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| << | < | > | >> |Pagina 9Io non lo so se mi ricordo. O se quello che dico adesso è una cosa che ho immaginato.Spesso la sera ci penso, quando rimango a scrivere fino a tardi. Fino a che la luce svanisce e devo sforzarmi, socchiudere gli occhi e continuare a leggere nella penombra, riconoscendo le righe e i tasti nella vasca azzurrina di una scrivania immaginaria. Non accendo la luce, lo faccio apposta. È una piccola superstizione. Come se, accendendola, le idee d'improvviso potessero sparire. Una stupida fissa a cui sono affezionato. Insomma qualche volta la sera mi capita di pensare a quello che è successo allora e mi sembra che i contorni diventino ogni volta differenti, mutino, secondo una progressione di umori, fino a diventare i contorni di una storia diversa. Ma il nucleo rimane. Quella paura. Quella paura, sospesa, mi ha accompagnato tutti questi anni e ha disegnato una parte di me. Penso che il coraggio di allora fosse una cosa che somiglia alla vanità, la vanità più forte della paura. E adesso che la vanità forse si è sciolta, negli anni, assorbita dalla consapevolezza mite del difetto, del dubbio delle cose che vengono e vanno per non tornare più, ecco, adesso quella paura mi appare una cosa precisa. Distinta.
Posso girarci intorno e sentirla tutta, abbracciarla e forse per
la prima volta, davvero, affrontarla.
I miei occhi non funzionano benissimo. Vedo le mosche volare. Sempre di più. Ma continuo a scrivere e a leggere nella penombra liquida del mio studio, tanto che il mio studio somiglia a un'isola illustrata, un luogo stretto stretto, circoscritto nel rettangolo esiguo dello scrittoio. E tutto intorno il paesaggio sfuma fino al buio, il nero delle altre stanze di questa casa senza luce, abbandonate da una vita. Sono montagne e mare e altre città mai viste, ma soprattutto campagne a perdita di fiato, tutte srotolate di campi di grano e papaveri, e prati verdissimi punteggiati di bianco di lilla e di blu. Vivo nella riposata consapevolezza di un vezzo autodistruttivo. Come se chi scrive, non lo so, dovesse essere fatto di una sostanza differente. Un verbo distante non coniugabile al resto del mondo. Fuori il resto del mondo non si cura di me. E io di lui.
Ma non so per quanto.
Non ho mai avuto paura del buio, sin da piccolo. Ricordo che nei giochi di infanzia sfoggiavo a ogni occasione questa natura temeraria con sorridente baldanza. Camminavo nei corridoi della casa dei nonni senza accendere la luce, mi muovevo nello studio guidato soltanto dal tatto lungo i profili di noce della libreria, cadenzati appena dalla corrente dei dorsi di copertina, scendevo lungo le scale scivolando il palmo sui corrimano rampanti, seguendo soltanto la memoria del gesto, senza luce, appunto. Mi chiedo come sarebbe adesso. Toccare la libreria del nonno, muovermi nei corridoi istoriati dai ritratti degli avi con le facce affondate in un buio olfattivo. Come sarebbe adesso. Quella casa non c'è più e non ci sono corrimano rampanti e milioni di libri in ascolto. Tutto è andato via. Al posto di quel meraviglioso palazzo c'è un'architettura ostile, invecchiata sul nascere, che sfoggia una tecnologia malata e senza vergogna. C'è un supermercato di una catena cittadina di cui non ricordo il nome con un'insegna bianca e arancio. E sopra, il dispiegarsi uguale di infissi e vetri fumati dallo smog. Dove c'erano tre piani, alti imponenti e luminosi, adesso ce ne sono otto. Tozzi e arroganti. Ma non è di allora che voglio parlare e che scriverò, anche se quella casa e quelle voci ritorneranno, lo so, in questo racconto. Voglio parlare di un'estate che venne più tardi. Quando ormai le cose della mia famiglia erano definitivamente cambiate e io in qualche modo ero cresciuto. Se si cresce, poi, o si cambia o si diventa grandi, questa è una domanda banale senza risposte. Sono cresciuto tante volte e altrettante sono rimasto fermo a guardare, avanti e indietro, e a non trovare che uno straccio lacero di ricordi e desideri declinati su un passato meraviglioso, dipinto da un'immaginazione fervida e compassionevole. Oppure proiettati su un futuro di successi