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| << | < | > | >> |IndicePrefazione Una città con poca memoria di Amedeo Osti Guerrazzi 5 Introduzione 11 Capitolo I. LA RINASCITA Buio a fine secolo 21 «Irrequietezza» giovanile 28 Questioni d'identità 33 Questioni di classe 41 Cavalieri erranti e liberi pensatori 46 Il sindacalismo d'azione diretta 50 Individualisti, garibaldini e novatori 59 La rivolta della ragione 65 Anni di consolidamento 71 La Settimana rossa 80 Capitolo II. NEL «CARNAIO EUROPEO» Guerra alla guerra? 91 La conciliazione impossibile 93 L'espulsione di Maria Rygier 98 «La Sfida» e la disfatta degli Anarchici indipendenti 100 Dispersione 106 Ricomposizione 110 Notizie dall'Est 119 Capitolo III. LA RIVOLUZIONE MANCATA 125 Una «febbrile» attività 130 Anarchici e socialisti 134 L'Internazionale sovversiva 138 Agitazioni e sommosse 141 Uno strano complotto 146 L'inutile "scioperissimo" 153 «Un compagno fra i compagni», Malatesta a Roma 157 Una riunione segreta segreta 160 «Umanità Nova» 163 La Battaglia del Colosseo e altre scaramucce 166 Autonomia e rivolta 171 «Saltare al collo della borghesia» 176 Espropriando gli espropriatori: l'occupazione delle fabbriche 179 Espropriando gli espropriatori: l'occupazione delle case 183 Capitolo IV. L'APPROSSIMARSI DELLA REAZIONE Il breve «sopravvento» 189 Il confronto con lo Stato 190 Una bomba a Milano 194 Dell'anarcosindacalismo 197 Antifascismo e difesa operaia 207 Gli Arditi del popolo 210 Dal nulla sorgemmo? 216 La tensione anarchica 219 La difesa di Roma 223 Anarchici e comunisti 229 Alla vigilia 236 La marcia su Roma 241 Capitolo V. VERSO IL NULLA Il giorno dopo 245 Quiete (quasi) assoluta 248 Sindacalisti in camicia nera 251 Fede, Vita, Pensiero e Volontà! 259 L'antifascismo spontaneo 263 Anarchici all'osteria 270 Le bombe di Gino 274 Una generazione interrotta 279 Documenti 289 Giornali coevi e Archivi consultati 327 Abbreviazioni e sigle 328 Indice dei nomi 330 Bibliografia 339 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Per quanto sia difficile capire il perché, Roma nel Novecento è una delle città meno studiate, dal punto di vista politico e sociale, dell'intera Penisola. Tradizionalmente, la ricerca storica si è concentrata sull'urbanistica, con moltissimi studi sui progetti e gli "sventramenti" del Regime, oppure sulla nascita della megalopoli degli anni Sessanta e Settanta, con le grandi trasformazioni e l'urbanizzazione selvaggia a partire dagli anni del "Boom economico". Dal punto di vista economico e sociale invece Roma viene tradizionalmente descritta come una città di impiegati e commercianti, di preti e di burocrati; una società priva di una classe operaia numerosa e combattiva e fortemente controllata dalla polizia, che per volontà dei governi impone un rigidissimo controllo sull'ordine pubblico. Insomma una città tutto sommato "tranquilla", una città che, per fare un esempio, "non insorge" durante l'occupazione tedesca oppure "non si oppone" alla "Marcia" delle camicie nere. Ovviamente non mancano lavori che hanno illuminato alcuni di questi aspetti. [...] Il volume di Roberto Carocci racconta invece una città diversa rispetto a quella che siamo abituati a veder descritta. Una città tutt'altro che "pacifica", priva di contrasti e con una classe lavoratrice, tutto sommato, abbastanza "tranquilla". I risultati di questa ricerca invece rovesciano completamente questa visione dell'ambiente sociale della capitale: "A un siffatto proletariato urbano, mal si adattava il classico approccio socialista. – scrive l'autore – Lontani dalla rigida disciplina d'industria, i lavoratori romani erano maggiormente interessati alla risoluzione immediata dei loro bisogni materiali e si lasciavano poco affascinare dalla suggestione riformista e dalla mediazione di tipo politico o sindacale. Piuttosto, per la loro particolare composizione, le classi subalterne capitoline erano facilmente attratte dalla proposta libertaria, mostrando una chiara predisposizione all'azione diretta e a forme di lotta anche violente." (p.42). La vivacità dell'ambiente proletario è testimoniata dal reticolo di organizzazioni di lavoratori, di circoli politici, di ritrovi di "sovversivi". Oltre alle due Camere del lavoro, di via della Croce Bianca e di piazza Monti l'Autore, sulla base di una scrupolosa ricerca d'archivio e sulla stampa dell'epoca, è riuscito a trovare informazioni su decine di altri luoghi di ritrovo localizzati non soltanto nei quartieri popolari, come San Lorenzo o Testaccio, ma anche in Prati ed in pieno centro, come a via Nazionale o via Cavour. Luoghi che non hanno praticamente lasciato traccia, se si eccettua la Casa del Popolo in via Capo d'Africa, oggi abbandonata senza che alcuna targa ricordi le origini e la storia dell'edificio, ma che sono stati il centro della vita politica della Capitale per decenni. Ma è anche una città violenta, con un contrasto di classe che sfocia facilmente in tumulti repressi con estrema brutalità dalle forze dell'ordine. Il conflitto di piazza del Gesù, ad esempio, del 1908, fu la drammatica conclusione di un funerale di un operaio morto sul lavoro che finì con la morte di quattro persone e una settantina di feriti, causati dalla incomprensibile reazione delle forze dell'ordine. Nell'ottobre del 1909 la manifestazione "Pro Ferrer", il pensatore spagnolo perseguitato dalle forze reazionarie del suo paese, mise a soqquadro l'intero centro