|
|
| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 7 PARTE I: LO STATO DELLA DISUNIONE l. L'Internet che s'è rotta e quella che verrà 9 2. Internet 1 e 2 17 3. La benefica bolla della New Economy 25 4. La vendetta dell'Old 43 5. La Terza Internet 55 PARTE II: PROPRIETA (?) INTELLETTUALE 6. Copyright, Contratti e codice 73 7. Imparare da Napster 95 8. Morbidi brevetti: il software 105 9. Vitali brevetti: geni e Dna 113 PARTE III: ALTERNATIVE & CONFLITTI 10. Da Pari a Pari 135 11. Scatole trasparentí 143 12. I Blog della Sfera Pubblica 165 13. Cooperare è meglio (e piacevole) 177 14. Salutari conflitti dietro l'angolo 187 LETTURE CONSIGLIATE 191 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Internet ormai è solo un nome di comodo, un simulacro. Probabilmente continueremo a utilizzarlo, ma già non si riferisce più a un'unica rete, un'unica tecnologia; non è più uno spazio comune e sociale. E l'Internet che si profila non sembrerebbe, al primo sguardo, particolarmente allegra né attraente. Che piaccia o meno, la frammentazione e la gerarchizzazione sono in atto, frutto forse inevitabile del suo stesso successo, cui pochi credevano e che molti osteggiarono, a destra come a sinistra; o perché non avevano capito o perché, avendo capito, si rendevano conto che avevano molto da perdere. Ora invece, gennaio 2002, dalla città di Jayapura, West Papua, è del tutto normale che l'alberghetto ti permetta di fare la posta elettronica ed è purtroppo altrettanto normale che otto messaggi in arrivo su dieci appartengano alla molesta categoria dello spamming, pubblicità elettronica non richiesta né gradita. È anche scontato che da lì si possano leggere le notizie italiane dal sito web del manifesto, come quelle di finanza fornite dal Wall Street Journal, in questo caso grazie a un abbonamento da 59 dollari, ben inferiori ai 500 euro e oltre necessari per comprarlo in edicola tutto l'anno. È anche pratica corrente per un senegalese che viva a Parigi recarsi al cibercafè Vis à Vis, nel quartiere di Saint Bernard, e da lì videotelefonare alla famiglia lontana, cui ha dato appuntamento al Metissacana, che è un omologo Internet provider in Dakar. La (video)telefonia Internet va un po' a scatti, ma costa circa dieci volte di meno delle chiamate internazionali, e oltre a tutto ci si vede anche in faccia. Tutto ciò, e molto altro ancora è già avvenuto, entrando tranquillamente a far parte della vita quotidiana di milioni di persone di tutto il mondo proprio come Andy Grove, il sessantacinquenne che ha fondato e diretto la californiana Intel, aveva lucidamente previsto nel maggio del 1999: «Nel giro di cinque anni non ci saranno più imprese Internet, perché tutte lo saranno. Diversamente moriranno». Internet come normalità (e banalità) già raggiunta, dunque. Ma attenzione: si può anche sostenere che quelle viste finora siano state soltanto le prime violente scosse di un terremoto, cui è seguita un'inevitabile fase di assestamento, e che gli effetti più interessanti e di lunga durata siano ancora di là da venire. È vero infatti che il primo collegamento «alla Internet» avvenne nel lontanissimo settembre 1969, ma la vera esplosione di massa del fenomeno arrivò solo nel 1993 e comunque, agli inizi del 2002, queste masse non superavano i 500 milioni, secondo le stime della società di ricerche IDC: il ritmo di crescita è stato elevatissirno, ma si tratta pur sempre di una piccola percentuale della popolazione del mondo. C'è dunque ampio spazio di crescita, se si prende come riferimento la penetrazione mondiale della televisione o del telefono (986 milioni di linee telefoniche al 2000).
