatto per dare una lezione a quei frati curiosi, e per far spegnere quei riflettori del diavolo («di Dio», diceva il tatì fratesco) che permettevano ai religiosi di vederci, senza permettere a noi di veder loro.

Ne uscì fuori un piano veramente a pepe, che subito attuammo.

Stavamo transitando dal Giappone al Cile. Dalla seta all'oro.

La notte era splendida, in prossimità del faro, come sempre può esser la notte nell'oceano, se c'è bonaccia, anche quando la luna è nuova.

Al traverso dello scoglio, poche centinaia di metri prima, udimmo il fischietto del «secondo».

Eravamo istruiti a puntino.

Tutti ci disponemmo ai nostri posti di manovra.

Io, con l'Erretì, al «marconi», l'equipaggio appoggiato alla ringhiera di babordo, le spalle volte al nemico.

Un secondo fischietto, proprio al momento dell'accensione dei riflettori, e l'intero equipaggio calò pantaloni e brache.

I riflettori colpirono così in pieno, bianchissimi nella notte, tutti quei posteriori.

Che facce, dovettero veder, quella volta, i bravi frati.

Ma mica li spensero subito, i riflettori, che anzi rimasero puntati a luce fissa, così come non aveva affatto previsto il nostro piano strategico.

Si spensero soltanto quando ormai eravamo fuori del loro raggio, e cioè ormai troppo lontani dai cannocchiali, mentre in compenso s'accese subito il «morse», il quale scandì sulla striscetta queste precise parole:

«Andate, figlioli nostri, andate. E confidate nella nostra assoluzione, imperciocché per la prima volta abbiamo potuto leggere la sincerità sul vostro vero volto».

Rimanemmo non so se bene o se male, ma certamente restammo molto male quando, nel successivo viaggio, «quei maledetti riflettori» rimasero spenti, e il «morse» si limitò, come in ogni successivo viaggio, alle regolamentari frasi di servizio.

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