Copertina
Autore Gianrico Carofiglio
Titolo Le perfezioni provvisorie
EdizioneSellerio, Palermo, 2010, La memoria 804 , pag. 342, cop.fle., dim. 12x16,8x1,7 cm , Isbn 978-88-389-2454-5
LettoreFlo Bertelli, 2010
Classe narrativa italiana , gialli
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Pagina 9

Uno



Tutto cominciò con un'innocua telefonata di un vecchio compagno di università.

Sabino Fornelli fa l'avvocato civilista. Quando un suo cliente ha un problema penale, lui chiama me, mi passa il caso e poi non vuole saperne più niente. Come molti civilisti, pensa che gli uffici giudiziari penali siano posti malfamati e pericolosi, e preferisce tenersene alla larga.

Un pomeriggio di marzo, mentre ero impegnato a studiare un ricorso che avrei dovuto discutere il giorno dopo in cassazione, Sabino Fornelli mi chiamò. Erano parecchi mesi che non ci sentivamo.

«Ciao Guerrieri, come stai?».

«Bene, e tu?».

«Come sempre. Mio figlio è andato a farsi tre mesi di scuola negli Stati Uniti».

«Bello. Ottima idea, avrà qualcosa da ricordarsi».

«Anch'io avrò qualcosa da ricordarmi: da quando è partito mia moglie mi massacra con la sua ansia, e io sto per diventare pazzo».

Continuammo ancora per qualche minuto con questi convenevoli, poi arrivammo al punto. C'erano due suoi clienti che dovevano parlarmi di una cosa molto delicata e anche urgente. Abbassò il tono della voce, quando disse delicata e urgente, in un modo che mi parve un po' ridicolo. Il caso più grave che fino ad allora mi aveva passato Fornelli era una drammatica vicenda di ingiurie, percosse e violazione di domicilio.

Insomma, considerati i precedenti non ero troppo incline a prendere sul serio la classificazione di delicatezza e urgenza dei casi che mi passava Sabino Fornelli.

«Domani vado a Roma, Sabino, e non so a che ora rientro. Dopodomani è sabato, e dunque puoi farli venire - diedi una rapida occhiata all'agenda - lunedì sul tardi, dopo le otto. Di che si tratta?».

Ci fu una breve pausa.

«Va bene per dopo le otto. Ma vengo anch'io, li accompagno, così ti spieghiamo insieme. È meglio, per una serie di ragioni».

Toccò a me fare una breve pausa. Non era mai accaduto che Fornelli accompagnasse al mio studio i clienti che mi passava. Stavo per chiedergli quali erano queste buone ragioni e per quale motivo non poteva accennarmi niente al telefono, ma qualcosa mi trattenne. Così dissi va bene, ci saremmo visti da me lunedì alle otto e mezza, e chiudemmo la comunicazione.

Rimasi qualche minuto a chiedermi di cosa potesse trattarsi. Non trovai una risposta e alla fine tornai al mio ricorso per cassazione.

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Pagina 47

Sei



In strada l'aria era fredda, soprattutto per via del maestrale.

Non avevo voglia di andarmene a casa, non avevo voglia di rintanarmi nella solitudine, che a volte si dilatava un po' troppo nelle stanze del mio appartamento. Avevo bisogno di far svaporare gli umori cattivi e tristi, prima di andare a dormire. Secondariamente, avevo anche bisogno di mangiare qualcosa di nutriente e di bere qualcosa di confortevole. Così decisi di andare al Chelsea Hotel.

Non il famoso albergo in mattoni rossi, sulla ventitreesima strada a Chelsea, Manhattan, ma un locale - nel quartiere San Girolamo, Bari - che avevo scoperto poche settimane prima e che era diventato il mio posto preferito per le sere che non avevo voglia di trascorrere a casa.

