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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 11 Prima cittadini, poi consumatori 13 Il prelato e l'ideologo 14 Un viaggio pieno di sorprese 17 Le cause della decadenza 19 1. Il welfare prima di Roma 23 I medici della mutua 26 Il welfare di Dio 28 Il welfare è donna 31 La prima globalizzazione e le due economie 34 2. Una nazione di precari 37 Accidenti all'inflazione 39 Non tassateci, fateci lavorare 41 Chi sono i plebei 43 Le baraccopoli 45 Crasso: non solo palazzinaro 46 Viva il ceto medio 49 I Bill Gates della romanità 52 3. Senza welfare non si sopravvive 57 A morte i miserabili? 59 Dar da mangiare agli affamati 62 Non solo pane 64 Per l'eternità dell'Italia 66 L'adozione politica 69 La tessera dell'ospitalità 70 Il contadino disperso 73 I servi della gleba 75 4. Salus publica, suprema lex 77 Amuleti ed epidemie 79 Benedetti greci 81 Chirurgo o carnefice? 82 Medici miliardari, moria di plebei 84 Essere o non essere? 86 La rivoluzione di Galeno... 88 ...e quella di Antonino Pio 90 Perché mancano ospedali? 92 I buoni imperatori americani 94 5. Scuola privata e scuola pubblica 99 La scuola e la piazzola 101 L'istruzione privata non è il paradiso 103 Perché l'Italia non investe nella scuola? 107 La nuova classe degli statali 110 La rivoluzione culturale 112 "Università" e scuole professionali 115 Studiare da gladiatore 117 6. Un Pentagono socialista 121 America seconda Roma 123 Come ti istruisco il soldato 125 Medici e infermieri in prima linea 129 Ospedali non solo da campo 131 Che stipendio e che pensione (per allora)! 133 La "trickle down economy" o gocciolio del benessere 137 7. Roma e i diritti umani 143 Le due società 146 Ci sono schiavi e schiavi 149 E schiave e schiave 151 Strumenti parlanti o esseri umani? 153 Un capitalismo dal volto umano? 156 La morte al circo 159 Esilio non esecuzione 161 8. Immigrati e colonie 165 I peregrini 167 Liberà di associazione e religione... 169 ...ma non per i cristiani 171 Il Diritto Coloniale 173 D'immigrazione non si muore 176 9. I Collegia 181 Massoneria e fascismo 182 Buoni collegia e cattivi collegia 186 Peggio dei sindacati 189 Maledetti scioperi! 191 La porta girevole 193 Ieri e oggi 196 10. Pericolosi ecologisti 201 Come puzza Roma 203 Le autostrade dell'acqua 205 La bona dea 207 Cimiteri che uccidono 209 Il giorno del giudizio 212 Non animalisti 215 11. Il femminismo 219 Gli Scipioni e l'ermafrodito 221 Tu quoque America 223 Matrone e plebee 224 Dove tu gaio io gaia 226 Le vergini di stato 228 Il potere alla coppia 230 Donna non procreare 233 Che infames queste romane 235 Le riforme di Augusto 237 12. La casta 241 I partiti contro il popolo 242 Bel fratello, Cicerone! 245 Adagio con l'antipolitica 247 I figli della lupa 249 |
| << | < | > | >> |Pagina 11«La ricchezza era generalmente considerata un bene in affidamento, un possesso di cui la comunità in senso lato aveva il diritto di essere partecipe». 1904. Sanurel Dill, storico britannico, docente di greco e di latino alla università di Oxford, autore de La società romana da Nerone a Marco Aurelio. Non è la prima volta che il deficit di bilancio e il debito sovrano mettono in pericolo la sopravvivenza dell'Europa. Accadde per esempio ottocento anni fa, all'improvvisa contrazione dei commerci europei con l'Impero di Bisanzio e alla drammatica esplosione degli sperperi di ricche repubbliche marinare quale Venezia. Come tentò di porvi rimedio l'Europa? Non con l'austerity oggi impostale dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal mercato, la finanza globale privata, bensì rapinando altre nazioni, cioè bandendo la quarta crociata, saccheggiando Costantinopoli e ponendo a capo dell'Impero di Bisanzio, nel 1204, un reggente europeo con cui fare buoni affari, Baldovino delle Fiandre. Una nomina giustificata dalla religione come la tragica campagna, ma in realtà dettata dall'emergenza finanziaria, ha osservato ironicamente lo storico inglese Peter Frankopan, direttore del Centro di studi bizantini di Cambridge in Inghilterra. Nomina che equivarrebbe a quella odierna di un "commissario" o un "tecnico" a capo di un paese a rischio da parte di Bruxelles o del Fondo monetario. Il rimedio fu effimero naturalmente, se non controproducente come l'attuale austerity: l'Impero Romano di Oriente non durò un altro mezzo secolo, e l'Europa dovette cavarsela da sola, cosa che le riuscì in qualche misura solo nel Rinascimento. Il deficit di bilancio e il debito sovrano europei di ottocento anni or sono furono causati dal malgoverno e dalla malafinanza, non dalle politiche sociali, che di fatto l'Europa di allora non aveva. Ma a sentire l'intellighenzia di destra americana, proprio le politiche sociali furono la causa principale del deficit di bilancio e del debito sovrano di un Impero ancora più grande di quello di Bisanzio, che invece le aveva praticate: l'Impero Romano. Dalla seconda metà del primo secolo, si era gradualmente diffusa nell'Impero Romano l'assistenza pubblica, scomparsa poi nel Medioevo. E secondo i conservatori di Washington questa fu la causa della sua decadenza. Una dottrina che alcune destre europee determinate a ridurre il welfare, come quella del premier inglese David Cameron, in parte condividono. Questa dottrina tuttavia suscita due domande. Quale tipo di assistenza pubblica esisteva nella antica Roma? Ed è vero che ne causò il crollo? La risposta alla prima domanda è che l'Impero Romano fornì a poco a poco al cives, al cittadino, e soltanto a esso, non agli schiavi e agli stranieri (peregrini), un'assistenza di stato embrionale ma articolata, che a tratti anticipò la nostra, sostentamento, sanità e istruzione e, nel caso dei soldati, anche pensione. La risposta alla seconda domanda è che le politiche sociali contribuirono alla caduta di Roma in percentuale modesta. Essa fu dovuta ad altri fattori, dalle enormi spese militari alla crisi dei latifondi nel III secolo, alla corruzione, alle invasioni barbare, ecc.
Perché i conservatori americani minimizzano queste cause della
decadenza di Roma, sostenendo che l'Impero Romano esagerò
nelle politiche sociali e che sprecò il denaro pubblico persino nei
circhi e nei monumenti? Perché affermano che gli imperatori e i
senatori furono pessimi amministratori e si comportarono irresponsabilmente?
Perché vogliono spaventare l'Europa e l'America,
che a loro volta starebbero esagerando col welfare, e demolire lo
stato assistenziale, in maniera da potere tagliare le tasse e destinare
in maggioranza anche le risorse finanziarie pubbliche a favore del
mercato. Come nota la studiosa svizzera Gisela Hauss, essi parlano non più solo
di uno stato postindustriale ma altresì di uno
stato post-sociale, dove venga privatizzato quanto più possibile, e
dove la soluzione delle questioni pubbliche sia personale, dove ad
esempio l'assicurazione medica privata sostituisca la sanità di stato. Chiunque
oggi frequenti l'America sa che la sua destra ha un
nuovo nemico: il cosiddetto socialismo all'europea o alla francese
(tra l'America e la Francia c'è un rapporto di amore-odio) ossia la
socialdemocrazia. La destra americana mira al trionfo del liberismo. Questo
libro intende ricordare che in una qualche forma le
politiche sociali, il welfare, accompagnano da millenni il cammino dell'umanità.
