|
|
| << | < | > | >> |Pagina 11Non c'è nessuno che smetta di fumare.Si sospende, al massimo. Per giorni. O per mesi; o per anni. Ma nessuno smette. La sigaretta è sempre lì, in agguato. Qualche volta salta fuori nel bel mezzo di un sogno, magari cinque, o dieci anni dopo aver «smesso». Allora senti il contatto delle dita sulla carta; senti il leggero, sordo, rassicurante rumore che fa quando la batti sul piano della scrivania; senti il contatto delle labbra sul filtro ocra; senti lo scratch del fiammifero e vedi la fiamma gialla, con la base azzurra. Senti addirittura la botta nei polmoni, e vedi il fumo che si diffonde fra le carte, i libri, la tazzina di caffè. È allora che ti svegli. E pensi che una sigaretta, una sola non può fare nessuna differenza. Che te la potresti accendere, perché hai sempre quel pacchetto di emergenza chiuso nel cassetto della scrivania, o da qualche altra parte. E poi, naturalmente, ti dici che non funziona così; che se ne accendi una ne accenderai un'altra, e poi un'altra eccetera, eccetera. A volte funziona; altre volte no. Comunque vada, in quei momenti capisci che l'espressione smettere di fumare è un concetto astratto. La realtà è diversa.
E poi ci sono occasioni più concrete dei sogni. Gli incubi, per esempio.
Erano già parecchi mesi che non fumavo. Tornavo dalla procura della Repubblica dove avevo esaminato gli atti di un procedimento in cui dovevo costituirmi parte civile. E avevo una maledetta voglia di entrare in una tabaccheria, comprare un pacchetto di sigarette forti e aspre - emmesse gialle, magari - e fumarmele fino a spaccarmi i polmoni. L'incarico me lo avevano dato i genitori di una bambina adescata da un pedofilo. Lui era andato davanti alla scuola, aveva chiamato la bambina, e lei lo aveva seguito. Erano entrati insieme nell'androne di un vecchio palazzo. Una bidella aveva seguito la scena, ed era entrata anche lei nell'androne. Il maiale stava strofinando la sua patta sulla faccia della bambina che teneva gli occhi chiusi e non diceva niente. La bidella aveva urlato. Il maiale era scappato via alzandosi il bavero. Banale ma efficace, perché la bidella non era riuscita a vederlo bene in faccia. Quando la bambina era stata sentita con l'aiuto di una brava psicologa era venuto fuori che quella non era stata la prima volta. E nemmeno la seconda o la terza. I poliziotti avevano fatto bene il loro lavoro, avevano identificato il maniaco, e lo avevano fotografato di nascosto. Davanti all'ufficio comunale dove lavorava come un impiegato modello. La bambina lo aveva riconosciuto. Indicando la fotografia con un dito, battendo i denti e poi distogliendo lo sguardo. Quando erano andati ad arrestarlo i poliziotti avevano trovato una collezione di foto. Da incubo. Le foto che avevo visto quella mattina, nel fascicolo. Avevo voglia di spaccare la faccia a qualcuno. Al maiale, potendo. O al suo avvocato. Aveva scritto che «le dichiarazioni della bambina sono palesemente inattendibili, frutto di fantasie morbose tipiche di taluni soggetti in età prepuberale». Avrei voluto davvero spaccargli la faccia. Avrei voluto spaccarla anche ai giudici del tribunale della libertà, che avevano messo il pedofilo agli arresti domiciliari. In quel provvedimento si leggeva che «per evitare il rischio di reiterazione di pur gravi condotte del tipo di quelle oggetto del procedimento, era sufficiente la restrizione della libertà personale nella forma attenuata degli arresti domiciliari». Avevano ragione. Tecnicamente avevano ragione. Lo sapevo bene, facevo l'avvocato. Io stesso avevo sostenuto tante volte quel principio. Per i miei clienti. Ladri; truffatori; rapinatori; bancarottieri. Anche qualche spacciatore. Ma non stupratori di bambini. Comunque sia, volevo spaccare la faccia a qualcuno. O fumare. O fare qualsiasi altra cosa che non fosse rientrare in studio e lavorare. | << | < | > | >> |Pagina 51Il lunedì mattina andai in procura.Entrai nel palazzo degli uffici giudiziari passando per l'ingresso riservato ai magistrati, al personale ed agli avvocati. Un giovane