Da quando mi ero trasferito nel nuovo studio avevo preso l'abitudine di fare lunghe passeggiate notturne in zone sconosciute della città. Uscivo, come quella sera, dopo le dieci, mangiavo velocemente un panino, una fetta di pizza o del sushi e poi mi incamminavo, con il passo di chi ha un posto preciso da raggiungere e non ha tempo da perdere. In realtà non avevo nessun posto preciso da raggiungere, anche se molto probabilmente cercavo qualcosa.

Queste passeggiate sostituivano l'allenamento di pugilato quando proprio non ne avevo voglia, ma erano soprattutto un'esplorazione della città e della mia solitudine. Ogni tanto mi fermavo a pensare a quanto si fossero rarefatti i miei rapporti sociali, da quando Margherita se n'era andata; e più ancora da quando mi aveva comunicato che non sarebbe tornata.

Avevo nostalgia della mia vita precedente - anzi delle mie vite precedenti. Quelle più o meno normali. Di quando ero sposato con Sara o di quando, appunto, c'era Margherita. Ma era una nostalgia leggera, senza sofferenza. O almeno: con un grado di sofferenza tollerabile.

Talvolta pensavo che mi sarebbe piaciuto incontrare una persona che mi piacesse come mi erano piaciute loro, ma mi rendevo conto che non era un'ipotesi realistica. 11 pensiero mi metteva un po' di tristezza, ma anche questa era sopportabile, di regola. E quando, a volte, quella tristezza aumentava, e sconfinava pericolosamente nell'autocommiserazione, mi dicevo che non potevo lamentarmi. Avevo il lavoro, lo sport, qualche viaggio da solo, qualche uscita, ogni tanto, con amici cortesi e distanti. E poi i libri, naturalmente. Mancava qualcosa, certo. Ma io ero uno che da piccolo restava molto impressionato, quando gli dicevano di pensare ai bambini dell'Africa che muoiono di fame.


Qualche settimana prima ero uscito dallo studio verso le dieci di sera, dopo una giornata di pioggia ininterrotta. Avevo preso uno yogurt al tè verde al negozio etnico che rimane aperto fino a tardi e mi ero incamminato, mangiando, verso nord.

Mangiare per strada mi piace molto. Nelle condizioni, giuste - come in quelle passeggiate notturne - mi restituisce ricordi di quando ero ragazzo. Ricordi nitidi, intatti e senza malinconia. A volte mi dà addirittura una specie di euforia, come se si producesse un corto circuito del tempo e io fossi quello di allora, con un sacco di prime volte davanti a me. Che è un'illusione, ma non è niente male lo stesso.

Costeggiai la recinzione infinita del porto, percorrendo viale Vittorio Veneto lungo la pista ciclabile. La città, dopo tutta quella pioggia, sembrava coperta da una lacca nera e lucida. Niente biciclette, niente pedoni, poche macchine. Era uno scenario da Blade Runner, e questa sensazione diventò ancora più forte quando m'infilai nelle strade deserte e livide che si sparpagliano tra la Fiera del Levante, un gigantesco plesso industriale abbandonato da decenni, e l'ex macello comunale diventato biblioteca nazionale, i cui cortili sembrano quadri di De Chirico. Non ci sono bar, ristoranti o negozi, da quelle parti. Solo officine, depositi, magazzini deserti, autorimesse, ciminiere inattive, cortili di fabbriche chiusi da decenni e pieni di erbe selvatiche, cani randagi, gufi, e inafferrabili volpi urbane.

L'inquietudine che emanano quei posti ha un effetto curiosamente benefico su di me. Come se mi prosciugasse della mia personale inquietudine, attirandola nel suo cupo vortice; come se l'indistinta paura di un pericolo esterno mi liberasse della paura, peggiore e meno controllabile, di un pericolo interno. Quando faccio di queste passeggiate, in posti deserti e spettrali, poi mi addormento come un bambino e normalmente mi sveglio anche di buon umore.

Ero nel mezzo della no man's land ai confini fra quartiere Libertà e quartiere San Girolamo quando, in una stradina laterale, nel pieno dell'oscurità bagnata e un po' lurida, vidi un'insegna luminosa blu e rossa, simile a un vecchio neon anni Cinquanta.