Prima cittadini, poi consumatori Dalla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, l'Occidente ha attraversato prima una rivoluzione sociale, negli anni Sessanta, poi una restaurazione economica e finanziaria, negli anni Ottanta. Nonostante i suoi eccessi, con la rivoluzione sociale, nata dal basso e basata sulla disobbedienza civile, la resistenza non violenta di Gandhi, l'Occidente è cambiato in meglio: basti pensare al movimento dei diritti civili di Martin Luther King, a quello sindacale, a quello pacifista, femminista, studentesco, gay. La restaurazione economica e finanziaria, promossa da Wall Street e dalla City con la partecipazione del presidente americano Reagan e della premier inglese Tatcher, due icone dei conservatori, lo ha invece peggiorato. Dal crollo dell'Urss, un modello alternativo falso se si vuole, ma che costrinse il potere nelle "democrazie di mercato" a fare molte concessioni ai cittadini, non poche delle conquiste degli anni Sessanta sono state erose. La tendenza alla ridistribuzione della ricchezza tramite il fisco e le politiche sociali, in particolare, si è invertita. In Italia, dove metà della ricchezza nazionale è nelle mani del dieci per certo più ricco della popolazione, esattamente come in America, il fisco è adesso iniquo e il welfare presta il fianco agli attacchi dei restauratori perché inficiato dalla corruzione e dagli sperperi. Gli antichi romani erano prima cittadini, poi consumatori. Proclamandosi cives romanus, cittadino romano, rivendicavano i diritti loro conferiti dalla legge, inclusa la pubblica assistenza che, vale la pena di ribadire, crebbe fino alla decadenza dell'Impero. Oggi in Occidente il mercato e i suoi fautori, spesso avventurieri della finanza globale, il peso della quale rispetto alla economia reale è sproporzionato, tentano di farci prima consumatori poi cittadini. Come? Esautorando lo stato.
Ciò sta già avvenendo in Europa, ammonisce
Amartya Sen
, premiato con il Nobel nel 1998 per i suoi studi della economia del welfare
e delle scelte sociali che, sottolineò, creano anche occupazione e
promuovono sviluppo. «L'aspetto forse più inquietante della crisi
economica europea» lamenta Sen «è che gli impegni democratici dei
governi sono stati sostituiti da diktat finanziari dei leader più potenti, della
Banca centrale europea e indirettamente delle agenzie di
rating e del mercato, notoriamente poco affidabili». E aggiunge: «I
drastici tagli dei servizi pubblici non soltanto danneggiano l'economia,
alimentano anche gli estremismi». Il welfare è sempre stato un
fattore di relativa eguaglianza e stabilità (senza la prima non esiste la
seconda), e la storia dell'antica Roma lo dimostra, e la politica non
ne può prescindere.
Il prelato e l'ideologo A giudizio della destra americana, la decadenza di Roma sarebbe iniziata non nel III secolo, ma circa trecento anni prima, nel 58 avanti Cristo. Lawrence Reed, il presidente della Foundation for Economic Education di New York (Fondazione per l'istruzione economica) è tra i più recisi e afferma: Nel 58 a.C. un politico di nome Clodio si candidò a tribuno promettendo elargizioni gratuite di grano agli elettori, e vinse. Da quel momento, tutti i candidati presero a spendere ingenti somme per ottenere l'appoggio del pubblico romano, rapinandolo poi con tasse e accise per contenere i propri debiti e quelli dello stato. E attratti dalla prospettiva di un sostentamento e uno svago gratuiti, folle di contadini poveri e di schiavi liberati invasero Roma. In pochi decenni, aggiunge Reed, le rivendicazioni sociali ed economiche della plebe romana crebbero a tal punto che per soddisfarle non bastò più aumentare le tasse, lo stato dovette indebitarsi fino al collo. In altre parole, cedendo a quello che adesso è chiamato populismo, un connotato spregiativo, adottando un'assistenza di stato progressiva, l'Impero Romano si sarebbe suicidato. Il sessantenne Reed non è una sprovveduto, è il fondatore di un famoso serbatoio di cervelli conservatore, il Mackinac Center for Public Policy (Centro Mackinac di politica pubblica) nel Michigan, e nel corso della sua vita ha promosso la "democrazia di mercato" in un'ottantina di paesi. Poco o nulla importa che "democrazia di mercato" sia una contraddizione in termini: il libero mercato non è affatto democratico. Reed è un ideologo. Perora questa tesi per persuadere gli americani che con le loro politiche sociali i democratici rovineranno l'America esattamente come Clodio avrebbe rovinato Roma (l'Europa si sarebbe già rovinata). Secondo Reed, l'America si starebbe indebitando per assistere i suoi cittadini, e non per pagare le sue ricorrenti guerre e le malefatte di Wall Street. In realtà, come l'assistenza di stato nell'Impero Romano fu assai modesta, così lo è in America, che è a sua volta un Impero, sia pure più benigno. Semmai il monito di Reed vale per l'Italia, una socialdemocrazia dove lo spreco del denaro pubblico e la pressione fiscale sono senza pari in Occidente. Con questa sostanziale differenza: che di norma nell'antica Roma la ricchezza era la scorciatoia al potere politico, mentre nell'Italia di oggi il potere politico è la scorciatoia alla ricchezza. Sul welfare nell'antica Roma sono stati scritti centinaia, forse migliaia di saggi. E' impossibile dire qualche cosa di nuovo in merito. Ma è possibile rapportare il welfare romano al nostro e valutarne le rispettive imperfezioni. L'idea nasce da un trattato, Degl'istituti di pubblica carità ed istruzione primaria e delle prigioni in Roma di Carlo Luigi Morighini, un prelato romano, pubblicato nel 1842 dalla Tipografia Marini. E nasce appunto dalle opinioni di Lawrence Reed, nonché da un saggio di Bruce Bartlett, un altro ideologo conservatore americano, sul «Cato Journal» di Washington, How excessive government killed ancient Rome (Come il troppo governo uccise l'antica Roma). Del libro di Morighini, una documentata e talora ingiustificata apologia della beneficenza della Chiesa, mi colpì soprattutto la prefazione dedicata alle politiche sociali nell'antichità. In varie misure, in genere limitate, scrisse Morighini, essa esistette a Roma e prima ancora in Grecia, e in particolare in Israele, forse lo stato allora socialmente più avanzato, ed esistette in alcune civiltà asiatiche e africane. Del saggio di Bartlett, che esalta il capitalismo quale padre e motore della civiltà occidentale (il Cato Institute è un altro serbatoio di cervelli repubblicano) mi rimase invece impressa l'asserzione che la caduta non soltanto di Roma ma anche di altri grandi imperi del passato fu proprio il welfare. Sia Morighini sia Bartlett tirano acqua al loro mulino. Il prelato romano intende dimostrare che, con le loro opere di carità, il cristianesimo e la Chiesa contribuirono in misura determinante all'ascesa del welfare nel mondo sino dai tempi di Cristo. L'ideologo americano vuole riportare l'America al più sfrenato capitalismo. Entrambi, tuttavia, concordano su questo punto: che l'Impero Romano praticò l'assistenza di stato, in forma limitata per lo più, ma in un caso quasi integralmente. Quale caso? Quello dell'esercito che, nell'ultima Roma repubblicana e in quella imperiale, ebbe un suo sistema d'istruzione, sanitario e pensionistico gratuito per i soldati, tanto da assumere l'aspetto di una istituzione sociale, anche se autoritaria. È il caso del Pentagono in America oggi, che ha adottato un sistema quasi identico. È singolare che, a distanza di duemila anni, in due imperi tanto diversi, territorialmente dilagante quello romano, finanziariamente quello americano, siano soprattutto i militari a usufruire del welfare? Probabilmente no, essendo entrambi gli imperi fondati sul capitalismo e ossessionati dalla sicurezza. Senza esplicitarlo, Morighini si riferisce all'età degli Antonini, dalla fine del I secolo alla fine del II secolo dopo Cristo, l'epoca più fulgida di Roma. Il prelato non nasconde che la maggioranza della plebe vive in condizioni disperate. «I più saggi dei legislatori delle società pagane» ricorda «avevano procurato con i loro ordinamenti di prevenire la miseria. La schiavitù assorbiva l'ultima classe degli uomini offrendo ancora un rifugio, ben tristo, a chi preferito avesse alla povertà il vendere se stesso per campar la vita». Ma, prosegue Morighini, «nel romano Impero i municipi d'Italia erano provvisti di medici che dovessero gratuitamente assistere i poveri», pagati cioè dallo stato, medici della mutua dicevamo noi una volta. E aggiunge che: I figli dei cittadini indigenti meritarono la speciale benevolenza dell'imperatore Nerva, che ordinò venissero alimentati a pubbliche spese [...]. Traiano e quei che gli succedettero seguirono la generosa opera e vi contribuirono ancora con le loro private ricchezze [...]. Si diffuse allora per l'Italia la istituzione benefica: anzi in alcune città più luoghi vennero destinati al mantenimento e alla educazione di fanciulli e fanciulle di ambo i sessi [...]. Medaglie e monete chiamano questi giovani "alimentarii".