Guai tuttavia a pensare che questa nuova espansione
possa essere lineare e tranquilla. Al contrario ha tutta
l'aria di essere un processo molto alterno e soprattutto
ricco di conflitti che riguarderanno tutti gli aspetti del
fenomeno: tecnologia, economia, società e cultura. Questi
diversi piatti di scontro sono fortemente intrecciati;
per esempio il prevalere di una soluzione tecnologica o di
un'altra avrà conseguenze formidabili sui soggetti
dell'economia di rete e sui livelli di democrazia.
Viceversa il dispiegarsi di una forte domanda sociale nel
senso della partecipazione influenzerà anche le concrete
opzioni tecniche delle nuove reti e la loro architettura.
LA LORO INTERNET Lo scenario possibile della Terza Internet lo si può immaginare così: non già mezzo miliardo di persone collegate alla rete attraverso i loro computer di casa e d'ufficio, ma un miliardo o due, cui aggiungere 10 o 100 miliardi di minuscoli apparati disseminati per case, auto, treni e strade, tutti dotati di indirizzo Internet e tutti in comunicazione tra di loro, per coordinarsi anche senza bisogno degli umani. Dunque un'infrastruttura che riveste il mondo utilizzando le virtù dell'Internet di una volta (semplicità e standardizzazione) per dilatarsi a vera rete globale dei servizi e dei commerci digitali, con molte raffinatezze e complicazioni in più. Apparentemente una rete unica, ma di fatto una molteplicità di reti e sottoreti, non tutte ugualmente collegate, né ugualmente accessibili. | << | < | > | >> |Pagina 43Queste pagine sono state scritte a crisi ormai consumata delle aziende Dot Com e in presenza di una recessione generale dell'economia che ha colpito soprattutto il settore tecnologico. In periodi del genere i protagonisti dell'economia si attestano, riorganizzano le proprie forze e tracciano le strategie future. Apparentemente prevalgono incertezze e confusioni, malattie di cui soffre in particolare chi si fosse troppo facilmente abituato all'idea che il mondo era davvero cambiato e che l'economia poteva solo crescere, sempre a inflazione zero e occupazione crescente, magari con l'indice Dow Jones a quota 36.000. In realtà dei capisaldi - molto saldi - vanno emergendo e sono tutto fuorché tranquilizzanti. Il punto di vista ottimistico sostiene che, passata l'insana euforia del 1995-2000, si torna ai principi dell'economia classica e che una giusta selezione darwiniana ha eliminato dal panorama le iniziative più avventurose e sciocche. Quello che resta, dunque, è una solida base di rilancio e si accompagna al fatto, anch'esso positivo, che molte aziende della Old Economy, spesso chiamate giornalisticamente le bricks and mortar, ovvero di calce e mattoni, hanno imparato la dura lezione dell'Internet e si sono fatte almeno un po' clics and mortar, riorganizzandosi per un mondo in cui l'Internet non è un fenomeno effimero ma una presenza costante e ineliminabile, un'opportunità anziché una minaccia, come dice il trito luogo comune dei consulenti aziendali. Nello stesso tempo, c'è stata anche una rivincita della fisicità, dato che molte aziende «solo Internet», hanno intrapreso il percorso inverso (clics to bricks), diventando un po' più simili a quelle tradizionali. Questa tranquillizzante visione contiene degli elementi di verità, ma nel complesso appare soprattutto ideologica. Non solo perché mette in ombra conflitti e controtendenze, ma perché appartiene alla ingloriosa tradizione pseudo storicista in base alla quale ogni cosa che avviene era inevitabile che avvenisse e in ogni caso è sempre nel senso del progresso. L'opinione di chi scrive è assai diversa e preoccupata e suona così: tutti i poteri, sia quelli piccolissimi come il consiglio direttivo di una bocciofila (nobile sport), che quelli grandissimi come il Pentagono, in questi anni si sono presi una bella paura, anzi brutta. Era successo infatti che, senza