Era un bar, e sembrava scaraventato lì, fra i capannoni industriali, le officine e il buio, da un posto lontano e da un tempo lontano.

Il nome sull'insegna era Chelsea Hotel n. 2, cioè il titolo di una delle mie canzoni preferite, e dall'interno veniva una luce verde e fioca, per via dei vetri smerigliati che erano appunto verdi, e spessi.

Entrai e mi guardai attorno. L'aria aveva un buon odore: di cibo, di pulito e, leggermente, di spezie. Era come l'odore di certe case, caldo e asciutto e confortevole.

Il locale era arredato con pezzi di modernariato americano coerenti con il neon dell'insegna e disposti in modo apparentemente casuale. In realtà, pensai guardandomi attorno, di casuale in quell'arredamento c'era ben poco. Doveva averci lavorato qualcuno che sapeva cosa stava facendo e gli - o le - piaceva farlo. Le pareti erano tappezzate di manifesti di film. Alcuni di quelli più vecchi sembravano originali e avevano un'aria preziosa.

C'era musica a un volume accettabile - io odio la musica a tutto volume, a parte alcune rare circostanze - e parecchia gente, considerata l'ora, e qualcosa nell'aria che riuscii a decifrare solo mentre mi sedevo al banco, su uno sgabello alto di legno e pelle.

Il Chelsea Hotel n. 2 era un locale gay. In quell'istante di epifania mi ricordai di quando, anni prima, mi avevano spiegato che la zona più vivace e affollata della scena gay di New York era appunto il quartiere di Chelsea. E dunque - mi dissi in un sottovoce mentale - il nome del locale in cui ero entrato, così deliberatamente americano, non era casuale e non dipendeva (solo) da una passione per Leonard Cohen.

C'era un tavolo con due ragazze che si tenevano la mano, parlavano fitto e ogni tanto si baciavano. Mi ricordarono le due Giovanne, amiche di Margherita, esperte di arti marziali e paracadutiste. Anzi per qualche istante mi chiesi se fossero proprio loro, prima di considerare che le due Giovanne non erano le sole lesbiche della città.

Gli altri tavoli erano a prevalente, quasi esclusiva presenza maschile.

D'un tratto mi sentii proiettato in una famosa scena del film Scuola di polizia. Quella in cui le due reclute sceme finiscono in un locale gay sadomaso e si ritrovano a ballare un lento con degli energumeni muniti di baffoni, cappelli nazi e tute di pelle nera. Mi chiesi quanti di loro sarei stato capace di buttare giù prima di essere inevitabilmente sopraffatto e posseduto.

Va bene, ho esagerato. La situazione in realtà era normalissima, la musica non erano i Village People (mentre facevo le mie riflessioni scivolava molto sobriamente, in sottofondo, Dance me to the end of love) e nessuno era vestito in stile, anche solo lontanamente, sadomaso.

Detto questo, però, la mia posizione si prestava a qualche equivoco. Mi figurai di incontrare qualcuno che conoscevo — magari un collega o un magistrato — e di come avrei cercato di spiegargli che ero finito lì solo per via della mia abitudine di fare lunghe passeggiate notturne nelle zone degradate della città.

Cercai di ricordarmi quali fossero gli avvocati e i giudici gay che conoscevo. Me ne vennero in mente cinque e registrai con sollievo che nessuno di loro era lì dentro.

Poi, subito dopo questo screening demenziale, mi dissi che dovevo essere leggermente rincoglionito. Nonostante la situazione fosse, come dire, un po' atipica, non era nemmeno normale che mi guardassi attorno con quell'aria preoccupata e vagamente furtiva, come se l'insegna di quel posto fosse stata CRAL Omosessuali Giustizia o qualcosa di simile.

Mentre stavo pensando a una disinvolta strategia di uscita — da quel posto e possibilmente anche dal mio rimbambimento — una voce sovrastò le note di Leonard Cohen facendo sfumare per sempre la possibilità che il mio passaggio al Chelsea Hotel n. 2 passasse inosservato.