carabiniere che non avevo mai visto mi chiese i documenti. Dissi che ero un avvocato e lui mi chiese di nuovo i documenti. Naturalmente non avevo con me il tesserino e così il giovane carabiniere mi disse di uscire e di rientrare dalla porta destinata al pubblico. Quella attrezzata con il metal detector, caso mai avessi avuto un fucile mitragliatore sotto il giaccone. O un'accetta. I metal detector erano stati installati dopo che un pazzo era entrato nel tribunale con un'ascia infilata nei pantaloni. Nessuno lo aveva controllato e, una volta dentro, aveva cominciato a spaccare tutto. Quando era stato finalmente bloccato e disarmato dai carabinieri, aveva detto che era venuto per parlare con il giudice che gli aveva dato torto in una causa di eredità. Doveva essere la sua idea di appello. Stavo per girarmi e fare quello che aveva detto il carabiniere, quando mi vide un maresciallo che faceva servizio in tribunale tutti i giorni e che mi conosceva. Disse al ragazzo che effettivamente ero un avvocato e che poteva lasciarmi passare. L'atrio era affollato di gente; donne, ragazzi, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e avvocati, soprattutto di provincia. C'era la prima udienza di un processo contro una banda di spacciatori di Altamura. Il rumore di fondo era quello che si sente in un teatro prima che cominci lo spettacolo. L'odore di fondo era quello di certe stazioni ferroviarie, o di certi autobus affollati. O di molti atri di tribunale. Mi feci strada fra la folla, il rumore e l'odore, raggiunsi l'ascensore e salii in procura. La stanza di Alessandra Mantovani, sostituto procuratore della Repubblica, era nel consueto casino. Pile di fascicoli sulla scrivania, sulle sedie, sul divano ed anche a terra. Ogni volta che entravo nell'ufficio di un pubblico ministero, pensavo che ero contento di aver fatto l'avvocato e non il magistrato. «Avvocato Guerrieri». «Signor pubblico ministero». Chiusi la porta, mentre Alessandra si alzava, faceva il giro della scrivania, evitava un pilastro di fascicoli e mi veniva incontro. Ci salutammo con un bacio sulla guancia. Alessandra era mia amica, era una bella signora, e probabilmente il migliore magistrato della procura. Era di Verona, ma qualche anno prima aveva chiesto il trasferimento a Bari. Ci era venuta con un biglietto di sola andata, lasciandosi alle spalle un marito ricco e una vita senza problemi. Per venire a stare con un tizio che credeva fosse il grande amore della sua vita. Anche le donne molto intelligenti fanno cose molto stupide. Il tizio non era l'amore della sua vita, ma un banale ometto come tanti. E come tanti, dopo qualche mese l'aveva banalmente lasciata. Così era rimasta sola, in una città che non conosceva, senza amici, senza nessun altro posto dove andare. E senza lamentarsi. «È una visita di cortesia o ti sei messo a difendere i maniaci?». Alessandra era nella sezione della procura che si occupava di reati sessuali. Io, di regola, non difendevo quel tipo di clienti, in quel settore le costituzioni di parte civile erano rare, e così Alessandra ed io avevamo poche occasioni di incontrarci per ragioni di lavoro. «Sì, il tuo collega della stanza a fianco è stato beccato mentre girava ai giardini pubblici con un impermeabile nero. E niente sotto. E stato arrestato dai nuclei speciali della nettezza urbana e mi ha incaricato della sua difesa». Il collega della stanza a fianco non aveva quella che si dice una reputazione immacolata. Si raccontavano le storie più divertenti, sul suo conto. E sulle numerose segretarie, ufficiali giudiziarie, dattilografe - perlopiù attempate - che passavano dalla sua stanza fuori dall'orario di servizio. Scherzammo ancora per qualche minuto e poi le spiegai il motivo della mia visita. Mi ero preso una bella rogna, disse per prima cosa. Grazie, l'avevo già intuito. Ovviamente sapevo chi era l'imputato, e chi era suo padre. Ovviamente sì, grazie ancora per il tono rassicurante. Quando ho un problema e voglio sostegno morale adesso so dove andare. Com'era il processo? Fetido, cosa mi aspettavo. Fetido