Autore Gianrico Carofiglio
Titolo Una mutevole verità
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Stile Libero Big , pag. 120, cop.fle., dim. 12,7x19,8x1,4 cm , Isbn 978-88-06-22052-5
LettoreGiangiacomo Pisa, 2014
Classe gialli












 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

Prologo


Cardinale Lorenzo detto 'u tuzz' - cioè «la testata» - era un rapinatore, specializzato in banche e uffici postali. Lui e i suoi complici avevano una tecnica semplice e molto efficace: rubavano un'auto di grossa cilindrata, o addirittura un camion; aspettavano l'orario di chiusura al pubblico, quando le casseforti erano aperte, i sistemi di sicurezza a tempo disattivati e gli impiegati contavano il denaro. Allora lanciavano l'auto - o il camion - a marcia indietro contro la vetrina blindata, la sfondavano, entravano armi in pugno, prendevano il denaro e andavano via. Ovviamente con una macchina diversa. Quella utilizzata per lo sfondamento rimaneva infilata nella vetrina come un'installazione postmoderna, e cosí la ritrovavano la polizia o i carabinieri.

Il maresciallo Pietro Fenoglio lo conosceva bene, 'u tuzz'. Per mesi, con i ragazzi della sua squadra, aveva indagato su di lui e quella mattina, finalmente, lo avrebbe arrestato, in esecuzione - come si dice - di un'ordinanza di custodia cautelare per alcune di quelle rapine.

Il provvedimento del giudice era di almeno due settimane prima, ma quando erano andati a prenderlo 'u tuzz' non era in casa. Lo avevano cercato per giorni, fino a quando un confidente non aveva passato l'informazione giusta.

Il figlio di Cardinale soffriva di attacchi epilettici, e quella mattina il padre lo avrebbe accompagnato al policlinico per una Tac al cervello.

Erano in tre: il brigadiere Sportelli, il carabiniere scelto Montemurro e Fenoglio. Parcheggiarono la Ritmo a una ventina di metri dall'ingresso della clinica neurologica e, proprio come aveva detto l'informatore, alle undici arrivarono Cardinale, la moglie e il bambino.

— Eccoli, - disse Sportelli, estraendo la pistola e aprendo la portiera.

— Che fai con quella?

Il brigadiere rimase con una mano sulla maniglia e l'altra sul calcio dell'arma.

— Non lo andiamo a prendere?

— Vuoi sparare al bambino?

— Che significa?

Fenoglio ignorò la domanda.

— Tu aspettaci qui, - disse al carabiniere scelto Montemurro. - È improbabile che succeda, ma se Cardinale dovesse uscire da solo, magari di corsa, fermalo -. Poi disse a Sportelli: - Noi entriamo, ma quella falla sparire, ché mi rende nervoso.

Nell'atrio della clinica chiesero a un infermiere dove si facessero le Tac e quello indicò un corridoio che terminava in una sala d'attesa. Cardinale era seduto con la testa fra le mani. Si accorse del maresciallo quando gli si sedette accanto e gli toccò la spalla.

— Ciao, Lorenzo.

'U tuzz' ebbe un lieve sussulto. Poi si voltò e si strinse nelle spalle in un impercettibile gesto di rassegnazione.

— Buongiorno, maresciallo.

— Come sta il bambino?

— Non lo sappiamo. Adesso stanno facendo la... come si chiama... la Tac. Mia moglie sta con lui, lí dentro. Ha gli attacchi epilettici e non sanno perché. Dice che può essere un tumore...

Rimasero in silenzio qualche minuto, guardando tutti e due un punto imprecisato davanti a loro.

— Ti devo arrestare, lo sai, vero?

— Lo so. Per piacere, fatemi prima sentire come sta mio figlio. Fatemi parlare con il dottore e poi me ne vengo con voi.

Fenoglio annui. Poco dopo si affacciò un medico.

— Signor Cardinale...

'U tuzz' guardò Fenoglio, che gli fece un cenno col capo.

— Ti aspetto qua. Non mi fare scherzi.

Cardinale si alzò e scomparve dietro una porta bianco crema mentre il brigadiere seguiva la scena esterrefatto.

— Maresciallo...

— Non ti preoccupare, adesso torna e ce ne andiamo tutti insieme in caserma.

— E se esce da dietro, da qualche parte?

— Se esce da dietro facciamo insieme una bella relazione in cui raccontiamo quello che è successo, chiarendo che è tutta colpa del maresciallo Pietro Fenoglio. Stai tranquillo.