«Avvocato Guerrieri!».

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Pagina 157

«Che razza è questa bestiola?».

«L'unica razza riconosciuta di origine pugliese».

«E quale sarebbe questa razza pugliese? Il demonio delle Murge?».

«È un cane corso».

«E dunque...».

«... che non significa cane della Corsica. Corso viene dal latino cohors, che vuoi dire cortile, recinto. Il cane corso è il discendente degli antichi molossi pugliesi. Gli antenati di Pino facevano la guardia ai cortili delle masserie, in Puglia, Basilicata, Molise. Oppure lottavano con gli orsi e i cinghiali».

«Sono sicuro che né gli orsi né i cinghiali erano contenti di questa opportunità. Lo hai preso perché ti piacciono i cani da salotto?».

«Scemo. Me lo ha regalato un'amica che fa l'addestratrice e la rieducatrice di cani».

«Rieducatrice di cani?».

«Sì, Pino era un cane da combattimento. Fu sequestrato dai carabinieri, assieme a tanti altri, durante un'indagine sulle scommesse clandestine».

«Una volta ho fatto un processo per una storia di combattimenti clandestini».

«Difendi quei disgraziati che fanno massacrare i cani?».

«Veramente difendevo un'associazione per la difesa degli animali che si era costituita parte civile».

«Ah, meno male. Stavo già pensando di liberare Pino e di farti discutere la questione direttamente con lui».

«Sei sicura che portarsi in giro un cane da combattimento sia una cosa prudente?».

«La mia amica Daniela rieduca questi cani. Glieli affidano in custodia - lei ha un canile - e lei li decondiziona, li trasforma in cani da compagnia».

«Li decondiziona? La tua amica fa questo di mestiere?».

«Ha una pensione e una scuola per cani: li addestra. Educazione di base - cose tipo: seduto, a terra, al piede - o addestramento alla guardia e alla difesa. E poi rieduca i cani criminali, come li chiama lei».

«Cane criminale mi sembra una definizione adeguata a questo elemento».

«Pino adesso è buonissimo e non farebbe male a una mosca».

«Sono sicuro che non è interessato alle mosche» dissi, lanciando uno sguardo al mostro nero che continuava a guardarmi come se fossi stato una bistecca.

Arrivammo sul lungomare dalla parte di casa mia. Nadia si fermò sulla rotonda vicina all'Albergo delle Nazioni e abbassò il finestrino. Non c'era vento e sembrava che la pioggia si stesse esaurendo. Si accese una sigaretta e se la fumò in un modo che mi fece rimpiangere di avere smesso. Poi parlò senza guardarmi.

«Forse ti ho messo in imbarazzo, dicendoti di andarcene insieme. Magari non hai tutta questa voglia di andartene in giro con una ex puttana. Che poi in questo campo non si è mai ex. Se una è stata puttana lo è per sempre».

«Un'altra battuta del genere e me ne vado».

Si voltò verso di me. Fece un ultimo tiro e buttò fuori la cicca.

«Ho detto una cazzata?».

«Credo di sì».

Lei registrò la risposta. Poi tirò fuori un'altra sigaretta, ma non l'accese.

«Sta smettendo di piovere».

«Bene. A me non piace la pioggia».

«Ti va di fare due passi? Così facciamo sgranchire le gambe anche a Pino».

«Basta non fargli sgranchire le mascelle».

Scendemmo dall'auto, Nadia aprì il portellone posteriore e fece scendere l'Assassino. Libero e senza museruola.

«È una buona idea lasciarlo andare così, senza guinzaglio? D'accordo che oggigiorno fanno miracoli con le protesi, ma se sbrana un bambino o una vecchietta sono pur sempre seccature».

Nadia non mi rispose e invece sussurrò al cane qualcosa che non riuscii a sentire. Certo è che quando cominciammo a camminare la belva ci seguì, subito dietro alla gamba sinistra della padrona, come legata da un guinzaglio teso e invisibile.