Bartlett esamina un arco di tempo più ampio, da Clodio ad Aureliano,
imperatore dal 270 al 275, a cui rimprovera erroneamente
di avere reso ereditario il welfare
from cradle to grave
(dalla culla alla tomba). L'ideologo scomoda Abraham Oertel, il grande cultore
della romanità nel Cinquecento in Olanda, per osannare
Ottaviano Augusto
«che invertì la tendenza al capitalismo di stato e al socialismo
riducendo la libertà politica ma espandendo la libertà economica, così
inaugurando un periodo di splendide opportunità per
l'iniziativa privata». Per Bartlett, sconfiggendo Antonio e Cleopatra,
Augusto pose fine, purtroppo solo temporaneamente lamenta l'ideologo, «alle
tendenze allo statalismo che forse sarebbero maturate
sotto di loro». Dovrebbe seguirne che se le avesse stroncate per sempre, se
Settimio Severo e altri imperatori non avessero peggiorato la
situazione, come insiste Bartlett, l'Impero Romano si sarebbe salvato. Ma è
palesemente assurdo. Nessuno degli imperi successivi che
non devolsero alcunché al welfare durò più a lungo di esso.
Un viaggio pieno di sorprese Il segreto della longevità dell'Impero Romano fu la sua modernità. Era avanti ai suoi tempi, tanto da integrare gli immigrati, i popoli conquistati, le razze e le culture più diverse meglio di quanto abbiano poi fatto l'Impero britannico o quello americano. Ciò ha destato l'ammirazione della maggioranza degli storici, come testimonia la epocale History of the decline and fall of the Roman empire dell'inglese Edward Gibbon del 1776 (Storia della decadenza e della caduta dell'Impero Romano) di cui avremo occasione di parlare ancora. Gibbon esalta la pax e l' humanitas romane: Nel secondo secolo dell'era cristiana l'Impero Romano includeva la parte più bella della terra e i popoli più civilizzati dell'umanità [...]. La gentile ma possente influenza delle leggi e dei costumi aveva cementato l'unità delle province [...]. I suoi pacifici abitanti godevano e abusavano dei vantaggi della ricchezza e del lusso [...]. L'immagine della Costituzione era preservata con decente riverenza. Un ritratto quasi idilliaco, ma che non corrispondeva affatto alla realtà, e che molti storici successivi, tra cui lo sferzante Paul Veyne, professore emerito del Collège de France, e autore de La società romana e da La vita privata nell'Impero Romano, editi in Italia dalla Laterza, non fecero fatica a demolire: per gli humiliores, le masse, nota a ragione Veyne, la vita nell'antica Roma era un tormento quotidiano. Nell'età degli Antonini, comunque, il welfare alleviò la triste condizione di almeno parte della plebe. Abbiamo visto le elargizioni di grano di Clodio, gli istituti per l'infanzia povera di Nerva, i più tardi medici della mutua (fino a cinque nei piccoli comuni, fino a dieci in quelli grandi). Ma vedremo che le elargizioni di generi alimentari si estesero al vino, all'olio, a unguenti per l'igiene, a varie somme di denaro, tramite tessere annonarie, come in Italia nella seconda guerra mondiale, e come in America oggi tramite i foods stamps, i buoni alimentari. Vedremo che agli istituti per l'infanzia povera si aggiunsero gli orfanotrofi e che, sotto Vespasiano, all'istruzione privata, l'unica conosciuta sino ad allora, si affiancò quella pubblica. Sorsero ospedali pubblici, anche se pochi, dove il ricovero, le cure, le operazioni chirurgiche erano gratuiti. Il viaggio nell'antica Roma del welfare è pieno di sorprese. La giornata lavorativa era al massimo di otto ore, e le feste, costellate di giochi, erano frequentissime, donde il famoso detto panem et circenses. Con l'eccezione degli schiavi, alcuni dei quali peraltro fruivano di privilegi negati agli humiliores plebei, i lavoratori romani del I e II secolo erano forse meno sfruttati di quanto non lo furono poi i lavoratori della rivoluzione industriale del XVIII e XX secolo. I collegia, associazioni o circoli di categoria, anticipavano a volte i moderni sindacati, e quando un municipium (comune) versava in difficoltà finanziarie o pativa calamità naturali, lo stato andava al suo soccorso. Senza dubbio, gli imperatori vedevano nella pubblica assistenza non il fine ultimo della romanità, ma il mezzo per ovviare alle peggiori ingiustizie e per mantenere la pace sociale, e premevano sui patrizi perché assumessero le proprie responsabilità prendendo parte a questa modesta ridistribuzione di ricchezza: la sportula, l'obolo dei patroni ai cittadini inferiori che rendevano loro omaggio ogni mattina, ne è un esempio. Tuttavia, esistette nell'Impero una coscienza sociale.
L'Impero Romano fu ecologista
ante litteram:
gli acquedotti, le fogne, i bagni pubblici non promuovevano solo l'igiene,
servivano anche a proteggere e ad abbellire l'ambiente, tanto da fare
dell'ltalia un giardino. E la sua politica di lavori pubblici rimane un modello
insuperabile: esso eresse infrastrutture che resistono ancora, dalle
strade ai ponti, fornendo ai cittadini trasporti e altri servizi, per celebrare
sì la propria grandezza, ma anche in risposta ai loro bisogni.
C'è chi sostiene, non a torto, che l'Impero Romano lasciò spazio al
femminismo e che aprì il dibattito sui diritti umani, la pena di morte in
particolare, tuttora in corso nel nostro secolo. Sui diritti umani
nell'antica Roma ha scritto, tra altri, un dotto libro Richard Bauman, uno
studioso australiano. Bauman avanza un'ardita tesi: che
la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'Onu del 1948
sia ispirata da Roma, come la Costituzione americana del 1776 e la
rivoluzione francese del 1789.