Un quarto d'ora dopo la porta color crema si apri di nuovo. Ne uscirono Cardinale e la moglie, con il bambino fra loro. Fenoglio si alzò, la donna gli tese la mano, lui la strinse delicatamente.

— Grazie, maresciallo.

— Allora, che dice il medico?

— Niente tumore, per fortuna, - rispose Cardinale.

— Dice il dottore che spesso non si sa da dove viene l'epilessia. Deve prendere delle medicine per qualche anno, ma dicono che si guarisce, - aggiunse la moglie.

— Come si chiama questo giovanotto?

— Francesco. Voi avete figli, maresciallo?

Fenoglio scosse la testa. Parve sul punto di dire qualcosa al bambino, poi ci ripensò. Era il momento di chiudere la scena.

— Bene. Adesso credo proprio che dobbiamo andare, - disse Fenoglio.

Cardinale annui, baciò la moglie e si piegò sulle ginocchia per guardare negli occhi il figlio.

— Uaglio', papà adesso deve partire con questi suoi amici, per lavoro.

— Quando torni? - chiese il piccolo con un tono serio. Come se avesse capito.

- Presto. Devi fare il bravo, mi raccomando -. E rivolgendosi alla moglie: - Quando vai a casa mi fai un borsone e me lo porti in caserma -. La moglie fece di sí con la testa. Era una abituata a certe richieste e a quel genere di vita. - Mi dovete mettere le manette? - disse poi Cardinale, sottovoce, a Fenoglio.

- Andiamo. Buongiorno, signora.

Erano ancora in macchina e stavano arrivando in caserma quando dalla sala operativa giunse la segnalazione. Confusa, come accade per le morti violente con sospetto di omicidio. Una donna delle pulizie aveva trovato il datore di lavoro morto, in un lago di sangue, nella cucina di casa. Sul posto si stava già portando una pattuglia del nucleo radiomobile.

Sarebbe stata una lunga giornata, pensò Fenoglio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 49

— Anch'io andavo all'università.

— Ah, sí? Cosa studiava?

— Lettere.

— Lettere. Come mai?

— Mi piaceva.

— E poi?

— Mio padre era anche lui un carabiniere, un appuntato. Mi iscrisse al concorso per sottufficiali, a mia insaputa. Me lo disse solo un mese prima delle selezioni. Anche meno di un mese. Io mi arrabbiai moltissimo e gli dissi che non ci sarei mai andato, per nessuna ragione.

— Come fece a convincerla?

— Mi chiese di andare a fare due passi con lui. Abitavamo a Torino, che allora non era un posto allegro, ma quel giorno era primavera, e quando ci sono certe giornate tutto quanto è diverso. Dopo aver camminato senza dire niente per una decina di minuti, andammo a sederci in un caffè con i tavolini all'aperto. Mi ricordo anche cosa ordinammo: due cappuccini. Lui tirò fuori le sigarette; fumava le Nazionali esportazione, quelle con il pacchetto verde, morbido. Probabilmente non le hai mai viste.

— No, no. Ho capito, sono quelle con la caravella.

— Sí, quelle. Me ne offri una. Fino a quel momento il fatto che io fumassi era una cosa non dichiarata. Non glielo avrei mai detto, anche se pensavo che lo sapesse. Avevo vent'anni.

— Non l'ho mai vista fumare.

— Ho smesso parecchi anni fa. In ogni caso, accendemmo le sigarette e dopo aver fumato un poco in silenzio mi disse che per prima cosa si scusava: i padri agiscono pensando di fare il bene dei figli, e quasi sempre sbagliano. Ero sbalordito. Mio padre parlava poco e probabilmente quella era la conversazione piú lunga che avessi avuto con lui in tutta la mia vita. Che poi ammettesse di avere sbagliato era ancora piú sconvolgente. Dopo quella premessa aggiunse che secondo lui sarebbe stato un errore non provare la selezione. Facevo sempre in tempo a decidere di non andare avanti, ammesso che mi prendessero. E facevo sempre in tempo a laurearmi, se per caso mi avessero preso e avessi deciso di accettare.

— Cosí la convinse.

— No. Cioè, gli dissi che non sapevo cosa avrei fatto nella vita ma che ero certo di non voler diventare un carabiniere.

— E allora?