segni premonitori, un apparato tecnico-sociale come l'Internet mettesse in dubbio l'utilità e la legittimità delle agenzie politico sociali di mediazione e controllo. Era stato un tipico fenomeno carsico: non un violento fuoco nelle praterie, come il '68, ma un tranquillo insinuarsi dappertutto; all'improvviso gli agenti della mediazione scoprivano che l'acqua stava salendo. | << | < | > | >> |Pagina 111IL LATO OSCURO DEL SOFTWAREAlla robusta protezione attribuita al software corrisponde un suo «dato oscuro» a tutti noto, anche se pochissimi reagiscono, per una sorta di diffuso fatalismo, o per acquiescenza verso un'industria così potente. Se il software è merce - come gli stessi produttori ripetono instancabilmente, lottando contro il pirataggio dei loro prodotti - allora dovrebbe essere trattato grosso modo alla stessa stregua di dentifrici e radiosveglie. Ci si dovrebbe dunque aspettare un livello adeguato di qualità e una cura del cliente paragonabile a quella esibita dalle case automobilistiche che si affannano a sostituire gratuitamente i prodotti difettosi (lo fanno per tenere il passo con gli standard di servizio giapponesi e per evitare cause civili miliardarie in caso di incidenti). Invece no, i software vengono venduti a caro prezzo, ma continuano a essere mal progettati (non tengono quasi mai conto delle modalità di impiego da parte degli utenti) e ricchi di difetti. Sono come automobili con sedili scomodi e pulsanti disposti a casaccio; oltre a tutto si fermano per motivi inspiegabili, mentre le spie emettono messaggi allarmanti e colpevolizzanti. Poi ripartono come se niente fosse, grazie alla banale ma seccante operazione di «uscire e rientrare», ovvero di spegnere e riaccendere il computer (esistono molte barzellette al riguardo). Se tutto ciò continua a succedere dopo 20 anni dalla nascita del personal computer (PC IBM, 1981) c'è da chiedersi come mai, dato che la novità della tecnologia non può essere più presa come una valida scusante. Una spiegazione certamente risiede nella intrinseca impossibilità (dimostrata anche da teoremi matematici) di realizzare software esenti da errori e nella correlata impossibilità di collaudarli perfettamente. Tuttavia i metodi di progettazione e di fabbricazione del software sono oggi molto evoluti rispetto all'epoca della creatività artigiana: modularità, librerie di oggetti, metodologie di ingegnerizzazione e controllo dovrebbero permettere risultati ben migliori. L'altra spiegazione rimanda all'assenza di concorrenza nel settore e alla presenza di un grande monopolista nella sua fascia più critica, quella del software di base. Non si tratta di demonizzare nessuno, ma solo di ricordare che il monopolista ha un incentivo assai debole a migliorare i suoi prodotti oltre un certo livello. Microsoft dimostrò a suo tempo tutta la sua bravura nel realizzare prodotti migliori di quelli che voleva scalzare (Lotus 1-2-3 venne migliorato e soppiantato da Excel, WordPerfect e WordStar da Word, dB3 da Access, Netscape da Internet Explorer) e questa è la controprova che quando si vuole, si può fare, oltre che la conferma di quanto la concorrenza vada a vantaggio dei consumatori. Ma la faccia oscura del software è frutto anche di un sistema contrattuale che dovrebbe fare inorridire ogni esperto di diritto civile. Questa contrattualistica fin dall'inizio ha limitato i diritti degli utenti, negando loro quegli elementari strumenti di tutela legale di cui invece possono godere quando comprano gli altri prodotti. La lettura delle clausole che accompagnano i prodotti software è illuminante. La prima cosa che si apprende è che il software non si compra, ma si acquisisce solo una licenza a usarlo, e che la licenza si riferisce al software «così com'è». In questo marchingegno sta il nocciolo di tutte le angherie successive. Se fosse un bene acquistato varrebbero tutte le