L'andatura era quasi ipnotica e sembrava quella di un grande felino piuttosto che quella di un cane.

La testa, mancante quasi del tutto di un orecchio, aveva le dimensioni di una piccola anguria, e sotto il pelo lucido e nero guizzavano muscoli come cordoni. Tutto l'insieme comunicava l'idea di una forza disciplinata e letale.

Percorremmo in silenzio qualche centinaio di metri mentre anche le ultime gocce di pioggia smettevano di cadere.

«Perché lo hai chiamato Pino? Non è un nome comune per un cane, e soprattutto per un cane del genere».

«È stata Daniela a chiamarlo così. Dà sempre dei nomi umani ai cani che rieduca. Credo che le semplifichi psicologicamente il lavoro».

«Quanti anni ha?».

«Tre. Sai per quale motivo mi piace che questo cane sia con me?».

«Dimmi».

«Mi ricorda sempre che si può cambiare e diventare qualcosa di completamente diverso da quello che si era prima».

Annuii. Lei si fermò e il cane, obbedendo a un comando silenzioso, si sedette disciplinatamente al suo fianco.

«Vuoi accarezzarlo?».

Stavo per fare l'ennesima battuta sulla pericolosità del cane ma all'ultimo momento mi fermai e dissi semplicemente di sì. Lei si rivolse all'Assassino, gli disse che ero un amico ed ebbi quasi l'impressione che il cane facesse un lieve cenno di assenso col capo.

«Prima di accarezzarlo tengo a dirti che mi rifiuto di chiamarlo Pino. Capisco lo spirito che anima la tua amica nella scelta dei nomi, ma davvero non posso chiamarlo così».

«E come vuoi chiamarlo?».

«Sarebbe piaciuto a Conan Doyle. Lo chiamerò Baskerville, se non hai nulla in contrario».

Lei si strinse nelle spalle e sollevò le sopracciglia, nel modo che si fa trattando uno un po' svitato.

Mi avvicinai al cagnone e gli accarezzai la testa, che aveva la concretezza di un masso e che la mia mano aperta non riusciva a coprire per intero.

«Ciao Baskerville, allora non sei cattivo come sembri?».

Pino-Baskerville mi guardò con quegli occhi che a distanza sembravano terribili e da vicino invece erano pieni di una dolcezza triste. Lo grattai dietro l'orecchio superstite, poi scesi ancora verso la giogaia nera, lucida e soffice. Allora il cane socchiuse gli occhi e lentamente alzò la testa, come per lanciare un ululato malinconico, offrendomi la gola, scoperta e indifesa.

E, come diceva quel signore francese, a un tratto il ricordo mi apparve.

Alzare la testa, offrire la gola in quel modo, era un gesto che faceva Marcuse, il pastore tedesco di mio nonno Guido, più di trent'anni prima.

Non è che i ricordi si dissolvano e scompaiano. Sono tutti lì, nascosti sotto la crosta sottile della coscienza. Anche quelli che credevamo perduti per sempre. A volte ci restano per tutta la vita, lì sotto. Altre volte invece succede qualcosa che li fa ricomparire.

Un biscotto inzuppato nell'infuso di tiglio o un grosso cane dagli occhi malinconici che offre la sua gola alle carezze, per esempio.

Quell'atto canino di totale e commovente fiducia evocò un'alluvione di memorie che, come guidate da un preciso disegno, in pochi istanti si collocarono in una mappa unitaria e coerente di quel lontano passato.

Non ero mai riuscito a richiamare i ricordi dell'infanzia se non a pezzi slegati fra loro, come indecifrabili relitti galleggianti sulla superficie.

Adesso, invece, tutto andava al suo posto in una misteriosa sincronia di immagini, suoni, odori, nomi e oggetti concreti. Tutto insieme.