da tutti i punti di vista. Sostanzialmente la parola di lei contro quella di lui, perlomeno per i fatti più gravi. Le molestie telefoniche erano provate dai tabulati, ma quello era un reato minore. C'erano un paio di certificati medici del pronto soccorso con prognosi lievi, ma quando erano successi i fatti più gravi, durante la convivenza, lei non era andata a farsi medicare. Si vergognava di raccontare quello che era successo. Funziona sempre così. Vengono massacrate e poi si vergognano di andare a raccontare che i loro mariti, i loro compagni sono delle bestie. | << | < | > | >> |Pagina 112L'aula dove teneva udienza Caldarola era nel mezzo di un corridoio di passaggio. Come tutti i giorni di udienza la confusione era grande. C'erano, mischiati fra loro, gli imputati, i loro avvocati, i poliziotti ed i carabinieri che dovevano deporre, alcuni pensionati che trascorrevano le loro mattinate interminabili a vedersi i processi invece che giocare a briscola sulle panchine dei giardinetti. Ormai li conoscevano tutti e loro conoscevano e salutavano tutti.A qualche metro di distanza da questo gruppone c'erano altre persone con foglietti in mano e l'aria spaesata; l'aria di chi non avrebbe voluto essere lì. Avevano ragione. Erano i testimoni dei processi, di regola vittime dei reati. Su quei foglietti c'era scritto che erano obbligati a presentarsi davanti al giudice e che «in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento avrebbero potuto essere accompagnati coattivamente a mezzo della polizia giudiziaria e condannati al pagamento di una somma...» eccetera, eccetera. Stavano per vivere un'esperienza surreale, nel migliore dei casi. Un'esperienza che non avrebbe aumentato la loro fiducia nella giustizia. Fra i due gruppi filtrava la folla di passaggio con un movimento ininterrotto. Commessi con carrelli e cumuli di fascicoli, imputati che cercavano la propria aula o il proprio avvocato; agenti di polizia penitenziaria che accompagnavano detenuti in catene; facce nere e sperdute; masnadieri tatuati con modi da cliente abituale di tribunali e questure; altri masnadieri che dopo qualche istante ti accorgevi che erano poliziotti dell'antiscippo; giovani avvocati con abbronzature fuori stagione, grossi colletti, grossi nodi di cravatta; persone normali sparpagliate nel tribunale per i motivi più vari. Quasi mai buoni. Tutti avrebbero voluto andarsene al più presto. Anch'io. Seduta su una panca, lo sguardo fisso su un muro sudicio c'era suor Claudia. Con il solito giubbotto di pelle nera, pantaloni di tipo militare a tasconi. Nessuno aveva preso posto vicino a lei. Nessuno di quelli in piedi le stava troppo vicino. Distanza di sicurezza mi comparve scritto in testa per uno o due secondi. Non so come fece a vedermi, perché appunto aveva lo sguardo apparentemente fisso sul muro davanti a lei ed io arrivavo di lato, fra la folla. Certo è che quando fui a cinque o sei metri da lei, girò la testa come obbedendo ad un comando silenzioso e subito dopo si alzò con quel suo movimento fluido e pericoloso, da predatore. Mi fermai davanti a lei, a qualche decina di centimetri. Sconfinando in quella bolla dove gli altri non entravano. La salutai con un cenno del capo e lei rispose nello stesso modo. «Come mai è venuta?». Mi parve, per una frazione di secondo, di cogliere nella sua faccia qualcosa di simile all'imbarazzo; e un'ombra di rossore. Una frazione di secondo, e forse me lo immaginai soltanto. Quando parlò la sua voce era quella delle altre volte; grigia come l'acciaio di certi coltelli. «Martina non viene. Glielo ha detto lei. Allora sono venuta io per vedere cosa succede e poi raccontarglielo». Annuii e dissi che potevamo entrare in aula. L'udienza sarebbe cominciata fra poco ed era meglio essere lì per sentire a che ora sarebbe stato trattato il nostro processo. Mentre dicevo così mi resi conto che non avevo ancora visto Scianatico e nemmeno Dellisanti. | << | < | > | >> |Pagina 182Lei continuava a parlare, ma la sua voce si allontanò, mentre io rotolavo a ritroso, velocissimo, fino