storico e si concluse con decine di arresti e di feriti. Nei giorni seguenti la città fu bloccata da uno sciopero generale che portò alla paralisi di ogni attività e all'arresto di centinaia di operai da parte delle forze dell'ordine. Durante la "Settimana rossa", i disordini e le violenze arrivarono praticamente fino alla piazza del Quirinale. La Grande Guerra rappresentò solo una momentanea battuta d'arresto. A pochi mesi dalla fine del conflitto i disordini tornarono a turbare i sogni della classe dirigente liberale. Tra moti spontanei, come quelli contro il carovita dell'estate del 1919, e quelli organizzati, come l'occupazione delle fabbriche, le forze dell'ordine furono impegnate quotidianamente nella repressione di un proletariato che invocava una maggiore giustizia sociale. In questa situazione di "Grande disordine", gli anarchici ritennero che fosse finalmente arrivata la grande occasione per "saltare al collo della borghesia". La costituzione della Federazione comunista anarchica, nel 1919, la prima organizzazione del movimento anarchico sufficientemente strutturata, si inseriva in un momento nel quale era necessario avere uno strumento in grado di porsi all'avanguardia del proletariato. Il dopoguerra è anche il momento migliore dell'anarcosindacalismo, di quel movimento sindacale nel quale, epurato da alcuni personaggi piuttosto ambigui (tra i quali, ad esempio, Maria Rygier), confluivano quasi naturalmente le necessità di lotta immediata e radicale e il sogno di una società liberata dalla schiavitù del capitalismo. L'anarchismo, come d'altronde tutti i movimenti del proletariato, non riuscì a riunificare il proletariato romano. La storia della sinistra, come è ben noto, è la storia delle sue divisioni, a fronte della quale, invece, la borghesia seppe dare prova di una compattezza straordinaria, ed anche in questo le continuità prevalgono nettamente sulle fratture. Giustamente Carocci comincia il suo lavoro con le vicende di Romeo Frezzi, il falegname morto in carcere, probabilmente ucciso per la violenza dei pestaggi nel 1897, a seguito di una "retata" di anarchici. L'anarchismo, come Piazza Fontana insegna, ha rappresentato lo spauracchio utilizzato dalle classi dirigenti per poter scatenare la repressione coinvolgendo chiunque venisse considerato pericoloso per l'assetto sociale esistente. Così l'attentato al teatro Diana, il delitto Casalini, gli inesistenti o ambigui "complotti", come quello che prese il nome dal Forte di Pietralata, consentirono da una parte un ricompattamento della borghesia, e dall'altra lo scatenamento della repressione, con arresti in massa e violenze gratuite contro le "belve umane". Le violenze del "Biennio nero" e i tentativi di autodifesa del proletariato romano, simboleggiati dalla vicenda degli Arditi del popolo, svelarono la coesione della borghesia e l'incapacità del sovversivismo a presentarsi come un fronte compatto. La spocchia intellettuale dei comunisti, incapaci di vedere nelle organizzazioni spontanee di autodifesa, o in qualunque movimento non nato dal partito dei "rivoluzionari professionali", e la pavidità dei riformisti, lasciarono praticamente soli gli Arditi del popolo e gli anarchici nell'opposizione reale e concreta al fascismo. Nonostante tutto, però, Roma fu una delle pochissime città italiane a resistere efficacemente al fascismo, come dimostrato sia dalle vicende del congresso dell'Augusteo del 1921, che dalla stessa "Marcia su San Lorenzo". La vendetta del fascismo al potere fu spietata. Non solo gli "sventramenti" comportarono lo spostamento, per alcuni una vera e propria deportazione, di importanti gruppi di proletari, ma "l'attenzione" di squadristi e poliziotti nei confronti dei sovversivi, primo tra tutti Malatesta, rese loro la vita, non l'attività politica, la vita stessa, praticamente impossibile. Il libro di Roberto Carocci è una importante ricostruzione della società romana nei primi venticinque anni del XX secolo. Una ricostruzione basata su un lavoro puntiglioso (nel quale si vede l'insegnamento dell'indimenticabile Ferdinando Cordova), su una ricerca scrupolosa ed attenta, che rivela aspetti sconosciuti e ingiustamente dimenticati della nostra città. Amedeo Osti Guerrazzi | << | < | > | >> |Pagina 11Dalla proclamazione di Roma quale capitale del regno, l'elemento libertario cominciò a diffondersi e ad affermarsi, trovando nella composizione spuria e mutevole delle forze produttive cittadine un retroterra favorevole per un suo radicamento su larga scala. In una città composta prevalentemente da lavoratori stagionali, operai poco o nulla specializzati, disoccupati, contadini immigrati da altre regioni, impiegati declassati e artigiani poveri, l'anarchismo vi rivelò una propria «base sociale ideale». Germogliato negli ambienti più radicali della sezione romana dell'Associazione internazionale dei lavoratori, l'ipotesi antiautoritaria contribuì all'emersione delle prime ipotesi socialiste e alla rottura con l'atteggiamento interclassista, prevalente nelle associazioni di mutuo soccorso capitoline (spesso condotte o patrocinate da esponenti liberali o monarchici), concorrendo alla formazione di un movimento operaio dai tratti novecenteschi. Di anarchici romani, almeno nelle cronache prefettizie (dove, più precisamente, sono indicati con l'aggettivazione di «nichilisti»), si era iniziato a parlare, indipendentemente dall'esperienza primo internazionalista, dalla