ogni giorno più esiguo e illusorio. Oppure no, mi sbaglio, e la vita deve ancora venire e io sono cresciuto tante volte e tante ancora lo farò. Non lo so. Credo. Comunque questa è la storia che mi ricordo. Quella che scrivo adesso alternando ai tasti ergonomici un movimento di testa per lo scrocchio cervicale e un desiderio insoddisfatto di fumo, per cui prendo una sigaretta e me la metto in bocca, sapendo bene che sono troppo vile per accenderla e troppo coraggioso per buttare il pacchetto. E la storia che verrà sarà quella che viene, direttamente da allora, senza la schiuma, tutta quella schiuma di detto e non detto e di scrittura fragile e dimessa. Giuro che dirò la verità, tutta la verità. Anche se non me la ricordo proprio benissimo e alla fine magari tutti i tasselli non andranno al loro posto e qualcosa rimarrà fuori dal gioco, dimenticato in un cassetto remotissimo e inaccessibile, che non riuscirò ad aprire. Ma giuro che dirò la verità, tutta la verità. Anche se me la invento. | << | < | > | >> |Pagina 76Un milione di bottiglie senza etichetta erano schierate a perdita d'occhio lungo il viale che metteva in comunicazione l'aia con il grande piazzale tra i mandorli. Una specie di installazione muta, inconsapevolmente suggestiva e anticipatrice delle ultime correnti dell'arte concettuale. Un milione di bottiglie disegnavano una linea traslucida che intercettava i raggi del sole nascente come uno xilofono di cristallo i colpi dei martelletti. Le guardavo sapendo che tra non molto quel posto si sarebbe riempito di gente e sarebbe stato tutto un turbinio di donne che fanno cose, uomini che ne fanno altre e ragazzi che schiamazzano intorno e danno una mano. Tra poco avrebbe avuto inizio la festa pagana di fine luglio, il rito propiziatorio dei frutti vermigli. Tra poco sarebbe scattata la mitica preparazione della salsa di pomodoro. Il piazzale era pieno zeppo di vasche di plastica azzurra con dentro montagne di pomodori gonfi e rossi, messi lì ad asciugare dopo il lavaggio. La sera prima noi ragazzi, così come imponeva il rigido rituale, avevamo tolto i peduncoli e sciacquato uno a uno tutti i frutti, poi li avevamo riposti nelle vasche facendo attenzione a non schiacciarli, in attesa che fossero asciutti al primo sole del mattino. Gina, la governante, era sveglia dall'alba e armeggiava tra pentole e bottiglie, facendo avanti e indietro dalla cucina al viale. Per l'occasione aveva indossato un grembiule bianco a fiori sopra la veste nera, a diluirne il lutto eterno, e sfoggiava un paio di sandali a piede nudo. Aveva momentaneamente dismesso gli orridi calzerotti di nylon per mettere in bella mostra i polpacci bianchissimi solcati dalle varici azzurrine. Gina era l'autentica regista dello show, la sacerdotessa delle conserve. Certo non lo era mia madre che per tradizione si teneva in disparte e, manifestando un chiaro disinteresse per le operazioni, elargiva sorrisi e aristocratiche divaricazioni di nari, e non lo era zia Caterina, che indicazioni invece ne dava, risultando però poco credibile dentro quell'abito lilla molto firmato e con i capelli bombati dietro la nuca. La formazione femminile era completata da mia sorella, che ereditava da sua madre il signorile distacco, da Rosa Cavallo, un'amica di Gina secca secca e con i piedi insolitamente lunghi, e da Rosaria, la mamma di Beppe. Poi c'erano gli uomini che avevano compiti molto precisi, tipo tappare le bottiglie e badare alla bollitura delle conserve. Nell'ordine: mio padre con un paio di bermuda color cachi la camicia rosa a mezze maniche e un cappello con le falde morbide, Stefano Salvemini, il fidanzato di mia sorella che nel frattempo ci aveva raggiunti, con i jeans tagliati al ginocchio e la maglia della juve, e infine Benito Cavallo, marito di Rosa e nostalgico del ventennio. Zio Mario mancava all'appello, come sempre, problemi di lavoro e qualcosa di importante da risolvere in facoltà. Ripensai a quello che mi aveva detto Valentina. Di suo padre, di quell'altra, sì insomma dell'amante. E pensai che probabilmente alla fine di luglio non c'era tutto questo daffare in ufficio e magari la facoltà era chiusa e tutto il resto.