ad un pomeriggio di primavera, tanti anni prima.Ci sono tre ragazzini sul lastrico solare di un palazzo di otto piani. Tutto intorno a questo lastrico solare c'è un parapetto basso; sui lati, oltre il parapetto, un cornicione molto largo, almeno un metro; quasi un marciapiede. Oltre questo marciapiede, il vuoto. Terribile, nella sua banalità fatta di gatti e piante spelacchiate nel cortile di sotto. Uno dei ragazzini - quello che gioca meglio a pallone, che ha già fumato qualche sigaretta e che sa spiegare agli altri la vera funzione del pisello, a parte la pipì - propone una gara di coraggio. Sfida gli altri due a scavalcare il parapetto e a camminare sul cornicione per tutto il perimetro. Non si limita a dirlo, lo fa. Scavalca e cammina con passo spedito, fa il giro e poi scavalca di nuovo, tornando al sicuro. Allora ci prova anche il secondo; i primi passi li muove con esitazione, poi però cammina anche lui rapido e in breve anche lui ha finito. Adesso tocca al terzo ragazzino. Ha paura, ma non in modo esagerato. Non ha molta voglia di camminare sul vuoto, ma non gli sembra una cosa proibitiva. Gli altri due lo hanno fatto senza problemi e così potrà farlo anche lui, pensa. Al massimo si terrà molto vicino al parapetto, tanto per maggior sicurezza. Così scavalca anche lui, un po' goffamente - non è molto agile, certo meno degli altri - e comincia a camminare, guardando i due compagni. Cammina facendo scorrere una mano sulla parte interna del parapetto; come per mantenersi. Quello che gioca bene a pallone, esperto di uso del pisello, eccetera, dice che così non vale. La deve togliere, quella mano, e camminare nel mezzo del cornicione, non appoggiato, così come sta facendo. Se no non vale, ripete. Allora il ragazzino toglie la mano, e si sposta di qualche centimetro, verso il vuoto; e muove qualche passo. Passi corti, guardandosi i piedi. Ma guardando i piedi gli occhi si spostano, fuori dal controllo cosciente, fino ad inquadrare un punto del cortile, giù in fondo. Sono meno di trenta metri, ma sembra un abisso che può risucchiare tutto. Dove può finire tutto. Il ragazzino distoglie lo sguardo e prova ad andare avanti. Ma adesso l'abisso gli è entrato dentro. In quel preciso momento scopre che dovrà morire. Forse proprio in quel momento; forse un'altra volta, ma dovrà morire. Capisce cosa significa, con una intuizione folgorante e completa. Allora si aggrappa al parapetto e si abbassa, quasi si raggomitola. Come per offrire meno superficie al vento - in realtà è solo una brezza leggerissima - che potrebbe fargli perdere l'equilibrio. Adesso è quasi rannicchiato, appoggiato a quel muretto con le spalle all'abisso; e non ha il coraggio di rialzarsi, nemmeno quel poco che gli consentirebbe di scavalcare e passare dall'altra parte, al sicuro. I due amici stanno dicendo qualcosa, ma lui non li sente; o meglio: non capisce quello che dicono. Però d'un tratto gli viene un'altra paura. Che si avvicinino per fargli uno scherzo, tipo accennare una spinta; o scavalcare anche loro, di nuovo, per fare qualche gioco spaventoso. Allora dice aiuto, mamma; lo dice sottovoce e gli viene da piangere, forte. Poi, partendo dalla posizione rannicchiata si arrampica lentamente sul parapetto, quasi strisciando, graffiandosi le mani, sbucciandosi le ginocchia e tutto. Se si alzasse in piedi sarebbe facile scavalcare, ma lui non può alzarsi in piedi; non può correre il rischio di guardare giù, di nuovo.
E alla fine è dall'altra parte. Gli altri due lo sfottono e lui mente, dice
che camminando ha preso una storta ed è per questo che non ha potuto proseguire;
ed è per questo che ha scavalcato in quel modo ridicolo, da sciancato. E poi
quando vanno via - e anche nei giorni successivi - sta molto attento a
zoppicare, per convincerli che la storia della storta era vera, mica una scusa
per nascondere la sua paura. Zoppica per un'intera settimana, e ripete la storia -
ai due amici ed a se stesso - tante volte che alla fine lui stesso confonde
quello che ha inventato con i fatti come si sono verificati davvero.
|