fine degli anni settanta dell'Ottocento. Nella primavera del 1876, fallito il tentativo di Errico Malatesta e Carlo Cafiero di stabilire a Roma il centro della sezione italiana dell'Internazionale antiautoritaria, e con gli arresti di Ponte Molle dell'anno seguente - dove un gruppo di sovversivi fu intercettato e bloccato dalla pubblica sicurezza, mentre era intento a raggiungere Malatesta e gli altri nel Matese - gli anarchici dovettero affrontare una fase di ricostruzione delle proprie file, che attraversarono all'interno delle associazioni di mestiere e in alcune attività di tipo cospirativo. L'esperienza sindacale e il confronto, nonché le polemiche sorte con le altre correnti socialiste, permisero ai libertari di approssimare una prima definizione identitaria e di rafforzare un loro profilo indipendente. Con lo scoppio della crisi edilizia, nella seconda metà degli anni ottanta, e il conseguente collasso dell'intero sistema produttivo capitolino, l'anarchismo coinvolse importanti settori popolari in agitazioni che, ben presto, assunsero tratti radicali finanche violenti. In un movimento operaio dalla formazione particolare – "arretrata", se posta in relazione alle scarse basi industriali su cui poteva fare leva – erano i capipopolo, piuttosto che i fragili organismi dei lavoratori, a guidare le riunioni e le proteste di piazza. Così, durante il biennio 1888-89, nel corso di numerose assemblee, gli anarchici si posero alla testa delle mobilitazioni dei disoccupati. Il 30 settembre 1888, a piazza Dante, in un'assemblea affollata da circa 4.000 lavoratori, pressoché all'unanimità, fu adottato un loro ordine del giorno, che decretava il rifiuto di ogni concessione parziale, volgendo in maniera esplicita all'azione diretta e alla rivoluzione sociale. Il proposito di agire per la risoluzione immediata dei bisogni materiali della popolazione, viepiù immiserita dalla disoccupazione e dall'innalzamento del prezzo del pane e delle pigioni, si fece presto concreto. Sotto la guida del fabbro anarchico Ettore Gnocchetti, infatti, migliaia di donne, di senza lavoro e di operai, si riversarono nelle strade, assaltando i forni e scontrandosi violentemente con gli agenti della pubblica sicurezza. Tale situazione di fermento sociale perdurò per circa un quinquennio, fino al primo maggio 1891, quando il comizio di Amilcare Cipriani, «il Colonnello della Comune» come era conosciuto per la sua partecipazione alle barricate parigine del '71 – svoltosi in piazza S. Croce in Gerusalemme, si trasformò nella prima insurrezione avvenuta nella capitale del regno. Non era solo la difficile situazione sociale ad accendere gli animi dei cittadini romani. In quegli stessi anni, infatti, la vita della popolazione era stata scossa dall'inaugurazione della statua di Giordano Bruno in Campo dei Fiori. L'evento assunse un significato speciale, la cerimonia era stata a lungo attesa; una prima scultura era stata eretta nel '49, durante l'esperienza della Repubblica Romana, ma fu distrutta subito dopo con la restaurazione del potere pontificio. Nel 1885, una commissione (formata, fra gli altri, da Victor Hugo, Herbert Spencer e Silvio Spaventa) si era costituita con il compito di studiare l'edificazione del monumento. Gli studenti universitari romani si coinvolsero nel progetto e ne seguirono gli eventi, dando un'eco pubblica alla questione. Nel febbraio 1888, si resero protagonisti di manifestazioni di piazza piuttosto turbolente, che si conclusero con incidenti e arresti; in dicembre, Francesco Crispi, nelle sue funzioni di capo del governo, autorizzò finalmente la realizzazione della statua. La data per la cerimonia fu stabilita per il 9 giugno dell'anno seguente. Nei giorni precedenti, la capitale venne invasa da delegazioni provenienti dalle altre regioni; le vie erano affollate da giovani studenti venuti principalmente dalle università di Genova e di Firenze, mentre gli universitari romani, alla Sapienza, accolsero i loro colleghi con banchetti e comizi. C'era – commentò un cronista – «in tutta Roma un'animazione come poche volte si vide. Il popolo sente che questa festa è una grande affermazione della patria e della libertà di pensiero». La Roma papalina accolse con malcelato astio le celebrazioni. Papa Leone XIII minacciò di abbandonare la città, ma preferì passare la giornata a digiuno e in preghiera, mentre l'«Osservatore Romano» chiuse per tre giorni. Erano anche apparse «molte carrozze» che recavano «famiglie indomenicate» fuori città e, in quasi tutte le chiese, le funzioni si svolsero a «porte semichiuse». La città fu occupata in diversi punti dalla truppa, il rione Borgo, intorno al Vaticano, venne presidiato dagli agenti, mentre i carabinieri si aggiravano per la città in «perlustrazione». Il corteo, comunque, aveva ormai assunto un carattere nazionale e, con i suoi ventimila partecipanti, partì da piazza Esedra in direzione di Campo dei Fiori. A sfilare per prime furono le associazioni anticlericali romane, seguite dai massoni («tutti vestiti di nero»), altre rappresentanze venute da fuori e dal resto della popolazione, tra cui molti muratori e disoccupati in agitazione. La cerimonia terminò con una grande festa popolare, in molti si recarono in Campidoglio per un omaggio al monumento a Garibaldi e, infine, fu organizzato un incontro conviviale all'università. L'anticlericalismo coinvolgeva sensibilità culturali anche molto differenti, che andavano dai