Pensai a mia zia, per la quale non riuscivo a provare pena,
narcotizzata dentro una vita di plastica profumata – ma era
davvero la sorella di mio padre? – e a Valentina che piangeva
stesa su quel prato con la testa poggiata sul mio petto. Inconsapevolmente ero
stato grato allo zio per quegli attimi, per il
vento fresco sulla fronte e per le braccia nude sui miei fianchi.
Me ne vergognavo un po'.
Alle otto e mezza arrivarono Elisa Cancellieri e le sorelle Sassanelli. A loro piaceva un sacco fare la salsa, sporcarsi di pomodoro e stare sotto il sole tutto il giorno. Beppe sarebbe arrivato intorno alle nove, insieme con la madre. I coniugi Cavallo fecero irruzione nel viale dentro un'ape piaggio verde. La signora Cavallo, la cavalla insomma, era vestita di tutto punto con una veste fiorata su fondo blu e un paio di scarpe aperte col tacco da cui spuntavano dita lunghissime. Benito portava una canottiera candida e un paio di pantaloncini beige, oltre alle ciabatte di pelle intrecciata. Salutarono Gina, salutarono mio padre che nel frattempo era uscito sul piazzale e cominciarono a scaricare la macchina per la spremitura. La poggiarono sopra un grande tavolo in pietra sistemandola in maniera tale che il setaccio cilindrico sporgesse dal piano e si affacciasse su un grande contenitore di ceramica. Da lì sarebbe caduto il succo e la polpa mentre dalla parte opposta del setaccio si sarebbero smaltiti gli scarti, le bucce e i semi. Mi sembrava un sistema ingegnoso e ogni volta mi chiedevo come diavolo facesse la macchina a distinguere, da una parte gli scarti e dall'altra il succo. Dipendeva dalla coclea, mi spiegò mio padre. E lo spiegò a tutti, raccontando che il termine derivava dal latino coclea, appunto, che significava chiocciola e che il movimento della lama elicoidale garantiva la selezione dei materiali all'interno. Non ero sicuro di aver capito bene. La lama selezionava i materiali all'interno. E chi glielo diceva alla lama di selezionare? Stefano invece annuiva – era o non era un brillante studente di ingegneria meccanica – simulando una partecipazione attentissima sotto gli occhi compiaciuti di mia sorella. Papà raccontò inoltre che coclea era anche il nome della porta della cavea negli anfiteatri romani attraverso la quale venivano fatte entrare le fiere. Questa cosa piacque molto a Benito che seguiva con autentico interesse, meno a Gina e Rosa che badavano al sodo e volevano rispettare il rollino di marcia. Gli uomini furono spediti a sistemare il pentolone e noi ragazzi a trascinare il primo vascone di pomodori. Valentina non era ancora scesa e Beppe non era ancora arrivato. Ce ne occupammo io e Piera Sassanelli. Piera aveva un debole per me, questo lo sapevo. Ma non mi piaceva per niente, con tutti quei capelli stopposi e i brufoli che dardeggiavano la pelle bianchissima. In realtà non era brutta, insomma non bruttissima, ma a me non piaceva. Non ci potevo fare niente. Spostammo i vasconi uno a uno, trascinandoli lungo il viale e ci scambiammo un paio di occhiate di intesa. In realtà non c'era nessuna intesa, lei mi diceva ti amo disperatamente quando finiamo il lavoro andiamo dietro il fico e ci baciamo a ripetizione pure con la lingua e io le dicevo smettila di guardarmi con quegli occhi non ci penso affatto a baciarti né dietro il fico né dietro il carrubo che essendoci più ombra magari non ti vedo bene e potrei anche lasciarmi andare che comincio ad avere un'età. «Ti piace Corelli?» Chi? «Abbastanza.» «E Albinoni?» «Albinoni... qualche cosa, non sempre.» «Infatti... il mio preferito resta Bach.» «Beh sì... Bach è un'altra