— Tre settimane dopo ebbe un infarto, in ufficio. Quando arrivò l'ambulanza era già morto. Mi presentai alle selezioni e di lí a qualche mese ero alla scuola di Firenze a cominciare il corso per vicebrigadiere.

Montemurro buttò fuori l'aria, come se avesse tenuto il fiato sospeso per parecchi secondi. Probabilmente era proprio quello che aveva fatto. Ne venne fuori una via di mezzo tra un fischio e un sospiro.

— L'università non l'ha piú ripresa, vero?

Fenoglio accennò un sorriso vago.

— No. Ci ho pensato tante volte. Magari quando vado in pensione.

Montemurro parve sul punto di replicare qualcosa, poi scosse la testa, come se avesse in corso un animato dialogo interiore e non sapesse a quale voce dar retta. Guidò ancora per qualche minuto prima di rompere di nuovo il silenzio.

— Secondo lei quali sono le doti piú importanti che fanno un bravo investigatore?

— Prima di tutto questa.

— Quale?

— Non aver paura di fare domande. Anche apparentemente ingenue. Agli altri ma anche a sé stessi. Non bisogna dare niente per scontato.

— E poi?

— Bisogna allenarsi a osservare. Intendo dire, non solo con gli occhi. Bisogna tenere i sensi in funzione. Tutti. Guardare, ascoltare, toccare, anche annusare. Prendere nota. E se sei una recluta, bisogna capire quando parlare e quando stare zitti.

— Perché?

— Perché qualunque cosa tu dica è comunque molto probabile che non venga presa sul serio. O dici semplicemente una cazzata, il che, essendo una recluta, è facile, e allora hanno ragione a non prenderti sul serio. Oppure hai davvero una buona intuizione, ma questo, a meno che tu non abbia un capo intelligente, il che capita ma non spesso, di solito dà fastidio. Dunque non verrai preso sul serio, salvo ritrovarti il capo che, qualche giorno dopo, propone la tua idea come se fosse sua. E il bello, o il brutto, è che perlopiú non è nemmeno in malafede.

— Einstein diceva che il segreto della creatività è nel saper tenere nascoste le proprie fonti.

Fenoglio elaborò quella frase per qualche istante.

— Giusto. Mi piace. E anche il segreto del successo nelle carriere degli investigatori, in un certo senso. Comunque, alla fine, direi che le qualità fondamentali degli investigatori migliori sono l'ostinazione e la pazienza. Magari c'è gente piú intelligente di te, ma se un problema non lo molli, di regola riesci a risolverlo. Sherlock Holmes dice piú o meno la stessa cosa.

— Sherlock Holmes?

- È in Uno studio in rosso: «Si dice che il genio sia infinita pazienza. Come definizione è pessima, ma calza a pennello al lavoro dell'investigatore». Faccio collezione di aforismi di Conan Doyle, - aggiunse dopo qualche secondo, quasi scusandosi.

Cominciarono a cadere grandi gocce, pesanti e pigre quasi fosse una pioggia d'estate. Come gli capitava, Fenoglio si distrasse, rapito dall'effetto ottico dell'acqua che piombava ritmica sul parabrezza. Era uno di quegli spettacoli naturali - come il volo degli stormi di uccelli in certi pomeriggi di primavera, o il mutare di forma delle nuvole in certe mattine ventose di settembre - da cui si lasciava ipnotizzare.

Montemurro dovette ripetere tre volte che erano arrivati. Il maresciallo si scosse, si strizzò gli occhi e riprese contatto con il mondo esterno.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 92

Sedicesimo


— Chi può essere la ragazza? - disse Montemurro, dopo aver bevuto la sua spremuta d'arancia a un tavolino del bar Riviera, a qualche centinaio di metri dalla caserma.

Fenoglio respirò rumorosamente, si grattò il naso e scosse la testa. Giocherellò con il cucchiaino e i fondi del caffè per almeno un minuto. Poi tornò a rivolgersi a Montemurro.

— Sai qual è il lavoro che assomiglia di piú a quello dell'investigatore, in casi come questo?

— Il medico, ho letto da qualche parte. Loro fanno le diagnosi, noi le ipotesi investigative.