repubblicani ai monarchici, dai socialisti ai liberali, dagli elementi sovversivi agli esponenti del governo o ai circoli massonici. Era un largo fronte che, oltre a favorire la diffusione del laicismo e di un pensiero critico, permetteva il formarsi di una borghesia dai tratti progressisti e potenzialmente alternativa (lo sarà nel 1907, con l'elezione a sindaco di Ernesto Nathan) a quella che s'era andata coagulando intorno all'aristocrazia nera papalina, formata per lo più da mercanti di campagna, latifondisti, alto clero e speculatori di varia estrazione. Con l'inaugurazione della statua a Giordano Bruno, l'opinione pubblica cittadina si divise in due, lasciando emergere le differenti aspirazioni culturali che vi albergavano, tra le quali – come avvenne nel 1904, con il Congresso internazionale del Libero pensiero – si mosse anche quella libertaria, portando un suo contributo al più generale intento d'innovazione. In ogni modo, in seguito all'insurrezione del primo maggio 1891, le autorità dispiegarono una dura stretta repressiva, che portò il nascente movimento anarchico capitolino a dover agire su un doppio binario, che prevedeva, da una parte, un livello di agitazione palese, con l'adesione alle associazioni politiche moderate, e, dall'altra, un livello cospirativo, segnato dal ruolo attribuito ad alcuni libertari negli attentati dinamitardi che, tra il 1893 e l'anno seguente, suscitarono un certo clamore. Nella primavera 1897, il tentato regicidio di Pietro Acciarito segnò un inasprirsi del clima di reazione. Con l'inizio del Novecento, invece, e segnatamente con l'assassinio di Umberto I per opera di Gaetano Bresci, il ceto politico nazionale preferì intraprendere un indirizzo più moderato. L'uccisione del sovrano rappresentò la fine del ciclo repressivo voluto dalle classi dominanti, volto a neutralizzare la sovversione sociale e il conflitto di classe (in special modo gli anarchici) attraverso una dura politica d'ordine. I nuovi governi, in particolare con l'esecutivo guidato da Giovanni Giolitti, mutarono tale atteggiamento e mirarono, piuttosto, a integrare alle istituzioni statali il riottoso movimento operaio italiano, concedendo maggiori margini di libertà d'associazione e di propaganda. Gli organismi sindacali, le Camere del lavoro e i partiti d'avanguardia ebbero così modo di riorganizzarsi e anche il movimento antiautoritario, in particolare nella città di Roma, poté predisporre una ripresa della sua iniziativa. Anche a causa delle debolezze del socialismo romano, i libertari riuscirono a permeare con la loro propaganda l'immaginario di vasti settori popolari, plasmando alle loro idee generazioni di agitatori sociali e sovversivi di varia attitudine. Più precisamente, l'anarchismo – qui inteso nella complessità delle sue sfumature dottrinarie – s'andò rivelando quale parte integrante del movimento operaio capitolino, rappresentandone una sua espressione, in qualche modo, naturale. La combinazione tra la proposta libertaria e la speciale formazione del proletariato urbano è stata più volte evidenziata in storiografia, in particolare negli anni cinquanta del secolo scorso, relegata, però, alle indeterminatezze insite nello sviluppo delle forze sociali, ritenute in grado – scrive Luciano Cafagna – di «un rivoluzionarismo estremo nei momenti più gravi, quanto incapaci di continuità, organizzazione e disciplina». All'anarchismo è stata imputata la responsabilità di aver lasciato «molte debolezze» «in eredità al movimento operaio romano», da cui sarebbe rimasto «lungamente» inficiato. A causa di un certo determinismo applicato allo sviluppo delle forze socio-economiche, si è voluto così dimostrare come a un debole sviluppo industriale corrispondesse automaticamente un movimento operaio fragile, a sua volta rappresentato da avanguardie antiquate e inefficaci. Pur non potendo disconoscere l'«impronta particolarmente vivace e combattiva, di slancio generoso, delle lotte del proletariato romano, presso il quale non hanno mai solidamente attecchito le posizioni del riformismo e del collaborazionismo di classe», si sono però volute cristallizzare le cause del preteso «ritardo nello sviluppo della coscienza di classe e dell'organizzazione dei lavoratori romani, con la persistenza di orientamenti immaturi», rappresentati, appunto, dall'anarchismo. Le particolari caratteristiche del tessuto industriale cittadino, in effetti, non permisero l'emersione di una classe operaia di tipo classico, disciplinata da un rigido sistema di produzione, consapevole in sé, in quanto oggetto di sfruttamento da parte del capitale, di dover condurre una sua missione storica. Ma al contempo, tali peculiarità favorirono la diffusione di un sovversivismo operaio (e per estensione popolare) che, lontano dalla rigida organizzazione di fabbrica, formò una propria soggettività, sperimentando per sé forme di autorganizzazione sociale e pratiche d'azione diretta, che si sarebbero dispiegate più chiaramente nel corso del primo Novecento. A fronte di queste considerazioni, è bene – come ha suggerito Gaetano Congi – incedere nel tentativo di «dirimere la consuetudine di trasportare meccanicamente nella classe operaia ciò che più propriamente riguarda la struttura industriale», evitando di ridurre lo sviluppo particolare delle forze sociali dell'Urbe a una qualsiasi «anomalia», ma riconoscendovi una «specificità» da indagare nella sua complessità e nel suo