cosa.» Per quanto mi riguardava Corelli e Albinoni potevano essere due terzini della Sampdoria e Bach il centravanti del Bayern di Monaco. Ma annuivo, insomma non volevo che scattasse una conversazione tutta incentrata sui compositori barocchi, una cosa noiosissima in mezzo allo scintillare sinistro di apparecchi odontotecnici e sguardi languidi dietro la tenda di stoppa. «Anche a me Bach piace moltissimo.» «Ciao Vale!» Valentina spuntò fuori dalla porta della cucina, con i capelli corti ma non cortissimi come un mese fa, riposati in una timida frangetta sulla fronte ampia e abbronzata. Quindi anche a Valentina piaceva Bach, le piaceva moltissimo. A me piaceva lei, questa è la verità, specialmente quella mattina. Aveva il viso disteso e gli occhi turchini dietro le ciglia lunghissime, portava un completo arancio, pantaloncini e canotta, e un paio di infradito con una margherita gialla. Sul viso aveva ancora i segni del cuscino, due pieghe leggere sopra la guancia destra verso l'orecchio, e le labbra erano rosse e lucide per via di una prugna che mangiava avidamente. | << | < | > | >> |Pagina 91Facemmo la conta e toccò a Rodolfo fare il capo. Furono decisi i soprannomi e a me fu assegnato recch'd'gomm. Recchie di gomma appunto, cui era associato un gesto semplice ma esplicativo. Dovevo muovere in avanti entrambe le mani all'altezza delle orecchie facendole vibrare al contatto con l'indice. Il gesto segnava una precisa e inequivocabile collocazione nell'ambito della sfera sessuale. Il gesto del ricchione, insomma. Rodolfo mi guardava e rideva sgangherato elargendo tutto intorno piccoli spruzzi di saliva bianchissima.Il gioco iniziò e cominciammo a bere. Tutti ridevano molto e bevevano e man mano che bevevano ridevano molto di più. Chi sbagliava la sequenza dei gesti pagava pegno. Piera sbagliò due volte di seguito e dovette prima baciare Gianluca Bentivoglio sulle labbra e poi leccare l'alluce sinistro di Rodolfo. Al momento non avrei saputo dire quale delle due operazioni poteva risultare più disgustosa. Poi toccò a Beppe. Alessandro e Rodolfo lo tenevano per le braccia e Maria gli fece il solletico sotto la pianta dei piedi per trenta secondi. Beppe rise fino alle lacrime e nella spirale vorticosa di urla singhiozzi e suppliche ci infilò di tre quarti un peto rumorosissimo e pestilenziale, reso inevitabile dalla convulsa peristalsi addominale. Ovviamente la cosa generò l'ilarità incontrollata di tutto il gruppo e imprevedibilmente sembrò consegnare Beppe a una, pur transitoria, dimensione di privilegio. Per tutto il resto del gioco fu guardato con una sorta di timore reverenziale, non so se dovuto alla sfrontatezza del gesto esplosivo oppure alla paura palpabile di una nuova pericolosissima emissione gassosa. Ad Alessandro toccò un pegno più virile, forse per il tacito rispetto che Rodolfo nutriva nei suoi confronti. Doveva compiere dieci giri di corsa intorno al cerchio e poi, senza soluzione di continuità, effettuare venti piegamenti sulle braccia. Tutto entro un solo minuto. Per Ale naturalmente fu un gioco da ragazzi. Fece velocissimo i giri di corsa e si lanciò al centro per le flessioni. Mentre le eseguiva con la disinvolta baldanza degli atleti naturali notai che le ragazze, tutte le ragazze, lo guardavano con ammirazione. Persino Roberta, che era alta più di lui e, chissà perché lo pensavo, doveva averne viste tante. Al termine delle flessioni ci fu un applauso a cui partecipai malvolentieri e Ale tornò a sedersi accanto a Valentina. Mentre scivolava nella posizione dell'indiano lei gli accarezzò una caviglia e lui