Le cause della decadenza Il costo dell'Impero Romano in sofferenze e vite umane fu incalcolabile, e la sua millenaria vicenda è costellata di atrocità, abusi e depravazioni. Non c'è consenso sulla sua storia e la sua civiltà perché, sui parametri odierni, entrambe possono essere interpretate sia positivamente sia negativamente. Non c'è consenso nemmeno sulla sua scomparsa, per cui nei secoli sono state addotte oltre duecento ragioni. Ma è certo che le ragioni principali furono le spese militari, la crisi dei latifondi e la corruzione, della quale parleremo nel capitolo sulla casta dei politici. In un libro del 1976, The grand strategy of the Roman empire (La grande strategia dell'Impero Romano) il politologo americano Edward Luttwak citò la prima ragione: in tarda età, argomentò, le città si rinchiusero tra le mura, si fortificarono per difendersi dai barbari, il prezzo della sicurezza si dimostrò insostenibile. E in verità l'onere dell'esercito diventò spaventoso già nel III secolo, quando assorbì quasi il 75 per cento del bilancio dello stato e il 4,5 per cento del prodotto interno lordo, circa il doppio che nell'età degli Antonini. I sostenitori della seconda ragione sono molti. Sempre nel III secolo, la concorrenza delle province, l'Egitto e altri paesi, i granai dell'Impero, e la pressione fiscale costrinsero i piccoli agricoltori a cedere le loro terre ai latifondisti, i meno produttivi, e a continuare a lavorarle praticamente in schiavitù. La piaga degli agri deserti, come fu chiamata, provocò una spirale deficitaria e debitoria, pubblica e privata, da cui Roma non si riprese più. A parte i conservatori americani di cui all'inizio di questa introduzione, quasi nessuno storico ha attribuito il crollo dell'Impero Romano alle sue politiche sociali. Almeno uno anzi, Cullen Murphy, anch'egli americano, autore di Are we Rome? (Siamo noi Roma?), un libro pubblicato nel 2004, su cui ritorneremo, lo ha attribuito all'indebolimento dello stato, cioè alla ragione opposta. Stando a Murphy: «la crescente privatizzazione del patrimonio statale, la crescente corruzione della vita pubblica, la crescente venalità delle classi dirigenti, la crescente ignoranza delle altre culture e civiltà» demolirono l'Impero. È chiaro che Murphy si rivolge all'America odierna, che denuncia gli stessi mali dell'antica Roma. Ma il suo messaggio vale anche per l'Europa e per l'Italia. Ai demolitori del welfare va ricordato il principio esposto nel Settecento dall'economista e filosofo Adam Smith, il profeta del liberismo, e quindi insospettabile, nel suo trattato La ricchezza delle nazioni. «L'economia» enunciò Smith «ha due obbiettivi. Il primo è di garantire un buon reddito o la sopravvivenza alla popolazione, o meglio di renderla capace di provvedere a se stessa. Il secondo è di garantire allo stato e alle comunità un reddito sufficiente per i pubblici servizi». | << | < | > | >> |Pagina 34La prima globalizzazione e le due economieUna delle lezioni dell'antichità è che la prima globalizzazione fu quella del welfare. Diverse erano le razze, diverse le società, diverse le lingue, diverse le leggi, diverse le monete, diversi i lavori. Ma, come s'è visto in breve, il minimo comune denominatore fu quasi sempre qualche forma di pubblica assistenza ai cittadini. Insufficiente, imperfetta, spesso macchiata dall'indifferenza nei confronti degli esclusi e dalla disumanità di istituzioni come la schiavitù, e tuttavia rispondente alla coscienza religiosa e sociale del tempo. Questa globalizzazione precedette quella delle industrie e dei commerci, che di lì a qualche secolo cozzò con il welfare di stato, un peso inaccettabile a suo parere, che lo mise in discussione e riuscì a eliminarlo. È un segno della crisi dei valori in cui versiamo che nel 2000 dopo Cristo per globalizzazione s'intenda solo la globalizzazione finanziaria ed economica, e che essa venga impiegata per giustificare l'assalto sferrato dal capitale e dai partiti suoi clienti alle politiche sociali dei paesi più avanzati, assalto che se avesse successo priverebbe il consesso civile della sua umanità e i cittadini della democrazia. Le stesse forze, per inciso, predicano ordine e legalità, termini che celano il principio «ciascuno al posto suo», ossia tutti in ossequio dei poteri forti. Per uno di quei paradossi di cui è ricca la storia, in Occidente i sistemi pubblici pensionistico, sanitario e di istruzione vengono indeboliti proprio mentre i colossi emergenti cercano di procurarseli a loro volta. David Brooks è un editorialista del «New York Times», un repubblicano moderato. Ha rilevato che oggi una delle conseguenze impreviste della globalizzazione è che sta creando due economie. La prima è quella che opera, oltre che sul mercato interno, sul mercato globale, con una vasta gamma di prodotti e di servizi, dalla farmaceutica all'informatica, dalla finanza all'aeronautica, e che deve farsi quindi sempre più competitiva. La seconda economia è quella che opera quasi solo sul mercato interno, dall'istruzione alla sanità, dai media tradizionali allo stato, e che quindi non è sottoposta a identiche pressioni per innovarsi. La prima economia potremmo chiamarla di serie A, perché è di gran lunga la più redditizia delle due. Stando al «Wall Street Journal», la sua produttività è aumentata rapidamente, e con essa aumentano i profitti. Nonostante la Grande recessione, in America nel 2011 le cosiddette S&P 500 (le 500 compagnie dell'indice Standard and Poor's) ricavarono da ogni dipendente l'11-12 per cento in più che nel 2007. La seconda economia potremmo chiamarla di serie B, perché frutta meno, a causa della modesta crescita della sua produttività. Il guaio è che in prevalenza l'economia di serie A non crea nuovi posti di lavoro semmai li riduce: gli enormi guadagni dovuti alla globalizzazione finanziaria ed economica sono frutto soprattutto delle speculazioni degli operatori del mercato e delle macchine intelligenti, che nelle industrie e nei commerci stanno spodestando la manodopera. Nell'economia di serie B accade il contrario. Essa genera nuovi posti di lavoro pur rinnovando le tecnologie, ma i suoi guadagni sono limitati, perché manca di uno sbocco sul mercato globale. Il guaio è aggravato dal fatto che nei paesi avanzati la maggioranza dei cittadini vive nell'economia di serie B, non nell'economia di serie A. Questo spiega, incidentalmente, perché i sempre meno diventino sempre più ricchi, e i sempre più diventino sempre più poveri. Una situazione che nell'attuale crisi tanto più si esaspererà quanto più l'economia di serie A esporterà e quanto più la economia di serie B si contrarrà. Ogni paese avanzato farà pertanto bene a riflettere sulla crescente divergenza tra le due economie e sull'opportunità di conciliare al più presto l'una con l'altra. Se l'economia di serie A non conoscesse più freni, le tensioni sociali esploderebbero con nefande conseguenze. | << | < | > | >> |Pagina 37«Il lavoro nobilita l'uomo». Charles Darwin. «Il lavoro rende l'uomo tale». Karl Marx. Facciamoci un'idea di come si vive nella Roma imperiale del I secolo dopo Cristo. Il mondo non ha mai visto alcunché di grande come Roma, ma per la maggioranza dei romani non sono rose e fiori. Leconomia sale e scende a cicli come oggi, e poiché l'istituto dello sciopero non esiste e incrociare le braccia non serve a niente, nei periodi più duri scoppiano tumulti subito repressi con la forza. Diamo un'occhiata al tempo dell'imperatore Tiberio, uno tra i più bui. È il 33 dopo Cristo, e la situazione non è dissimile da quella attuale dell'Italia. Roma, ci riferisce lo storico romano Tacito , è sull'orlo della deflazione, l'agricoltura è in grave crisi, i capitali fuggono all'estero, le banche concedono prestiti soltanto a interessi da usurai perché in mezzo secolo d'inflazione si sono esposte come Wall Street nel 2008 con i mutui subprime (a basso prezzo e ad alto rischio). Allarmato, Tiberio impone loro d'investire in Italia e mette un tetto ai tassi. Il valore dei terreni agricoli e degli immobili crolla, e molte banche, private di parte dei profitti stranieri, dichiarano dissesto. Il mercato imperiale, o globale come lo chiameremmo noi, traballa, e chi ha soldi li nasconde. Di fronte al double dip, il doppio bagno nella terminologia moderna, ossia la doppia recessione, Tiberio deve compiere una precipitosa ritirata: inietta nelle banche liquidità per 100 milioni di sesterzi, 200 milioni di curo, e dispone che siano erogati prestiti senza interessi per tre anni all'agricoltura, all'edilizia al commercio ecc. | << | < | > | >> |Pagina 42Torniamo indietro, a Vespasiano, il persecutore dei giudei, imperatore dal 69 al 79 dopo Cristo, e ai precari di Roma caput mundi. Vespasiano fu il precursore dei cinque "buoni imperatori", gli Antonini, al potere dalla fine del I secolo alla fine del II: Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Alla sua nomina, trovò la città e la plebe sconvolte dalle feroci lotte per il trono, e in condizioni più tristi del normale. Schiacciati dai debiti, numerosi romani si erano dati in schiavitù per sopravvivere, mentre altri si erano suicidati, come spesso era già avvenuto in passato (il suicidio dei disperati è una piaga che affligge anche l'Italia nella crisi finanziaria in corso dal 2008).Vespasiano dimostrò subito di avere a cuore la stabilità economica e sociale dell'Impero: asserire che volesse debellare la povertà sarebbe un'esagerazione, ma senza dubbio cercò di alleviarla. Dall'Egitto dove si trovava, spedì a Roma enormi quantità di grano da distribuire alla plebe gratuitamente. E una volta sul trono varò una riforma fiscale che risanò le casse dello stato, tassando tra l'altro i bagni pubblici da allora detti "vespasiani", misura che il figlio gli rinfacciò e che egli difese con la celebre battuta: «pecunia non olet», il denaro non puzza. La riforma gli permise anche di inaugurare un massiccio programma di lavori pubblici, tra cui il Colosseo, al fine non solo di esaltare la grandeur dell'Impero bensì anche di creare occupazione per la plebe. Restò famoso il suo rifiuto di impiegare nuove tecnologie nell'edilizia per non lasciare disoccupati troppi lavoratori: «Essi devono pur mangiare!». Tacito accusò Vespasiano di avarizia, e non a torto: ai soldati che volevano calzari più morbidi per camminare da Ostia a Roma, l'imperatore ordinò di andare a piedi nudi. Ma come molti dei suoi predecessori e successori, Vespasiano ebbe chiaro che le crisi economiche si risolvono dando lavoro ai cittadini e mettendoli in grado di consumare.