Il mangiadischi, il mottarello, le penne a quattro colori, Pippi Calzelunghe, le magliette Fruit of the Loom, Crocodile rock, il Corriere dei ragazzi, Rintintin, Ivanhoe, La freccia nera, E le stelle stanno a guardare, Hit parade, Mille e una sera con la sigla dei Nomadi, Gli eroi di cartone con la sigla di Lucio Dalla, Attenti a quei due con Tony Curtis e Roger Moore, la graziella cross gialla e arancione con il sellone, il subbuteo, gli oro saiwa calati nel latte quattro alla volta, il profumo dello zucchero filato alla Fiera del Levante, i ghiaccioli che lasciavano la lingua colorata, i rotolini di liquirizia, Capitan Miki, Paperinik, Tex Willer, I Fantastici Quattro, Sandokan, Tarzan, buttare le fialette puzzolenti nei negozi e poi scappare via molto veloci, la Prinz verde che portava sfiga, Mafalda, Charlie Brown e quella ragazzina che non aveva i capelli rossi e però era vera e non si è mai accorta di me, la gomma pane, le partite a pallone con il super santos dopo la scuola, il club di Topolino, il flipper, il biliardino, quel bambino come noi che non ebbe il tempo di dimenticarsi tutte queste cose perché il papà ebbe un colpo di sonno mentre tornavano dalle vacanze sulla loro Fiat 124, i cappelli con i copri orecchie, il lego, il monopoli, giocare con le figurine dei calciatori, il primo canale, il secondo canale e basta, la tv dei ragazzi, la coccoina, la focaccia, il latte della centrale, la luce fioca della cucina dei nonni, i sussidiari, cartelle di plastica, astucci con le matite, odore di bambini, di merendine, di cera pongo, silenzio nel cortile dopo la ricreazione, lego e soldatini, le caramelle Rossana, filmini in superotto, diapositive, le feste di compleanno con le focaccine e i succhi di frutta, le polaroid, le figurine dei calciatori, la pista del pattinaggio a rotelle alla pineta, Carosello, la pasta al forno dai nonni la domenica.

La luce che filtrava attraverso la porta socchiusa della mia cameretta, i rumori della casa sempre più attutiti e per ultimi, sempre, i passi leggeri di mia madre mentre mi addormentavo.

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Pagina 228

«A me piace leggere, ma mi è sempre stato più facile immedesimarmi nei personaggi dei film. Il cinema è la cosa che amo più di ogni altra. Amo tutto del cinema, e più di tutto quel momento, quando si spengono le luci in sala e il film sta per cominciare».

Aveva ragione. Quando si spengono le luci e tutto sta per accadere è un momento perfetto. Per un po' non dicemmo altro. Io lasciai vagare lo sguardo sui manifesti dei film appesi alle pareti.

«Ma dove li compri?» chiesi dopo qualche minuto.

«Premetto che sono quasi tutti originali. Solo alcuni di quelli più vecchi sono riproduzioni. Ho cominciato a collezionarli parecchi anni fa, e allora bisognava andare per rigattieri, vecchi distributori di film, librerie del cinema. Adesso si trova tutto su internet. Però a me piace ancora andare in giro a trovarli in quei posti polverosi».

C'era di tutto: da La dolce vita a Manhattan, da Nuovo Cinema Paradiso a L'attimo fuggente, con Robin Williams portato in trionfo dai ragazzi, su uno sfondo giallo che sembrava oro sbalzato.

«Sarò banale, ma alla fine di quel film, quando i ragazzini salgono in piedi sui banchi, ho dovuto fare uno sforzo pazzesco per non mettermi a piangere» dissi indicando quel manifesto.

«Io sono molto più banale di te e mi sono risparmiata lo sforzo. Ho pianto come una bambina. E quando ho rivisto il film, ho pianto di nuovo esattamente nello stesso modo».

«C'è una frase che io mi ricordo sempre di quel film...».

«Capitano mio capitano...».

«... il nostro viaggio tremendo è finito. Ma non intendevo quella».

«Quale, allora?».

«Una cosa che Keating-Williams dice ai ragazzi: qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo».

«Sarebbe bello se fosse vero».

«Forse è vero».