sorrise. La luce incerta delle lampade a olio rimandava sui volti le nuances febbricitanti del vino e dell'abbronzatura, rivelando con esattezza lo scintillio di occhi, sudore e incisivi bianchissimi. Poi toccò a me. Io non reggevo l'alcol e lo sapevo. Dopo un paio di bicchieri aveva già cominciato a girarmi la testa, ma avevo tenuto duro concentrandomi attentamente sul gesto. Facemmo un nuovo giro di vino su ordine del capo e Piera mi riempì il bicchiere fino all'orlo, me lo porse dentro uno sguardo imprevedibilmente languido, di una baccante pelosa e con i brufoli. Bevvi di un fiato perché da qualche parte dovevo pur dimostrare di essere un duro e avvertii la sensazione precisa di una porta che si apre e tu scivoli in una dimensione differente. Varcai lo stargate con un sorriso appena un po' ebete ed entrai nel mondo in discesa dove tutto girava felice e i volti mescolavano una giostra di nasi capelli e sorrisi. Quando riprendemmo il gioco ebbi chiara la percezione della disfatta imminente. Articolavo dentali e labiali con difficoltà e le braccia non tenevano il tempo. Quando toccò a me sbagliai subito, nettamente, farfugliai qualcosa e attesi il verdetto con rassegnazione. Rodolfo sorrise rivelando la perfidia odontotecnica di quattro incisivi sbilenchi. Odiava me e tutta la mia famiglia, ne ero certo. «Allova Matteo... pev te ho pensato a una cosa speciale.» «Cosa?» Si tolse dalla bocca la gomma e la conficcò nella sabbia. «Devi calavti le bvaghe e favti un givo del cevchio a culo nudo.» «Come sarebbe?» «Savebbe che devi toglievti i pantaloni e favti una camminata col culo da fuovi, più chiavo di così...» «Non lo faccio.» «Non puoi.» «Posso eccome, è un pegno del cazzo, non è valido.» «È validissimo invece, non ti puoi tivave indietvo, finova nessuno ha pvotestato...» «Che c'entra, fatemi il solletico allora oppure chennesò le flessioni oppure...» «Sei un cacasotto.» «Non sono un cacasotto.» «Sì invece, hai pauva di favci vedeve il tuo bel culetto bianco.» «Vaffanculo.» «Vaffanculo tu, stvonzetto.» Mi alzai in piedi vacillando un po' e Rodolfo si alzò anche lui regalandomi una quindicina di centimetri e una ventina di chili. Ci dicemmo qualcosa che non ricordo su genitori, puzza di piedi e quoziente di intelligenza sotto la media. Poi lui si avvicinò. E io mi avvicinai, consapevole di andare al massacro. «Vitiva quello che hai detto, stvonzetto.» «Non ritiro un cazzo, facciadiculo.» Facciadiculo mi prese per il bavero con quelle manone a tenaglia espellendo una serie di spiacevolezze sui nani tutte confuse in una nube compatta di big babol, erremoscia e vino adulterato. Alla fine mi diede uno spintone e io rotolai goffamente all'indietro, sulla sabbia. Ora non ricordo bene. Soltanto frammenti. Dettagli di visi, bocche che ridono, con la fronte al posto del mento, Alessandro che si alza, Valentina che mi guarda e gli occhi non sorridono più, Gianluca, il fratello del capo, che si alza pure lui. Poi la sabbia in bocca e le gambe che tremano. E mi alzo. E il mondo gira velocissimo. Mi girai verso il ciccione e mi lanciai a testa bassa. Gli fui addosso in un attimo, la testa sullo stomaco. Lui si piegò ruttando un rantolo di sfiato e io caddi di lato. Mi rovinò addosso, un elefante biondo sudatissimo con le ossa pesanti e le mani ruvide, sulla mia faccia. Da terra vedevo arrivare ceffoni scomposti e sentivo l'impatto caldissimo sulle guance, sulle spalle, sul collo. Da terra vidi un braccio che si alza e una mano pronta a sferrare un colpo definitivo, e improvvisamente un'altra, meno grande, più scura, che le arpiona il polso. E lo gira