L'ebbe chiaro anche il presidente americano Franklin Delano Roosevelt che
nella Grande depressione fece costruire strade ferrovie e ponti, e che come
Vespasiano finanziò persino artisti e letterati. Nel 2000 invece, i leader
europei sembrano avere idee molto confuse in merito.
Chi sono i plebei Ma chi erano i plebei? Dall'enciclopedista Plinio il Vecchio , autore di vari trattati tra cui Naturalis historia, perito nell'eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo, si desume che fossero soprattutto i liberti, gli ex schiavi liberati dal loro patronus. Plinio definisce la popolazione più povera di Roma plebs libertina, e indubbiamente i liberti rappresentavano la maggioranza del popolo minuto della capitale. | << | < | > | >> |Pagina 54Nell'Impero Romano si pagavano le tasse? E l'antica Roma fu una nazione di evasori, come lo è, ma sempre meno, l'Italia? Sì, a parte i plebei che non avevano un sesterzio, le tasse si pagavano, sebbene fossero diverse e molto più lievi delle nostre. Ed evasori, grandi evasori, ce ne furono di certo, ma è impossibile dire in che percentuale. Come oggi, i ricchi e i potenti avevano varie scappatoie legali per sottrarsi al fisco, e quando Augusto introdusse quella che noi chiamiamo l'imposta sul reddito non seguì un criterio progressivo: adottò l'aliquota unica, l'equivalente della flat tax, il sogno dei repubblicani e dei plutocrati in America. I controlli inoltre erano approssimativi, il più spiccio era il censimento quinquennale: il cives che mentiva rischiava di vedersi confiscati tutti i beni.Il punto da sottolineare, pertanto, è che nell'Impero Romano le tasse non furono anche un mezzo per ridistribuire la ricchezza, come sono in Italia oggi, ma solo un mezzo per tenere in piedi lo stato, un vizio profondo del sistema che spiega i limiti del welfare nell'antica Roma. E che tasse imponeva il fisco? Nella tarda repubblica, si tassavano la terra, gli immobili e la proprietà degli schiavi, sembra nella misura dell'1-3 per cento. Ma per un certo periodo, dopo il 167 avanti Cristo, quando Roma venne inondata dall'oro e dall'argento delle miniere in Spagna, furono tassate soltanto le province. Interessa notare che le tasse venivano riscosse da privati, i publicani, un altro sogno della destra e della finanza privata americane, una forma di privatizzazione di un istituto pubblico simile a Equitalia. I publicani anticipavano una ingente somma al fisco, e se ricevevano qualcosa in più se la tenevano: il fisco pagava persino loro interessi sull'anticipo. Augusto, uno dei massimi riformatori del sistema, avocò allo stato il ruolo dei publicani, che funzionavano anche da banchieri, prestando soldi dal 4 per cento, perché in maggioranza corrotti e corruttibili. Un'altra annotazione: tra le sue tasse, ce n'era una anche sulle transazioni finanziarie, l'antenata della Tobin tax che sinora l'Europa non è riuscita a realizzare e che servirebbe a combattere l'attuale crisi. | << | < | > | >> |Pagina 66Per l'eternità dell'ItaliaNel 98 dopo Cristo, Nerva, il primo dei cinque buoni imperatori, decise di andare oltre l'annona e di estendere il welfare direttamente ai figli del cives povero e agli orfani di Roma, ordinando che venissero alimentati ed educati a pubbliche spese, o a casa o in appositi istituti, in parte scuole, in parte convitti, e in parte orfanotrofi. Destò così l'attenzione dell'Impero su uno dei suoi più gravi problemi sociali, quello dell'infanzia malnutrita e negletta, una tardiva svolta nella politica romana. Il provvedimento riguardò poche centinaia di bambini, una goccia d'olio su un mare in tempesta. Uno dei primi atti di Traiano, il suo erede, fu di portare il numero dei bambini assistiti a Roma a 5 mila, e di creare per essi una cassa assistenziale statale, in modo da vincolare i successori alla sua politica. Di più: l'imperatore spinse i municipia in Italia a emularlo, e castigò quelli che sperperavano denaro invece di aiutare gli orfani e i figli dei genitori poveri. L'ingegnoso meccanismo ideato da Traiano nell'anno 100 per finanziare l'assistenza di stato all'infanzia ci è pervenuto da numerosi documenti da ogni parte dell'impero, tra cui quelli di Velleia, presso Piacenza, e la Tabula Ligurum Baebianorum rinvenuta presso Benevento. Lo stato fa prestiti a tassi agevolati, il 5, talora il 2,5 per cento, anziché il 12 per cento in vigore nelle province, ai proprietari di terreni che vogliono migliorare i loro fondi. E costoro versano gli interessi annui alla cassa assistenziale dello stato. Con questo sistema, Traiano non aiuta solo i figli dei poveri e gli orfani. Plasma una categoria di giovani che saranno utili alla società. E aiuta anche l'agricoltura italiana, che incomincia a essere in crisi. Si delinea una politica sociale romana che si articola in più direzioni, istruzione, sanità, difesa dell'ambiente. Consultiamo i documenti di Valleia, che risalgono al 104. I proprietari terrieri che hanno ottenuto il prestito statale sono 51. Hanno ricevuto oltre 1.100.000 sesterzi complessivi, 2.200.000 euro. Essi versano allo stato oltre 55 mila sesterzi annui in interessi, 110 mila euro. Con questa somma, mantengono 300 bambini, 264 maschi e 36 femmine. Ai maschi vanno 192 sesterzi annui, alle femmine, considerate meno importanti, e le prime ad andarsene, 144. Gli orfani sono soltanto due, un maschio e una femmina. Non si tratta di tariffe fisse, le cifre variano da città a città: a Benevento, forse perché vicina a Roma, mantenere e fare studiare i ragazzi è infatti assai più costoso. Ma questo aiuto statale è solo umanitario o è anche interessato? È anche interessato, risponde Victor Duruy, lo storico francese. Lo stato sogna «l'eternità dell'Italia» come ci ha tramandato Pomponius Bassus, vuole preparare soldati e funzionari al suo servizio. Lo dice espressamente Plinio il Giovane: Questi bambini vengono allevati a spese pubbliche per essere di appoggio all'impero nelle guerre, e di ornamento nella pace. Un giorno riempiranno le nostre campagne e le nostre città e avranno figli che non necessiteranno più di assistenza. Plinio non scorge contraddizioni tra il bene dei poveri e il bene dello stato. Sollecita anzi i ricchi come lui a partecipare alla nuova politica sociale: Un uomo veramente aperto dona alla sua patria, al suo prossimo, agli amici poveri [...]. Egli cerca chi è bisognoso, lo soccorre, lo sostiene, ne fa una specie di famiglia. Per Plinio e molti dei suoi pari la sportula è ormai superata. Traiano non ha motivo di temere che i successori tradiscano le sue riforme. Non soltanto gli altri Antonini, da Adriano a Marco Aurelio, ma anche gli imperatori del III secolo dopo Cristo, Settimio Severo in particolare, ne comprendono il valore, e ne introducono altre. La gioventù di stato, per quanto di numero limitato, è il simbolo di una Roma meno iniqua e più inclusiva. I pueri e le puellae alimentarii di Traiano vengono affidati a quelli che chiameremmo assistenti sociali, i questores o praefecti alimentariorum e, a sedici anni i maschi e dodici le femmine, entrano a testa alta nella vita civile o militare: sarà così per molte generazioni. Capita anche che gli imperatori e i governatori e altri alti funzionari proteggano personalmente singole famiglie in casi eccezionali: Duruy, per esempio, riferisce che Adriano si addossò il mantenimento e l'istruzione di cinque gemelli di Alessandria, tre maschi e due femmine, considerando un parto del genere un evento rarissimo di buon auspicio. Il programma degli alimentaria è molto poco in un Impero dove spesso la miseria falcidia l'infanzia. Ma è un balzo in avanti rispetto ai tempi della Columna