leggi del diritto civile che regolano i contratti di compra e vendita, come la possibilità di restituire un prodotto difettoso o di chiedere il risarcimento per i danni provocati dal suo malfunzionamento. Se fosse un'automobile, acquistandola si avrebbe anche il diritto di migliorarla alterandola: un'auto può essere riverniciata o dotata di gomme scolpite da neve, le si possono alesare i cilindri e ribassare la testata e poi la si potrà anche rivendere, ricavando il giusto sovrapprezzo per le migliorie così abilmente introdotte. Il software invece non lo si può toccare e del resto sarebbe anche difficile farlo perché con la licenza viene solo fornito il codice eseguibile. È come se il cofano del motore fosse sigillato, impedendoci sia di vedere cosa c'è sotto che di modificarlo. Se ci fosse qualche dubbio sulla opportunità di adottare il modello del software libero, queste banali considerazioni dovrebbero dissiparlo. | << | < | > | >> |Pagina 143Questo capitolo parla di controtendenze (ormai assai robuste) e di speranze (per fortuna in parte già avverate). A un universo del software chiuso e controllato da pochi monopolisti si contrappone con successo un altro modello, anche di affari. È quello promosso dalla Free Software Foundation e dal movimento Open Source e ha un significato che va ben al di là delle battaglie del software e delle questioni puramente di mercato. Questa concreta esperienza, che coinvolge oramai decine di migliaia di persone dimostra, tra l'altro, che un modo diverso di fare software è possibile, alla faccia di tutti gli iperrealisti rassegnati secondo i quali ci sarebbe soltanto da seguire l'andazzo corrente e (apparentemente) unico. In queste realtà ben vive mercato e denaro non spariscono, né sarebbe augurabile, ma il loro parziale ridimensionamento lascia spazio a valori che sono sempre stati presenti nella storia umana come cooperazione, valore d'uso, altruismo, dono, reciprocità, condivísione. Andranno anche notate alcune cose singolari e più precisamente che: l. questi valori del passato vengono (ri)scoperti non già da nostalgici cantori dell'artigianato medioevale o dell'agricoltura di una volta, ma alla frontiera più spinta dell'innovazione tecnologica. 2. questa scoperta si propaga ben al di là del software e delle tecnologie dell'infonnazione, ma si dilata a altri territori: dalle reti nonprofit al microcredito, dall'organizzazione del lavoro alle teorie sulla democrazia e la decisione politica. 3. tutto ciò ha fondamenti anche teorici in solide correnti di pensiero, inizialmente liquidate un po' troppo frettolosamente come postmoderne o figlie di nebulose teorie della complessità. Oggi tuttavia i modelli che descrivono l'«emersione» di progetti globali grazie alla spontanea interazione locale di molti soggetti, stanno dimostrando una interessante robustezza sia pratica che teorica. Per esplorare questi temi faremo ricorso, anche come espediente narrativo, ad alcune figure guida: Linus Torvalds, Richard Stallmann, Eric Raymond e, in negativo, Bill Gates. Infatti anche nell'aneddotica minuta le loro storie di vita dicono molto e molto fanno capire, spesso più di tanti saggi sociologici. | << | < | > | >> |Pagina 161MA PERCHÈ LO FANNO?Come si è visto, il sistema operativo Linux si è accreditato come un serio concorrente dei software proprietari di Microsoft e company. Il che irrita molto Bill Gates, e non solo per una questione di soldi: l'uomo Gates infatti, è già talmente benestante da non sapere come utilizzare i suoi risparmi e infatti ne investe meritoriamente delle buone fette in progetti di sviluppo destinati ai paesi meno sviluppati. Dunque potrebbe benissimo permettersi di non fare la guerra a Linus Torvalds, il 32enne inventore di Linux. In fondo - tutti ne sono convinti - le tecnologie dell'informazione sono comunque destinate a crescere, malgrado la fine della