in una traiettoria innaturale. Rodolfo lanciò un urlo strozzato e Alessandro gli fu addosso, rapido come un gatto selvatico, lo fece rotolare su un fianco, immobilizzandogli entrambe le braccia. Nel frattempo Gianluca, che aveva un anno di meno del fratello ma era grosso uguale, si lanciò su Ale, prendendolo alle spalle. Io provai ad alzarmi ma la testa mi girava a mille. Vidi Beppe che, rivelando un'agilità imprevedibile, si lanciava sul collo di Gianluca, completando una ardita composizione piramidale. La situazione sembrava congelata in una posizione di stallo. C'era Beppe che teneva il collo di Gianluca che teneva il collo di Alessandro che teneva le braccia di Rodolfo. Riuscii ad alzarmi e provai a mettere mano a quel serpente polimorfo riuscendo solo a rimediare un ceffone da Gianluca e un calcio involontario da Beppe. Alla fine decisi che l'unica era ricorrere a un'arma normalmente proibita. Riuscii ad afferrare con entrambe le mani il braccio di Gianluca e lo azzannai all'altezza del tricipite, nella parte interna, là dove i pizzichi avevano sempre fatto malissimo. Il bestione lanciò un urlo gutturale e mollò la presa sul collo di Ale, cadendo all'indietro. Beppe e io gli fummo addosso come un sol uomo e riuscimmo a immobilizzarlo. Poi il ricordo si fa confuso. Più confuso. Valentina che interviene, le altre ragazze che si mettono a piangere e Roberta, quella alta, che dice che a Bergamo queste cose non succedono. I fratelli Bentivoglio se ne andarono schiumando rabbia e promettendo vendetta. Elisa e sua cugina li seguirono compunte. Maria e Piera Sassanelli dissero che si era fatto tardipropriotardi e che il giorno dopo avrebbero dovuto alzarsi prestomoltopresto. Poco dopo andarono via anche loro con Piera che procedeva ondivaga a punteggiare la sabbia di impronte riluttanti. | << | < | > | >> |Pagina 130Tornammo indietro, avevo promesso ai miei che non avrei fatto tardi. E visti gli ultimi discorsi, non ne avevo neanche voglia. Il mare era appena rischiarato da una livida luce lunare, che sottolineava di rilievi fosforescenti l'increspatura delle onde. Facemmo il percorso a ritroso senza dirci nulla, recuperammo le bici e riprendemmo la strada. Arrivati al passaggio a livello incustodito scendemmo dalle bici e uno per volta attraversammo i binari, facendo attenzione a entrambe le direzioni di marcia. Passai prima io, poi passò Valentina. Beppe rimase fermo, per soffiarsi il naso. Nel frattempo, in lontananza, l'espresso Bari Lecce annunciava il suo arrivo con un fischio prolungato. Bucava veloce la campagna come un verme luminoso. Dissi a Beppe di sbrigarsi.«Ehi Matteo.» «Sì?» «Secondo te quanto corre quel treno?» «Perché?» «Quanto pensi che gli ci voglia per frenare?» «Chennesò, andiamo.» Sorrideva, dentro un'espressione stolida. «Scommettiamo che lo costringo a fermarsi?» «Beh non fare il cretino, sbrigati.» «Ehi socio, credi che non sia capace?» Continuava a sorridere con l'aria di sfida. Il fischio si faceva più vicino. «Pensate tutti che non sia capace di fare un cazzo vero?» «Beppe, finiscila. Andiamo.» «Tutti quanti, e per prima quella stronza di mia madre. Sono uno che pensa solo a mangiare, non è vero? È questo che pensate?» «Ti vuoi muovere? Questo scherzo non fa ridere.» «Io non ho paura di quel treno, capito? Non ho nessuna paura.» Io e Valentina ci guardammo, Beppe era di fronte a noi a una decina di metri di distanza, dall'altra parte del piccolo dosso che conteneva i binari. Ci guardava con le labbra piegate in un sorriso innaturale. Non stava più sorridendo. «Beppe muoviti, sta arrivando.» Valentina aveva