divenire. In sede interpretativa, assumere tale peculiarità è utile a inquadrare e a qualificare la presa della protesta anarchica sul «tessuto di organizzazione informale» della società romana, che neanche il fascismo sarebbe stato in grado di inficiare del tutto. I luoghi della produzione, quanto i quartieri e i rioni di Roma, per la loro omogeneità sociale e per la loro particolare collocazione geografica, hanno rappresentato gli ambiti in cui si andò formando una composizione sociale articolata e policroma, sostanzialmente esclusa dalle ricchezze e dai poteri centrali, verso i quali la popolazione romana nutrì una persistente insofferenza, variando l'emarginazione subita in un'opposizione latente capace di manifestazioni improvvise. Con la presente ricercai, si vuole contribuire a indagare tale «specificità», approfondendone una parte speciale, rappresentata appunto dall'anarchismo. Allo stato attuale, infatti, il movimento libertario romano, sebbene abbia rappresentato una parte coessenziale alla formazione del socialismo capitolino, e abbia fornito una tensione costante alla costituzione di un movimento anarchico su scala nazionale, è stato indagato nella sola dimensione episodica o meramente ricognitiva, frammentata nel tempo in allocazioni distanti e di non proponibile generalizzazione. Il periodo qui esplorato, compreso tra l'età giolittiana dello Stato liberale e i primi anni di consolidamento del fascismo al potere, vuole affrontarne la vicenda in maniera unitaria, cogliendo un intero ciclo, anche generazionale, apertosi all'inizio del Novecento e che si concluse con le ultime resistenze all'avvento della tabe mussoliniana. In questo lasso di tempo, le diverse componenti dell'anarchismo romano ebbero modo di svilupparsi e approfondire i rispettivi assetti dottrinari, stabilendo percorsi indipendenti, a volte in contrasto, ma che sovente andarono intrecciandosi l'un l'altro. Attraverso un'esperienza durata un quarto di secolo, il movimento anarchico capitolino si rivelò quale espressione meno mediata del senso di ribellione, che allignava fra la popolazione dell'Urbe, favorendo la composizione e il consolidamento di una soggettività sociale complessa, costantemente tesa a sottrarsi e a scontrarsi con le varie forme assunte dall'ordine borghese. | << | < | > | >> |Pagina 21Buio a fine secolo. Nel primo pomeriggio del 22 aprile 1897, re Umberto I, seguito dalla scorta e accompagnato dal generale Ponzio Vaglia, lasciava il palazzo del Quirinale, per raggiungere in carrozza l'ippodromo di Capannelle, dove era atteso per il Derby reale, organizzato per festeggiare la ricorrenza del suo matrimonio. Era un'occasione speciale, tanto che il sovrano aveva messo in palio l'eccezionale cifra di ventiquattromila lire. Ma durante il tragitto, all'altezza di Ponte Lungo, in aperta campagna, a circa due chilometri da Porta S. Giovanni, un giovane «vestito all'operaia» e dai tratti emaciati si avvicinò con un plico fra le mani, dando a intendere di voler consegnare una supplica al sovrano. Le guardie non mossero per fermarlo, era costume, infatti, che la povera gente questuante fosse lasciata libera di avvicinarsi. Accostatosi al calesse, il giovane vi balzò sopra e, estraendo un lungo coltello, si avventò sul re, il quale, sorpreso dal gesto, si levò di scatto, evitando il fendente. L'attentatore perse l'equilibrio e cadde a terra, dove fu immobilizzato da due carabinieri. L'autore del tentato regicidio era Pietro Acciarito, di ventiquattro anni, originario di Artena, un piccolo paese della brulla campagna del basso Lazio. Di professione fabbro-ferraio, chiavaro per l'esattezza, Acciarito aveva chiuso la sua bottega di ferramenta e, con i pochi soldi ricavati dalla vendita dei suoi attrezzi da lavoro, si era trasferito nella capitale, come tanti in quel periodo, in cerca di miglior sorte. Ma in città le sue condizioni di vita non migliorano granché, al momento dell'attentato era da due giorni disoccupato, affamato e senza dimora. L'arma utilizzata era uno taccagno – come si dice a Roma – lungo trenta centimetri, con lama a doppio taglio e manico a tortiglione. L'aveva confezionato con le sue stesse mani ed era l'unico pezzo salvato dalla vendita dei suoi arnesi. Portato in questura, Acciarito affrontò l'interrogatorio con una certa calma e dichiarò: «nun se magna e qualcosa bisogna puro fare»; si disse anarchico e asserì di aver agito da «solo»: «nessuno mi ha aiutato. Sono stato spinto dalla fame». La sera stessa, l'«Avanti!» diffuse un comunicato poco lusinghiero nei confronti della corona, scatenando la collera di un gruppo di monarchici, che ne assaltarono la sede. Alla fitta sassaiola, dalle finestre del giornale, si rispose con il lancio di sedie e calamai e solo l'intervento della polizia riuscì a riportare una relativa calma. Un drappello di agenti occupò la redazione e il deputato socialista Oddino Morgari, lì presente, venne arrestato insieme a un suo compagno di partito. Poco dopo, in piazza del Quirinale, mentre la folla festeggiava il sovrano scampato all'attentato, un giovane tipografo disoccupato fu aggredito a colpi di bastone per aver gridato «Abbasso!» all'indirizzo dei Savoia. Il clima in città era pessimo e foriero d'intenti reazionari. Nei giorni successivi, la polizia procedette a numerose perquisizioni nei luoghi di ritrovo e nelle abitazioni di diversi sovversivi. Ma, compreso il filo governativo «L'Opinione Liberale», pressoché