Lei fece la faccia seria di una che prende atto di qualcosa, e le fa piacere.

«Mi piacciono i film commoventi».

«Anche a me».

«Io ne conosco più di te».

«Facciamo una gara?».

«Va bene. Comincia tu».

«Il postino, con Massimo Troisi e Philippe Noiret».

«La vita è bella, di Benigni. La mia scena preferita è quella in cui lui cita Il grande dittatore di Chaplin».

«Se parliamo di Chaplin allora: Luci della città».

«Beau geste».

«Con Gary Cooper?».

«Sì».

«Hai ragione, è il vero melodramma».

«Tocca a te».

«Momenti di gloria. La mia scena preferita è quella in cui l'allenatore Moussabini, che non ha avuto il coraggio di andare allo stadio, vede dalla sua stanza d'albergo la bandiera inglese che sale in alto, capisce che Abrahams ha vinto, si mette a piangere e sfonda la sua paglietta con un pugno di gioia».

«Million Dollar Baby. Clint Eastwood è un genio e, decisamente, anche il mio tipo».

«Braveheart, con Mel Gibson. La scena finale. Lui è sul patibolo e grida libertà, mentre il boia è già pronto con la scure. Qualche istante prima dell'esecuzione, vede la sua donna che arriva camminando tra la folla. Lei lo guarda a distanza e gli sorride e anche lui sorride, un attimo prima della fine».

«Ghost».

«Il gladiatore».

«Il miglio verde».

«Schindler's List».

«Vai sul pesante, eh? Come eravamo, tutto, e soprattutto la scena finale, e la colonna sonora».

«Nuovo Cinema Paradiso. La sequenza dei baci censurati».

«È vero, è meravigliosa. Secondo me l'Oscar lo ha vinto proprio per quella trovata, è la tipica cosa che fa impazzire gli americani. Che ne dici della scena finale di Thelma e Louise?».

«Vero! Grandissima. In quel film c'è anche una battuta che ho sempre sognato di poter dire, un giorno o l'altro».

«Che battuta?».

«Harvey Keitel sta interrogando Brad Pitt e per convincerlo a parlare gli dice: "Ragazzo, la tua infelicità sarà la mia missione nella vita". Questa è una minaccia come si deve».

«Comunque adesso tocca a te».

«Jesus Christ Superstar. Maria Maddalena che canta vicino alla tenda di Gesù, mentre lui dorme».

«I don't know how to love him». Mentre lei pronunciava il titolo della canzone di Maria Maddalena, la prostituta, innamorata di Gesù Cristo, mi resi conto della gaffe.

Lei non ci fece caso. Anzi, ci fece tanto caso da renderla irrilevante.

«Puoi capire bene che quella è una scena in cui mi sono immedesimata molto».

A quel punto, inevitabilmente, ci fu una pausa.

«E va bene, io mi immedesimavo in Maria Maddalena. E tu?» disse infine Nadia.

«A me è successo di identificarmi contemporaneamente nei due protagonisti di Philadelphia, Denzel Washington e Tom Hanks».

«Dio, quella sequenza finale in cui sono montati i filmini in super otto di Tom Hanks bambino! Me la ricordo come se ce l'avessi davanti. L'altalena, i bambini che giocano sulla spiaggia, la mamma con quegli abiti degli anni Sessanta e il fazzoletto in testa, il cane, lui vestito da cowboy... la musica di Neil Young. È straziante in modo insopportabile».

«La scena finale è la più commovente, ma la mia preferita è quella del processo, quando Denzel Washington interroga Tom Hanks».

«Perché è la tua preferita?».

«Se vuoi posso recitartela, così forse si capisce».

«In che senso: recitartela? Mica te la ricordi a memoria?».

«Più o meno».

«Non ci credo».

«Te la ricordi la storia, ovviamente?».

Mi guardò come un giocatore del Grande Slam cui qualcuno abbia chiesto se si ricorda come si fa il rovescio. Alzai le mani in segno di resa.