New Economy, e ci dovrebbe essere spazio di mercato per tutti, per Linux come per Windows e per OS X di Apple. Se invece Gates e collaboratori si sono lanciati, tra il 1999 e il 2001 in aspre battaglie anche verbali contro il software aperto (oltre che dispiegare iniziative di marketing rivolte a contrastarlo), è anche per un motivo quasi filosofico: il modello Open Source, infatti, rappresenta la negazione pratica (la «falsificazione» direbbero i filosofi della scienza) di un assunto che appariva indiscutibile. Quello secondo cui l'unico modello possibile consiste nella massima protezione del software come forma originale di proprietà intellettuale, rafforzata da leggi, licenze e chiavistelli che impediscano a qualsivoglia utilizzatore di aprire, vedere cosa c'è dentro, modificare. In altre parole: se uno si trova per le mani un programma di scrittura Microsoft Word, debitamente acquistato, e vi trova un errore oppure voglia aggiungervi della prestazioni, non potrà farlo per due robusti motivi: intanto perché glielo vieta la licenza d'uso (che egli implicitamente accetta aprendo l'involucro del CD Rom) e soprattutto perché il codice sorgente è invisibile e protetto. Può solo sperare che prima o poi i progettisti di Microsoft (oppure di Oracle, o di Sun, a seconda dei casi) accolgano le sue proposte di correzione. Nel caso del software aperto, invece, i sorgenti sono liberamente visibili (oltre che gratuiti) e ogni modifica è possibile. Ovviamente questo ha una conseguenza negativa per gli inventori, perché, rendendo pubbliche le loro soluzioni, si espongono al rischio di pirataggi e copiature. In secondo luogo, non possono caricare costi eccessivi sui loro prodotti: nel mondo dell'Open Source il commercio di software non è proibito, ma lo si può fare solo nella forma di servizi di assistenza. Insomma, aziende come Red Hat o VA Linux non potranno mai conquistare posizioni monopolistiche e nemmeno dominanti; e infatti Red Hat nel novembre 2001 aveva una capitalizzazione in borsa di 957 milioni di dollari, mentre Microsoft valeva circa 350 volte tanto, ovvero 345 miliardi di dollari. Allora perché lo fanno? Perché Linus Torvalds non ha accettato di entrare nel consiglio di amministrazione di una società inglese che gli offriva 10 milioni di dollari giusto per cominciare? E perché Tim Berners-Lee, entusiasta inventore del World Wide Web, si accontenta di dirigere il consorzio non profit W3C e non ha mai voluto brevettare il suo linguaggio Html né alcun altra sua creazione? Le ipotesi teoricamente possibili sono due. La prima dice che sono delle mosche bianche ma fuori del tempo. Nei loro confronti l'opinione più critica e il realismo più sciocco sostengono anzi che essi non solo sono idealisti inguaribili ma che fanno danno, impedendo con le loro azioni altruistiche e fuori della realtà, il sano dispiegarsi delle uniche e possibili dialettiche sociali: quelle del mercato nella versione Gates o quelle della guerra nella versione del Pentagono. Esattamente di questa opinione è la Microsoft quando sostiene che la licenza Open Source è come un cancro che mina i diritti di proprietà intellettuale e che dunque Linux va combattuto non solo per normale scontro concorrenziale, ma proprio perché disseminatore di idee cattive e pericolose. Nel campo del software, ma non solo. L'altra ipotesi possibile è che invece Linus e Tim rappresentino solo le figure più note di un movimento ampio (centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo) e che quest'ultimo contenga ben più di una idealistica contestazione del modo attuale di fare software e di stare in rete. Si può insomma sostenere (e proveremo a argomentarlo) che: il comportamento altruista e cooperativo non è un residuo di società arcaiche e preindustriali; che esso non è solo l'altra faccia dell'egoismo umano, ma che invece è un elemento modernissimo e