tutta la stampa aveva dato credito alle dichiarazioni dell'Acciarito, dipingendolo come un vendicatore solitario piuttosto che membro di una qualche cospirazione. Anche la premeditazione ricadeva tutta su di lui che, nei giorni precedenti, aveva confidato al padre Camillo di voler «fare la pelle a qualche capoccione». Tuttavia, l'attentato, per il clamore che aveva destato, sembrava fare buon gioco alla classe dirigente nazionale, tormentata da una profonda crisi politica e morale. Il presidente della Camera Domenico Farini, infatti, invitò il presidente del Consiglio Antonio Di Rudinì a «inventarsi una bella congiura per sbarazzare il Paese dalle forze cosiddette sovversive», cosicché, al fine di sostenere la tesi del complotto, le autorità si prodigarono con gran lena nella ricerca dei complici. In questo contesto, la sera del 28 aprile, «per ordine superiore», tre agenti irruppero nell'abitazione del falegname Romeo Frezzi, perquisendola, ma non vi trovarono nulla, se non qualche opuscolo e una fotografia che ritraeva l'Acciarito insieme ad altri sovversivi, quanto bastò per arrestare il malcapitato. Portato in carcere, Frezzi proclamò con forza la sua innocenza, assicurando di aver lavorato fino a tarda ora in bottega il giorno del tentato regicidio, di non conoscere l'attentatore e di avere acquistato la fotografia da un fotografo all'Esquilino, poiché vi era ritratto un suo amico che, appunto, non era l'Acciarito. Una serie di testimonianze come quella del suo datore di lavoro escludeva una sua partecipazione a un'eventuale cospirazione, confermando invece la sua condotta di uomo probo e laborioso. All'inizio di maggio, un quotidiano romano riportava la notizia di una morte «misteriosa» avvenuta nel carcere di S. Michele, accompagnata da due note della questura. Nella prima si poteva leggere che il «falegname anarchico» Romeo Frezzi si era suicidato rompendosi la testa contro il muro; nella seconda, invece, si asseriva che il cadavere, visitato da un medico, non riportava lesioni e che il decesso era dovuto a un «aneurisma». Era anche riportato che l'arresto fosse avvenuto durante la manifestazione del primo maggio. Nei giorni successivi, però, l'«Avanti!» svelò una serie di incongruenze: innanzitutto Frezzi non era stato arrestato il primo maggio, ma qualche giorno prima; in secondo luogo, non era anarchico bensì socialista, dal passato mazziniano. Il suo arresto inoltre appariva arbitrario, giacché il giudice istruttore non ne era stato messo nemmeno a conoscenza. Venivano anche riportate le testimonianze di alcuni compagni anch'essi detenuti al S. Michele (e liberati il 2 maggio), che confermavano di averlo trovato tranquillo e di certo non prossimo al suicidio. Il giornale socialista riportava una descrizione del cadavere, senza ferite sul capo, ma con un occhio gonfio e paonazzo e gli abiti lacerati. | << | < | > | >> |Pagina 83A ridosso dell'estate 1914, le agitazioni dei lavoratori s'intrecciarono con la violenta campagna antimilitarista, avviata pochi anni prima dai partiti sovversivi, quando il governo Giolitti, al culmine del suo percorso, coronato dalla concessione del suffragio universale maschile, aveva mosso all'occupazione militare della Libia. Erano spesso le donne a rendersi protagoniste delle proteste, bloccando i treni militari e sabotando le vie ferroviarie, mentre nelle dimostrazioni di piazza erano solite frapporsi tra la folla e la truppa, invitando i soldati a disobbedire agli ordini. La stampa antimilitarista andava a ruba, il «Rompete le File!» di Maria Rygier e Filippo Corridoni arrivò a diffondere fino a ventimila copie. In questo clima, l'atto di ribellione di un soldato dettò un'accelerazione della protesta. Nel cortile della caserma Cialdini di Bologna il muratore in armi Augusto Masetti, il 30 ottobre 1911, giorno in cui sarebbe dovuto partire per la Libia, al grido di «Viva l'anarchia! Abbasso la guerra!», sparò una fucilata al Colonnello Stroppa, ferendolo a una spalla.La campagna per la liberazione del soldato ribelle (alla quale si associò quella per la liberazione del fante Antonio Moroni, inviato alla compagnia di disciplina per la sola ragione di essere socialista) cominciò a dare risultati confortanti. Le autorità, per evitare di aizzare ulteriormente lo scontro con le sinistre, preferirono non giustiziare Masetti e lo trasferirono dal manicomio criminale di Aversa a quello civile di Imola. Giolitti si era dimesso da poche settimane, con la crisi istituzionale in corso, gli anarchici, a cominciare da Malatesta, avevano in animo di forzare la situazione e, per il 7 giugno, anniversario dello Statuto, promossero comizi e cortei in tutta Italia. Erano persuasi che un'azione generale potesse «spuntarla» sull'obiettivo della liberazione di Masetti e Moroni, «impo [nendo] al governo l'abolizione dell'infame legge che ancora conserva tutte le forme della tirannide medioevale», cioè la legge sulle compagnie di disciplina. Le autorità, per quel giorno, vietarono le manifestazioni pubbliche che non fossero le celebrazioni ufficiali, mettendosi così in rotta con tutto il sovversivismo. Ad Ancona la polizia aprì il fuoco sulla folla che defluiva dal comizio svoltosi alla Villa Rossa dei repubblicani, uccidendo tre persone e ferendone diverse altre. Il giorno stesso fu proclamato lo sciopero generale nazionale che, in alcune località del centro-nord, assunse tratti rivoluzionari. Tra le organizzazioni