lactaria della Roma repubblicana, che sorgeva presso il tempio della Pietà, e che fu abbattuta per lasciare posto al teatro di Marcello nel 40 avanti Cristo: ai suoi piedi, dove talora abbandonava i neonati, la plebe poteva trovare latte gratuito o balie (balie rimasero nelle vicinanze, a piazza Montanara, fino agli inizi del secolo passato). Ed è la premessa su cui gli imperatori di Bisanzio costruirono una rete di orfanotrofi, un sistema di affidamento dei bambini ai familiari, anche donne, cosa inaudita a Roma, e di adozioni senza pari nel mondo di allora. | << | < | > | >> |Pagina 88La rivoluzione di Galeno...Ancora più fuori della portata dei plebei furono le operazioni chirurgiche, interventi invasivi, tutti perfezionati dai medici sui corpi dei soldati romani feriti in battaglia e dei gladiatori feriti nei giochi, laboratori umani con cui Galeno cominciò a esercitare la sua professione. Le prime più rischiose operazioni non ebbero successo e non suscitarono fiducia: Seneca non si peritò di paragonare «le carneficine dei medici quando operano le ossa o infilano le mani negli intestini» ai crolli e agli incendi delle case. Ma l'esperienza delle guerre e dei combattimenti negli stadi creò generazioni di capaci chirurghi, come accadde ai medici europei americani e russi nella prima e nella seconda guerra mondiale. I reperti trovati nelle tabernae mediche e nelle farmacie dell'Impero (si operava anche nelle Pharmacolpolae, ma era pericoloso perché talvolta appartenenti a ciarlatani) dimostrano che l'antica Roma fu all'avanguardia in questo campo. Strumenti e tecniche erano incredibilmente moderni, i chirurghi potevano asportare tumori, operare cataratte, persino rimuovere frammenti del cranio e sostituirli con protesi di metallo. Per il paziente, sedato per modo di dire solo con oppiati, era una tortura atroce: doveva venire legato al tavolo o essere tenuto fermo con la forza dagli assistenti del chirurgo, e l'intervento a due mani doveva durare il meno possibile. Se sopravviveva, non solo all'operazione, ma anche alle frequenti infezioni e complicazioni, sia pure per pochi mesi, tra chirurgo, farmaci e terapia il paziente spendeva una fortuna. I plebei non potevano permetterselo, e se menomati ma non in pericolo di morte si trascinavano per Roma sciancati come erano, maledicendo la sorte e mendicando. È singolare come nell'antica Roma la scienza medica e la sanità pubblica spiccarono un balzo quasi simultaneo. La rivoluzione di Galeno coincise con l'ampliamento dell'assistenza sanitaria di stato. Ma chi era Galeno e donde proveniva? Galeno era il figlio di un grande architetto e agricoltore di Pergamo, oggi Bergama, in Turchia, che aveva studiato a Corinto e ad Alessandria, i templi della medicina, dalla età di 16 anni fino ai 28. Fu anche retore, filosofo e psicologo, e scrisse centinaia di trattati e saggi. Aveva un'altissima opinione di se stesso, ma non trascurava il parere dei colleghi più esperti, e sapeva comunicare con i pazienti meglio di chiunque altro. Curava di tutto, pleurite, ulceri, febbri, obesità, malattie mentali. La sua passione fu l'anatomia, e le sue ricerche al riguardo fecero di lui il precursore della moderna neurologia. Ebbe come modello Ippocrate, ma con la sua prodigiosa erudizione lasciò sulla medicina una impronta più profonda di quella del grande medico greco, impronta che sopravvisse per più di un millennio.
Anche grazie a lui, le prime specializzazioni, la chirurgia,
l'otorinolaringoiatria, l'oculistica, si propagarono in tutto l'Impero. A Roma
fu considerato così capace che gli si coniò il detto «Qui mattus nascitur,
unquam non guarire potest, etiam Galeno» (chi nasce matto
non può essere mai curato, neppure da Galeno), una delle ragioni
per cui oggi qualcuno individua nei suoi studi e nelle sue terapie
dello stress l'alba della moderna psichiatria. Ignoriamo se Galeno
appoggiasse un sistema sanitario pubblico, sappiamo soltanto che
curò malati anche gratuitamente. Tuttavia imperatori come Antonino Pio, che non
lo conobbe ma ne apprezzò la fama, e come Marco
Aurelio, che lo volle al proprio fianco, non poterono sicuramente essere
insensibili alla sua personalità e alla sua scienza. Forse si
chiesero se non fosse ingiusto riservarle al potere e alla aristocrazia,
e se non fosse invece giusto metterle al servizio anche dei sudditi
dell'Impero.
...e quella di Antonino Pio Sebbene la medicina e il sistema sanitario lasciassero molto a desiderare anche nell'Alto Impero, fu la civiltà romana a fare della salute pubblica un valore universale. Al principio, Roma ne addossò la responsabilità ai singoli cittadini. Mens sana in corpore sano non era uno slogan, ma un regime di vita. Gelso affermava che «ciascuno deve dedicare parte della giornata al proprio corpo [...] e fare esercizi fisici specialmente prima dei pasti». Galeno consigliava una cena leggera ammonendo che «magna nocet», la cena pesante fa male. E l'architetto Vitruvio suggeriva di abitare vicino a sorgenti d'acqua. Dieta, ginnastica e igiene personali furono i principi su cui la romanità imperniò la salute pubblica, principi sovente violati da una aristocrazia dedita all'ozio e ai bagordi, che riteneva di potersi riprendere con i salassi e i massaggi. Questi principi furono più facili da rispettare per i militari, costretti a tenersi sempre in perfette condizioni fisiche e per gli schiavi indispensabili ai padroni, che non per i plebei poveri, il cui unico cibo era non di rado il grano donato loro mensilmente dallo stato, e che vedevano solo l'acqua dei fiumi, nei laghi e nelle paludi. Tuttavia la Repubblica si adoperò affinché migliorasse anche la loro esistenza. Furono costruiti i primi bagni e acquedotti, le prime fogne e strade lastricate, in gran parte sul modello degli etruschi, ai quali risale la cloaca maxima di Roma, che venne debitamente ampliata e rinnovata. «I greci sono famosi per la bellezza delle città» fu il sommario giudizio del geografo greco Strabone, (58-21 avanti Cristo) «ma i romani eccellono nelle infrastrutture e nei lavori pubblici [...] più importanti anche delle inutili Piramidi». Si può discutere se queste opere furono frutto dalla consapevolezza che il passaggio dalla civiltà contadina dalla civiltà urbana aveva reso lo stato responsabile ultimo della salute pubblica, o se furono frutto del desiderio dei consoli dei senatori e dei vari miliardari che vi contribuirono finanziariamente di passare alla storia. Ma il fatto è che con la romanità la salute pubblica divenne uno degli obblighi imprescindibili dello stato. Come altre politiche sociali delle democrazie moderne anche essa è dovuta alle scelte dei romani. All'avvento dell'Impero, ricordiamo, l'assistenza sanitaria di stato spettava soltanto ai militari. Ci vollero tre secoli perché fosse estesa a tutti i civili. Ma nel frattempo, gli imperatori adottarono vari provvedimenti igienici e medici, dalla sorveglianza dei generi alimentari alla licenza per i medici pubblici, a tutela della salute dei cittadini. Grato al suo liberto medico Musa di avergli salvato la vita, Augusto esentò i dottori dalle tasse. Tiberio stanziò lauti stipendi per i dottori di corte. L'avaro Vespasiano ne assegnò di assai più modesti agli insegnanti di medicina, sino ad allora pagati dagli allievi. Non è chiaro in quali anni lo stato e i municipii incominciarono ad assumere medici pubblici e ad aprire ambulatori per loro, officinae o anche tabernae come gli studi privati. Ma a partire dal II secolo dopo Cristo la plebe potette godere di qualche forma di assistenza medica gratuita. Non solo: spesso i medici pubblici erano più preparati e meglio