essenziale del nuovo mondo possibile che si va plasmando e che, in quanto tale, dovrebbe semmai risultare interessante anche per i più lungimiranti tra i capitalisti - la qual cosa del resto si va già verificando. | << | < | > | >> |Pagina 189ALLARGARE LIBERTÀ E DIRITTIIl presupposto di questa supernet costituita da più reti a valore aggiunto è che i loro gestori riescano a impadronirsi definitivarnente dei beni intellettuali (informazioni, conoscenze, saperi) per poterli vendere. Cioè che si consolidi il triplice controllo esercitato attraverso le leggi (copyright e brevetti, rivisti e estesi), il mercato (licenze d'uso e contratti) e gli apparati (il codice software e hardware per la gestione dei diritti di proprietà intellettuali): Copyright, Contratti e Codice. Come si è raccontato, la corsa si è accelerata e non ha finora incontrato significative resistenze, ma queste sono destinate a materilizzarsi. Un esempio è la disobbedienza civile dei milioni di «amici di Napster» che hanno continuato a scambiarsi musica anche se li hanno classificati come «ladri». Un altro è la caparbia resistenza di ricercatori scientifici e «umili» bibliotecari che non intendono rinunciare al loro ruolo pubblico di produttori e mediatori di conoscenza. Al contrario questi studiosi, tutto fuorché eversori o hacker, vanno usando la Rete proprio per estendere tale preziosa funzione sociale. Tutto il peggio è sempre possibile, non c'è dubbio, ma infine sembra difficile che gli organi legislativi possano restare indifferenti rispetto a un tale ribaltamento dei valori su cui gli stati si sono formati. La scelta di non legiferare sull'Internet per una fase ebbe solo effetti positivi, favorendo il dispiegarsi dell'inventiva sociale, ma da un certo punto in poi ha significato che le leggi di fatto venissero scritte dalle aziende, anzi dagli operatori di Wall Street. Certo, come Habermas ha notato fin dal 1991, la sfera pubblica da tempo si è rinsecchita (è stata consapevolmente rinsecchita), ma qui non si tratta solo della difesa di valori costituzionali come la libera circolazione delle idee; è in ballo anche il futuro dell'innovazione e cioè del benessere delle nazioni. Anche per questo è possibile che emergano nuovi interventi regolatori come quelli che nella storia delle telecomunicazioni hanno frenato i monopoli e imposto loro alcune forme di tutela del bene comune, come il servizio universale e non discriminatorio. Secondo Derrick de Kerckhove si impone ormai una Carta dei Diritti del cittadino relativamente all'accesso e all'uso delle conoscenze. Una cosa del genere avrebbe certo un carattere dirompente, come quello che ebbe a suo tempo la legge sull'accesso agli atti delle amministrazioni pubbliche (il Freedom of Information Act). Anzi superiore perché non è in gioco solo l'accesso ai documenti pubblici, ma la disponibilità dei saperi universali. Troppo ambizioso? Non è detto: le leggi e le norme di carattere pubblico arrivano di solito a consolidare diritti e fenomeni che si sono già imposti nella società, dando loro coerenza e universalità (cioè rendendoli esigibili da tutti). Nel caso dell'Internet siamo in presenza di pratiche e culture consolidate e ormai di massa e un loro riconoscimento legislativo è maturo e opportuno, purché non sia frettoloso e iperburocratico - una caratteristica di molti interventi governativi specializzati nel mettere le braghe anziché nel promuovere. Questi cittadini del mondo reale che hanno apprezzato le relazioni di rete costituiscono un ostacolo robusto e diffuso per i ladri della conoscenza pubblica e certo metteranno in atto azioni di resistenza o di aggiramento. O persino, come è successo con il P2P e il movimento Open Source, promuoveranno altre innovazioni che diano loro piacere e soddisfazione. «Just for fun» e per il gusto della libertà. |
| << | < | > | >> |Riferimenti
| << | < | |