della sinistra il clima rimase di concordia d'intenti, almeno fino al giorno 11, quando la Cgdl ritirò lo sciopero, costringendo anche lo Sfi a tornare in pochi giorni sui suoi passi. A Roma, il Fascio comunista anarchico si era fatto promotore dell'appello di Malatesta, sul quale converse il resto dell'estrema sinistra. Il 30 maggio, alla Casa del Popolo, diversi sindacati, la Cdl e le organizzazioni della sinistra decisero per un comizio a Porta Pia, lontano dalle celebrazioni ufficiali, dove era presumibile la presenza d'ingenti forze di polizia. La preparazione della giornata fu affidata a una commissione (nella quale i libertari si fecero rappresentare da Lelli Mazzini) e ad alcune azioni dimostrative. Dalla sera del 21, infatti, erano pronti i manifesti stampati alla macchia che, la notte stessa, furono lanciati all'interno della caserma dei bersaglieri di Trastevere e, per tutta la settimana, affissi sui muri della città. La reazione della polizia non si fece attendere e gli agitatori colti a diffonderli furono arrestati sul posto. Il 7 giugno, al momento dell'arrivo della notizia sulla repressione di Ancona, la Camera del lavoro, coerentemente con le decisioni prese in occasione dei fatti di Rocca Gorga, senza attendere cioè le indicazioni della Cgdl, fu la prima in Italia a proclamare lo sciopero generale cittadino. Alla mobilitazione parteciparono cinquantamila lavoratori, che lasciarono l'Urbe pressoché paralizzata. La polizia reagì con violenza e, nel timore che potessero ripetersi i tumulti dello sciopero di marzo, eseguì «arresti indiscriminati e impedì ogni assembramento». La Cdl diede appuntamento alla Casa del popolo, che venne però presto sgombrata, mentre la sede camerale veniva circondata da guardie a cavallo, a loro volta accerchiate dai lavoratori, che eressero barricate tutt'intorno. Gli scontri furono assai violenti e arrivarono fin sotto il palazzo del Quirinale. La polizia mise in campo una «cieca politica repressiva», impedendo qualunque contatto tra i manifestanti e quanti dirigevano l'agitazione. Un gruppo di poliziotti, armati di bastoni, aggredì i membri della Commissione esecutiva della Cdl, mentre erano diretti in prefettura — su invito del prefetto — per trovare una soluzione utile a riportare la calma. I tumulti proseguirono per tre giorni. L'istituto camerale, questa volta, non si sottrasse alle indicazioni confederali e richiamò a riprendere il lavoro, rimandando in altre sedi le proprie critiche all'operato Cgdl. Era diventato difficile sostenere il livello di violenza imposto dalla polizia e anche gli anarchici non poterono fare altro che seguire le indicazioni camerali. Nei giorni successivi, denunciarono la spietatezza della repressione. Il loro j'accuse metteva al centro il contenuto classista e il carattere vendicativo delle «iene togate che condannano i malcapitati a pene enormi, su semplice e interessata denuncia di un poliziotto [...], una giustizia che genera vendetta, perché appunto basata sulla vendetta di classe». Una ritorsione alimentata dalla stampa borghese, che con «opera di calunnia e di spionaggio [additava] i rivoluzionari al giudice compiacente», insultando i lavoratori in sciopero con l'appellativo di «teppa». Governo e polizia furono ritenuti i maggiori responsabili delle violenze, «calpestatori dello Statuto che soppressero il diritto di riunione e arrestarono il giorno medesimo che si celebrava, con parate militaresche, la carta costituzionale». Non furono risparmiate le direzioni riformiste. Il Psi fu tacciato di «servilismo» e di «viltà cortigiana» per aver votato in parlamento «un ordine del giorno che sconfessa le agitazioni delle piazze e i moti rivoluzionarli». Nei confronti dei repubblicani l'addebito si fece addirittura beffardo («Non accetterebbero la repubblica neanche per decreto reale»), ma addossarono su sé la responsabilità di non essere stati capaci di afferrare l'opportunità offerta dallo sciopero generale: «un moto insurrezionale che solo la nostra impreparazione ha fatto fallire». Moto del quale gli anarchici colsero il carattere spontaneo, che rendeva «sintomatica» ed «espressiva» la facilità con cui i lavoratori si erano risolti per l'azione diretta, «unico mezzo dignitoso ed efficace del quale il proletariato deve servirsi [...] nelle sue forme di difesa come di offesa, dall'astensione dal lavoro, alle barricate». Le giornate di giugno rappresentarono il punto di rottura del sistema giolittiano e un cambio di passo nei rapporti tra capitale e lavoro. La sconfitta dell'insurrezione e la dura repressione che ne seguì erano dovute al «desiderio di restaurazione sociale» agognato dalla borghesia italiana che, dall'inizio della crisi economica, aveva avviato un processo volto alla riduzione dei «margini di autonomia rivendicativa dei lavoratori» e alla «destabilizzazione del quadro democratico, in cui la sinistra di classe aveva spazio per svilupparsi». Il moto popolare sancì il ritorno della lotta di classe quale elemento di chiarezza nei rapporti sociali, dopo anni in cui i lavoratori erano stati indotti a credere di poter limitare la loro azione alla partecipazione alla legislazione sociale, alla cooperazione e poco altro. Era il segnale di risveglio dal torpore del compromesso tra liberalismo e socialismo democratico; la prova che l'idea, per la quale «il socialismo sarebbe sbocciato dall'idillio tra la borghesia e il proletariato», era falsa: l'anima rivoluzionaria rivive nelle folle d'Italia. Le barricate non sono più nostalgie novantottesche, l'insurrezione non più una disperata follia. Un ventennio di politica addormentatrice aveva intessuto tutta un'opera di sfibramento delle forze proletarie. Il possibilismo, il corporativismo, le cooperative, la democrazia avevano cullato i lavoratori in una rosea illusione di un avvenire di pace, di giustizia e di uguaglianza economica da conquistare senza lotta e senza sacrifici. Nella Camera del lavoro, gli eventi della Settimana rossa misero in risalto le diverse concezioni sullo sviluppo e sulla dinamica della lotta sindacale, che albergavano nella sinistra di classe. Tra gli anarchici e i socialisti s'interpose una divergenza programmatica su quale soggetto, sociale o politico, avrebbe dovuto dirigere il movimento, nel caso in cui questo avesse travalicato i confini della protesta economica. Se per il socialista Monici la direzione di una tale mobilitazione sarebbe dovuta essere assunta dal Psi, piuttosto che dagli organismi sindacali, per gli anarchici era vero esattamente il contrario. Era loro convinzione, infatti, che proprio le organizzazioni sociali (l'Usi in primo luogo, per le sue caratteristiche rivoluzionarie e apolitiche) fossero deputate a guidare un'insurrezione popolare, poiché in grado di preservare la coesione e l'autonomia dei lavoratori, al di là delle loro differenti appartenenze politiche. | << | < | > | >> |Pagina 91Guerra alla guerra? Alla sconfitta della Settimana rossa seguì una ventata d'ordine, che portò molti sovversivi a dover riparare all'estero. Borghi, Fabbri, De Ambris, insieme a buona parte del milieu rivoluzionario italiano, si ritrovano così sulla via dell'espatrio. Malatesta, dopo due settimane di viaggio, arrivò a Londra il 28 giugno 1914; il medesimo giorno, a Sarajevo, il giovane Gavrilo Princip, con alcuni colpi di rivoltella, uccideva l'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d'Austria e Ungheria. Con l'inizio della prima guerra mondiale, il movimento operaio europeo subì una brusca battuta d'arresto; la socialdemocrazia tedesca e il socialismo francese si schierarono ognuno a sostegno del proprio governo nazionale, portando l'Internazionale al collasso. Anche in campo libertario la questione non fu così scontata. In agosto, l'anarchico più conosciuto e stimato dell'epoca, Kropotkin, si era espresso in favore della sconfitta della feudale e militarista Germania, colpevole di aver aggredito la libera Francia, raccogliendo il plauso di altri esponenti europei. In novembre, dalle pagine del londinese «Freedom», Malatesta dichiarò la sua contrarietà nei confronti di una qualsiasi ipotesi di partecipazione degli anarchici in uno scontro armato tra gli Stati, convinto — quasi una profezia — che il conflitto in atto avrebbe potuto condurre solo «ad una nuova guerra ancora più micidiale». Nel timore che il governo potesse mantenere fede ai patti stipulati in precedenza con gli Imperi centrali, in un primo momento, la sinistra nostrana si attestò su una posizione neutralista. Ma, all'inizio di agosto, quando l'Italia si dichiarò estranea al conflitto, il fronte antimilitarista, fino a due mesi prima così coeso, andò in frantumi. La direzione del Psi si ancorò a un pacifismo paralizzante, sintetizzato dal motto "né aderire né sabotare", mentre i repubblicani, con i socialisti riformisti al seguito, diedero vita ai primi comitati interventisti. Fu nel sindacalismo rivoluzionario, però, che si ebbero le ripercussioni più rovinose, allorché alcuni dirigenti di prestigio dell'Usi scelsero la via dell'intervento, portando il sindacato ad affrontare una dolorosa scissione. Gli anarchici, dal canto loro, condividevano un atteggiamento di netta ostilità nei confronti del conflitto, fino a quando un articolo di Mario Gioda, pubblicato in agosto su «Volontà», ruppe l'armonia del clima, sollevando il dibattito su una possibile scelta interventista. L'ipotesi, comunque, rimaneva circoscritta alla sola possibilità di dover ricorrere alla difesa armata della nazione, nel caso in cui si fosse verificata un'invasione da parte austriaca. L'articolo di Gioda al quale seguirono alcuni interventi polemici di Mussolini, volti a gettare lo scompiglio tra le file anarchiche — suscitò una risposta corale, se pure non unanime, di rifiuto anche delle più velate affermazioni di stampo interventista. Forse fin troppo frettolosamente, veniva scartato qualsiasi approccio alla questione nazionale e al «sentimento patrio», così presente nell'animo garibaldino del sovversivismo italiano.
Gli anarchici non cercarono alcun terreno d'incontro con chi manifestava una
sincera preoccupazione per la sorte delle popolazioni assalite e
per i futuri assetti europei, che rischiavano di essere dominati dal trionfo
della reazione teutonica. Senza dubbio, questa netta cesura permise di
preservare una nitidezza d'idee, ma sospinse ancor di più alcuni ad approdare
sulle sponde dell'interventismo, in qualche modo rivoluzionario. Furono
comunque poche personalità, da un punto di vista quantitativo non
rappresentarono neanche i termini di una scissione, mentre da quello
politico-culturale non trovarono alcuna cittadinanza nel movimento, che non
considerava l'interventismo come un'opzione discutibile ma accettabile,
bensì un tradimento, un atto incompatibile con la dimensione anarchica.
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