pagati dei medici privati, molti dei quali rimanevano di dubbie estrazione e qualità. Non che ai plebei fosse riservato lo stesso trattamento dei nobili: i plebei venivano operati all'ambulatorio e rimandati a casa il giorno stesso, o il giorno dopo, e l'esito della loro convalescenza era una incognita; gli aristocratici si sottoponevano invece agli interventi dei massimi luminari nelle proprie dimore ed erano poi da essi seguiti quasi quotidianamente. Ma per molti romani prima lasciati a se stessi, ammalarsi, anche se gravemente, non significava più morire. Con l'eccezione, abbiamo visto, delle epidemie come quella antonina. Antonino Pio fu il primo a regolamentare la medicina e il sistema sanitario romani. L'imperatore stabilì che i medici eletti o nominati medici pubblici (archiatri) dovessero esibire credenziali impeccabili. Fornì loro officinae o ambulatori con le dovute attrezzature. E confermò loro l'esenzione dalle tasse di Augusto, revocandola ai medici privati. Antonino Pio, che morì nel 161 dopo Cristo, limitò inoltre il numero degli archiatri perché non gravassero troppo sul precario bilancio dell'Impero: le città più piccole non potevano averne più di cinque, quelle di medie dimensioni più di sette, e quelle grandi più di dieci. Non dimentichiamo che l'imperatore impose analoghe misure sulla scuola pubblica, a conferma che le politiche sociali stavano divenendo preminenti nell'Impero. | << | < | > | >> |Pagina 112La rivoluzione culturaleLa marcia di Cesare, Augusto e Vespasiano verso la scuola pubblica viene accelerata da Nerva, imperatore dal 96 al 98 dopo Cristo che, come visto, ordina che i figli dei cittadini indigenti siano alimentati a spese dello stato. Dell'anziano Nerva, un civile, una eccezione nella storia imperiale, noi oggi diremmo che è un economista alla John Maynard Keynes , dunque non liberista ma statalista, che tenta di risanare la pubblica finanza e di ridistribuire un minimo della ricchezza nazionale ai cittadini spogliandosi persino dei propri averi. I suoi sussidi alimentari sono un misto di mensa scolastica e di borsa di studio: egli vuole che i bambini poveri non soltanto possano mangiare ma possano anche studiare. Traiano, che regnerà fino al 117 dopo Cristo e costruirà la Biblioteca Ulpiana, ne proseguirà l'opera: abbiamo visto che a Roma manterrà e manderà a scuola circa 5 mila bambini, e che farà aprire scuole pubbliche in tutta l'Italia. Il suo magnifico successore Adriano, malato di ellenismo («il piccolo greco» secondo i suoi nemici), imperatore colto, inquieto e itinerante, che passerà più tempo visitando le province che a Roma, si dimostrerà lo statista più illuminato di tutti: cancellerà gli enormi debiti dei cittadini, nobiliterà la pubblica istruzione con il monumentale Atheneum di Roma, e raccoglierà il corpo delle leggi romane nell' Edictum perpetuum del suo giurista Silvius Iulianus. Adriano, il pacificatore dell'Impero dopo le guerre di Traiano, morirà nel 138 dopo Cristo, lasciando il trono ad Antonino Pio, che lo occuperà fino al 161. Sotto Antonino, il retore greco Elio Aristide (117-180 dopo Cristo) proclamò che l'Impero «è pieno di ginnasi, fontane, propilei, templi, officine e scuole». I cinque imperatori che ressero Roma da Nerva a Marco Aurelio, l'ultimo, l'imperatore filosofo spirato nel 180, sono passati alla storia come "i buoni imperatori". Sulla condizione della scuola pubblica nella loro età, detta degli Antonini da Antonino Pio e Marco Aurelio, esistono testimonianze copiose. Svetonio afferma che nella tarda Repubblica c'erano già più di venti scuole a Roma, probabilmente scuole superiori private di modeste dimensioni. Il politico e giurista Ulpiano (170-228 dopo Cristo) nota invece che nell'alto Impero il sistema scolastico pubblico ebbe rapido sviluppo in tutto il suo territorio: egli parla di maestri che insegnano alle elementari non soltanto nelle città ma anche nei vici, nei villaggi. Oltre che in molti municipii italici da Aquileia a Napoli, due grandi città portuali, da Bergamo a Benevento, da Brescia a Capua, da Verona a Pompei, esistevano scuole in molte città di provincia occidentali come Lione e Limoges nella Gallia, e Cordova e Italica in Spagna. Una lettera di Plinio il giovane allo storico Tacito, suo amico e maestro, indica che nell'Italia di Traiano molti ricchi e potenti contribuirono all'istruzione pubblica. Plinio, benestante e ben visto dall'imperatore, scrisse a Tacito di avere offerto ai cittadini più eminenti della sua amata Como di pagare un terzo del costo di una scuola superiore pubblica purché essi pagassero gli altri due terzi. Lo scrittore era irritato dal fatto che il figlio di un lontano parente fosse stato costretto ad andare a studiare a Milano. La rivoluzione culturale è irreversibile. Papiri egiziani e testi greci testimoniano di una presenza più massiccia delle scuole pubbliche nelle province di Oriente. Esse erano finanziate ora dallo stato ora da uno o più filantropi, ansiosi di fornire «a ragazzi liberi una istruzione adeguata», come sottolinea William Harris. In Egitto e in Grecia lo voleva la tradizione: lo storico greco Diodoro Siculo (90-27 avanti Cristo) elogia il sistema di «istruzione pubblica per tutti i cittadini maschi» vigente nel suo paese già prima dell'Impero. In quelle province, spicca la figura del paidonornos paragonabile, stando ad alcuni storici ma non ad altri come Harris, ai moderni ispettori scolatici. È tuttavia dubbio che a Roma o nelle province d'Occidente e d'Oriente la riforma scolastica abbia drasticamente ridotto l'analfabetismo, che nei calcoli più ottimistici affliggeva l'80 per cento della popolazione. L'Impero Romano non creò infatti scuole pubbliche per chi non parlasse greco o latino, forse la maggioranza dei sudditi, e non badò a che tutti i massimi funzionari eccellessero nella scrittura, dato che avevano nei loro uffici stenografi, amanuensi e scribi. Approfittarono dell'istruzione di stato innanzitutto i giovani più ambiziosi dei ceti medio e basso, gli schiavi che volevano emanciparsi, e donne di particolare talento, a cui accennano tra gli altri Svetonio e Plinio il giovane. La dedizione agli studia è comunque una delle virtù più esaltate negli epitaffi ai defunti. Il successo della scuola pubblica nella storia romana va misurato con un altro metro. Assieme alla scuola privata, e all'esercito che, come vedremo, fu una fucina di leader politici, essa fornì all'impero la nuova classe che le occorreva, una classe di magistrati e amministratori che, corruzione e abusi a parte, rimane un modello per la società moderna. Gli statali, ossia i funzionari imperiali e municipali, e i militari, assursero a simbolo della romanità. Quando si parla de "i buoni imperatori" è però facile sconfinare nell'agiografia. Nessuno di essi riconobbe le libertà civili dei sudditi, né istituì l'edilizia pubblica, né pose fine alla schiavitù, né abolì la pena di morte sebbene essa fosse oggetto di critiche brucianti: il più umanitario dei cinque imperatori fu Antonino Pio, che vietò la tortura ai minori di quattordici anni. Tra l'antica Roma e le democrazie moderne c'è un abisso. Ma è innegabile che per i loro tempi i buoni imperatori migliorarono la società e l'economia romana: la società con la pubblica assistenza oltre che all'istruzione anche alla salute e al sostentamento dei cittadini, il welfare; l'economia ponendo limiti allo sfrenato capitalismo della tarda Repubblica. Nerva e i suoi eredi seguirono politiche sociali lodevoli anche se inadeguate ai bisogni dei più, e non trovarono nulla di incompatibile tra il welfare e la filantropia privata da una pare e il