— Anche quello, in effetti. Fai una ipotesi e cerchi di verificarla. Però questa fase arriva quando sei riuscito a formularla, l'ipotesi. Allora ti poni il problema di come verificarla. Ma noi al momento un'ipotesi soddisfacente non ce l'abbiamo. Cioè, per essere piú precisi: abbiamo molto piú di un'ipotesi per quanto riguarda un pezzo del comportamento di Fornelli. È sicuro che sia uscito dalla casa di Fraddosio poco dopo la sua morte con l'arma del delitto. Dunque è molto probabile che sia l'autore materiale dell'omicidio. Ci manca qualsiasi spiegazione del quadro d'insieme, del prima e del dopo. Chi è la ragazza che è andata a trovare Fraddosio al Calimero e con la quale stava camminando alle dieci e quindici; perché ci è andata e che fine ha fatto; per quale motivo il Fraddosio e Fornelli si sono incontrati; cosa è successo, intendo cosa ha indotto Fornelli a sgozzare Fraddosio; chi era il tizio che aspettava Fornelli in auto, vicino al cassonetto. Insomma non abbiamo un'idea, al di là del fatto che poi dovremmo verificarla, cioè provarla, su cosa potrebbe essere accaduto prima e dopo l'omicidio.

— E dunque?

— E dunque il nostro problema, come ti dicevo, è piú simile a quello di uno scrittore che deve elaborare una buona storia. Plausibile. Non so se mi spiego.

— Non sono sicuro di avere capito. Che c'entra una buona storia con il nostro lavoro?

— Che dici, mangiamo qualcosa?

Montemurro rovesciò gli occhi. Seguire i cambi di ritmo di Fenoglio non era sempre facile. Ordinarono panini e birre. Fuori il cielo, dopo tanta pioggia, cominciava a sgombrarsi. Spiragli sempre piú ampi si aprivano nella trama fitta e grigia delle nuvole che avevano chiuso per ore l'orizzonte del mare.

- Le indagini si occupano sempre di un fatto passato, giusto?

— Giusto, - disse Montemurro con qualche esitazione.

— Per cercare di ricostruire cosa è successo nel passato dobbiamo immaginarci una sequenza di fatti. Cioè, appunto, una storia. In altri termini: come potrebbero essere andati i fatti. Una storia plausibile deve includere gli elementi che abbiamo già e deve essere verificata attraverso la ricerca di nuovi elementi.

Montemurro scosse la testa, come chi abbia idee confuse e con quel movimento cerchi di rimetterle materialmente a posto. Fenoglio continuò a parlare.

— C'era un magistrato con cui ho collaborato per anni. Mi ha insegnato un sacco di cose, ma due in particolare hanno cambiato il mio modo di fare questo lavoro.

— Quali?

— Una è quella che ti ho appena detto. Per risolvere i casi complicati bisogna essere capaci di costruire una storia, partendo dagli indizi disponibili, che contenga una spiegazione plausibile di tutti gli elementi che abbiamo. Ci vuole una certa dose di fantasia ed è un lavoro simile a quello di uno scrittore. Una volta costruita questa storia, che è, in sostanza, un'ipotesi su come potrebbero essersi svolti i fatti, bisogna andare alla ricerca delle conferme. Cosí è un po' piú chiaro?

Montemurro annui.

— Se l'ipotesi sembra confermata dai nostri accertamenti, dobbiamo proseguire in maniera controintuitiva. Cioè cercare eventuali elementi che la contraddicano.

— Perché?

— Il rischio di avere una buona ipotesi di spiegazione dei fatti è che questa ci piaccia troppo. Allora andiamo alla ricerca esclusivamente di quello che la conferma senza vedere quello che potrebbe smentirla. Questo magistrato mi diceva che per essere investigatori migliori, piú efficaci, dovevamo ragionare come se fossimo stati gli avvocati delle persone su cui stavamo indagando.

— Non capisco.

— Significa che dobbiamo cercare i punti deboli delle nostre ipotesi. Una volta che li abbiamo trovati dobbiamo verificare se possono essere rinforzati. Se ci riusciamo, forse l'ipotesi che abbiamo è valida. Ma se non ci riusciamo, forse va abbandonata, perché non è davvero adatta a spiegare quello che è successo. La cosa peggiore che può fare un investigatore è innamorarsi della propria ipotesi, ignorandone le debolezze ed evitando deliberatamente di vedere gli elementi che la contraddicono.

Finirono i panini e le birre e per qualche minuto non parlarono. La conversazione riprese dopo l'arrivo dei caffè.

— Secondo te cosa dovremmo fare per mettere insieme una storia accettabile che ricostruisca senza contraddizioni quello che può essere successo, tenendo conto di tutti gli elementi che abbiamo?

Montemurro si grattò la testa, bevve il caffè.

| << |  <  |