la voce incrinata. Lui non le rispose. Il treno era molto più vicino adesso, a un centinaio di metri forse. E fischiava sempre più forte. Beppe poggiò la bici per terra e fece un paio di passi in avanti. Poi prese dalla borsa una merendina e la scartò. «Che cazzo fai?» Fece un altro passo in avanti e salì sul piccolo dosso, sistemandosi al centro dei binari. Il treno era a meno di cinquanta metri e lacerava il buio con un fischio impazzito. Beppe diede un morso alla merendina e ci guardò. «Socio, quel treno di merda si ferma, porcocazzo. Vediamo se sono più cazzuto io o quel mostro.» Poi si girò verso i binari e con la bocca piena lanciò un urlo. Un urlo spaventoso, gutturale che sembrava contenere e rivelare in un solo istante tutti i suoni e gli umori di un'anima dannata. Il treno a pochi metri raschiava le rotaie tentando una tardiva e inutile frenata. Fu allora che lo feci, senza sapere come e perché. E non mi ricordo bene, ma mi ricordo. Lasciai cadere la leopard e mi lanciai in avanti. Ricordo perfettamente la scia luminosa che veniva da destra e il fischio insopportabile che improvvisamente diventò silenzio. Feci uno scatto e mi tuffai su Beppe, staccando i piedi da terra. Volai su quel corpo grasso, in un'immagine rallentata e paradossale, vidi gli occhi sbarrati contro la luce, la confezione accartocciata della merendina e la bocca aperta percorsa da un fremito, assorbita in un grido muto. Rotolammo oltre il dosso, mentre il convoglio passava urlando. Mi ricordo perfettamente quel vento velocissimo a pochi centimetri dalla mia faccia. E quel verso abnorme fatto di voci, di fischi, di ferro, tutti dentro un suono soltanto. Il treno passò e noi restammo per terra, arrotolati tra la ghiaia e i cespugli di cicoria selvatica. Valentina urlò qualcosa. Poi si avvicinò. «Cazzo cazzo cazzo, che è successo, Matteo rispondi, rispondimiiiii!» Le risposi. Divincolandomi a fatica. Mi sollevai sulle braccia e mi misi a sedere. «Come stai?» «Bene, sto bene.» «E tu... coglione come stai?» «Chi? Io?» Beppe riemerse da un torpore stolido e sorrise, vagamente inebetito. «Sto bene.» «Brutta faccia di cazzo, ti volevi ammazzare eh ti volevi ammazzare?» «No, cazzodici. Mi volevo spostare, all'ultimo. Vale, era uno scherzo.» Ci rialzammo. Avevo un paio di escoriazioni sulle gambe, ma per il resto stavo bene. Beppe aveva qualche graffio in più, sulle braccia e anche sul viso, gli ero atterrato addosso del resto, ma tutto sommato era andata di lusso anche a lui. Ci spiegò che, giuro, non voleva buttarsi davvero. Voleva stare sui binari per un po' e poi saltare di lato, poi però era successo qualcosa, non sapeva spiegarlo. Era rimasto come ipnotizzato, quei due occhi luminosi, sempre più vicini, e si era sentito incapace di muoversi. Come immobilizzato. Giurò che era la verità, che non voleva uccidersi, davvero. Perché avrebbe dovuto, perché. «Non lo direte a mia madre, vero?»
Avevo voglia di vomitare, e vomitai. Sulla ghiaia, con Valentina che mi
teneva la fronte.
Dopo un silenzio che mi parve lunghissimo ci alzammo e riprendemmo le bici. Tornammo a casa. Beppe ci salutò con la mano alzata e un sorriso placido mentre infilava di tre quarti la stradina tra gli ulivi. Noi proseguimmo rapidamente.
Mentre pedalavo sentivo il vento di collina, più freddo, accarezzarmi le
gambe. E vedevo Valentina sfilarmi davanti, veloce e taciturna. Sembrava che il
tempo fosse cambiato, improvvisamente. E quella carezza era una cosa diversa
dall'estate, era il saluto di una stagione nuova, di una stagione fredda.
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