mercato, ossia la produzione agricola e industriale e i commerci, dall'altra. Relativamente ai tempi, si mostrarono capaci di governare, cosa che non si può dire di tutti i governi italiani dalla fine della Seconda guerra mondiale. | << | < | > | >> |Pagina 143«Si addice a un uomo sensibile e colto vivere in termini familiari con i suoi schiavi». «Ma sono schiavi!». «No, sono uomini, compagni e umili amici». Seneca, 4 avanti Cristo - 65 dopo Cristo. Human rights in ancient Rome, I diritti umani nell'antica Roma, è un provocatorio libro di Richard Bauman, un brillante studioso australiano della romanità. Pubblicato nel 2000 dalla Routledge di Londra e di New York, il libro ricostruisce minuziosamente il tortuoso percorso di Roma verso lo stato di diritto, un percorso mai completato, illustrandone le contraddizioni e le carenze. La sua conclusione è sorprendente: fu la romanità, asserisce Bauman, a sviluppare sia pure in forma parziale ed embrionale il principio dei diritti umani, un principio ereditato dalla Grecia, ed è merito suo se esso fa parte della nostra civiltà e della nostra cultura. Un'asserzione discutibile perché nella storiografia romana i diritti umani come da noi definiti non figurano, e la storiografia moderna nega quasi all'unanimità che Roma li coltivasse. Tuttavia la tesi di Bauman che i nostri human rights sono collegabili alla humanitas della Roma repubblicana e alla clementia della Roma imperiale non può essere ignorata. Nel contesto delle loro epoche e delle loro società, la humanitas e la clementia equivalgono a un riconoscimento dei diritti umani. Lo studioso cerca un sostegno alla propria tesi nel linguaggio giuridico romano: lo ius gentium, il diritto delle genti, e lo ius humanum, il diritto umano, ricorda, furono assiduamente invocati nel foro. Bauman cita l'elogio reso a Roma da Edward Gibbon ne la Storia del declino e della caduta dello Impero Romano, una serie di volumi pubblicati tra il 1776 e il 1888: Lamministrazione civile nelle sue varie forme fu attentamente preservata da Nerva Traiano Adriano e i due antonini, lieti di ritenersi responsabili ministri del Diritto. Non a caso, secondo Bauman, la Dichiarazione di indipendenza americana e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e dei cittadini francese, l'una del 1876 l'altra del 1879, sono contemporanee all'opera di Gibbon. Come i libri dello storico inglese esse «rispondono alla tradizione classica» della giurisprudenza occidentale. Prima che figlie dell' illuminismo, lo studioso le considera, perciò, figlie della romanità. Non solo. A suo giudizio, la Dichiarazione universale dei diritti umani dell'Onu del 1948 riflette «la dottrina dell'universalismo trasmessa ai romani dai greci», oltre che le Dichiarazioni americana e inglese. Dottrina riassunta nel II secolo avanti Cristo dal celebre detto del commediografo Publio Terenzio: «Homo sum: humani nihil a me alienum puto». Sono un uomo, nulla che concerne l'uomo credo mi sia estraneo. È obbiettivamente difficile conciliare la tesi di Bauman con gli aspetti più crudeli della romanità, dalla schiavismo al colonialismo, dai genocidi alle torture. La Repubblica, teoricamente una democrazia, fu in realtà una aristocrazia teocratica e imperialista divisa in caste, e finì per implodere. L'Impero fu una dittatura ora arcigna ora benigna, dove tutto dipese dalla politica, dal carattere e dagli umori del dio imperatore e della burocrazia. Cessò di espandersi con gli antonini, ma spaccò la società romana in honestiores e humiliores, con leggi opposte intese a premiare gli honestiores, cittadini di prima classe, e a penalizzare gli humiliores, cittadini di seconda classe. Come vedremo, però, gli aspetti più disumani dell'antica Roma furono sempre oggetto di dispute pubbliche veementi, spesso coronate da riforme che li attenuarono se non eliminarono interamente. Dispute per esempio sulla guerra giusta e ingiusta e sulla pena di morte che proseguono ancora oggi in Europa e soprattutto in America: Guerra giusta e ingiusta è il titolo di un libro del filosofo politico americano Michael Walzer, evocato durante la guerra (ingiusta) dell'Iraq. Tutti ricordiamo il film Dead man walking sull'esecuzione di un detenuto della Louisiana. Dispute anche sulla lettera e sullo spirito delle leggi odierne, che in Italia e altrove trovano talora applicazioni inspiegabilmente diverse a seconda dei giudici e degli imputati.
[...]
La Roma imperiale è una società a compartimenti stagni ancora più di quanto non lo fosse la Roma Repubblicana. Da una parte ci sono gli ingenui, i nati liberi (nati dove importa relativamente poco), e dall'altra ci sono i servi, gli schiavi, che originariamente erano stati considerati non esseri umani bensì animali o addirittura cose, "strumenti parlanti". Ma gli "ingenui" si dividono in due gruppi: i cittadini romani, protetti dalla legge, e i "peregrini" o stranieri che alla legge sono solo sottomessi. Si dividono in due gruppi i cittadini romani stessi. La classe dominante, gli honestiores, è formata da due ordines, quello dei senatori, che devono possedere un patrimonio di almeno 1 milione di sesterzi (2 milioni di euro), e quello dei cavalieri, che devono possederne uno di 400 mila sesterzi, 800 mila euro: all'inizio la proprietà terriera, è da sempre la discriminante sociale della romanità come lo è, anche se non vogliamo ammetterlo, nelle democrazie del Terzo millennio, da noi così malamente inaugurato. Ma da soli i due ordines non bastano a soddisfare le richieste di servizio avanzate dallo stato, e la casta degli honestiores viene estesa ai militari, ai veterani, ai pubblici funzionari e ai liberti, nonché ai loro discendenti, ossia a una parte dei plebei. La classe dominata, gli humiliores o quelli che rimangono plebei, una marea montante nell'Impero, comprende tutto il resto della popolazione. Essa coltiva la sua visione dell' American dream, il sogno di superare la barriera sociale che animerà i cittadini statunitensi. E in verità, come nella America odierna, gli humiliores possono diventare honestiores ma, abbiamo appena visto, solo se eccellono nella politica o nelle armi o se accumulano una consistente fortuna. Un salto che vale la pena di tentare, perché cambia totalmente l'esistenza. Gli humiliores che commettono un reato possono essere condannati, a seconda della sua gravità, ai lavori forzati nelle miniere, alla crocifissione, o a essere dati in pasto alle belve nel circo. Gli unici correttivi sono la humanitas e la clementia, ma essi vengono dispensati dal potere a proprio piacimento e non sono codificati come diritti umani. Al contrario, molto di rado gli honestiores ricevono la sentenza capitale per crimini analoghi, al più vengono esiliati, o spogliati dei loro beni, o privati della cittadinanza romana: la massima umiliazione. In compenso, soprattutto ai vertici, essi possono perdere la vita in congiure e in vendette politiche, pericolo che gli humiliores in genere non corrono.
Nell'Impero, la società romana è strutturata come una piramide, in
cima alla quale siede l'imperatore, che non è soltanto un monarca
assoluto ma è anche un dio. Invano, all'inizio della età degli antonini, Traiano
rifiuta di atteggiarsi come il predecessore Domiziano
che esigeva di essere chiamato
dominus et deus.
Di fatto, egli lo è. Come l'antico
pater familias
lo aveva sui propri congiunti, così l'imperatore ha diritto di vita e di morte
sui propri sudditi, un diritto
conservato ancora oggi dal presidente e dai governatori degli stati
americani, che possono graziare i condannati alla pena capitale.
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