«Va bene, scusa. Allora, siamo al momento cruciale del processo e Denzel Washington interroga Tom Hanks, che nel film si chiama Andrew. È già in una fase avanzata della malattia e non gli resta molto da vivere.

«"Lei è un buon avvocato?".

«"Io sono un eccellente avvocato".

«"Cosa la rende un eccellente avvocato?"

«"Amo il diritto".

«"Cosa le piace del diritto?".

«"Molte cose... (poi si confonde, è malato, è stanco)

cosa mi piace di più del diritto?".

«"Sì".

«"Il fatto che una volta ogni tanto, non sempre, ma a volte, diventi parte della giustizia. La giustizia applicata alla vita".

«"Grazie, Andrew"».

Dopo qualche istante di silenzio sospeso, Nadia prese a battere le mani.

Non facevo quel giochetto da un sacco di tempo. Tanti anni prima mi riusciva molto facile ripetere a memoria le parole dei film, delle canzoni, dei libri, delle poesie. Poi, per molte ragioni, avevo cominciato a trovarlo sempre più difficile.

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Trentatré



Feci brutti sogni e al risveglio non trovai nessuna buona idea. Mi tirai su dal letto molto di malumore e la situazione peggiorò quando mi ricordai del mio impegno di quella mattina.

Avevo appuntamento in procura con un mio cliente, medico, professore universitario, barone, e accusato di aver truccato un concorso per piazzare un suo portaborse. L'altro candidato era uno studioso di fama internazionale che per anni aveva lavorato in università e centri di ricerca americani e che a un certo punto aveva deciso di tornare in Italia.

Al primo concorso per la sua materia aveva presentato domanda, ignorando che quel posto era già assegnato prima ancora che il concorso fosse bandito. Il vincitore predestinato era un giovane ricercatore, del tutto decerebrato ma figlio di un altro professore della stessa facoltà soprannominato negli ambienti accademici, per la sua inflessibile dirittura morale, Pierino l'ingordo.

La sproporzione di titoli scientifici fra i due candidati — ovviamente tutta a favore del non raccomandato — era quasi grottesca. Il dettaglio però non aveva impressionato la commissione e il giovane decerebrato aveva vinto il concorso. L'altro non se l'era tenuta: aveva impugnato al TAR — vincendo il ricorso — e aveva fatto anche denuncia in procura.

Il mio cliente dunque aveva ricevuto un invito a comparire, con l'accusa di abuso d'ufficio e falso, e io gli avevo suggerito di avvalersi della facoltà di non rispondere. Le prove a suo carico erano poche e accettare di sottoporsi all'interrogatorio — visto che fra l'altro il sostituto procuratore era una ragazza molto sveglia e certamente più intelligente di lui — poteva solo aggravare la sua situazione.

In quel caso, come in molti altri a dire il vero, avevo la precisa sensazione di essere dalla parte sbagliata. In quel caso, come in altri, mi ero domandato se davvero volevo accettare quell'incarico e quel cliente. Mi ero risposto che non volevo e poi li avevo accettati lo stesso. Questione di cui avrei dovuto discutere con il mio psichiatra, se ne avessi avuto uno.

Pedalando verso il tribunale pensavo che era la mattina meno adatta per incontrare quel tizio: era sicuramente colpevole di un reato che trovavo odioso, era un untuoso trombone e soprattutto portava i mocassini con le nappe.

Ci sono alcune cose su cui sento di dover essere spietato. Fra queste, appunto, i mocassini con le nappe; ma anche il laccio per appendere gli occhiali, le penne cartier, il fermasoldi, il borsello di finta pelle, i cardigan con le trecce, i braccialetti da uomo in oro massiccio, lo spray per l'alito.

Su queste premesse, quando ci incontrammo davanti all'ufficio del pubblico ministero, qualche minuto prima dell'orario fissato per l'interrogatorio, non ero nella migliore disposizione di spirito. Dopo un saluto e qualche convenevole senza cordialità (perlomeno da parte mia), mi disse di avere molti dubbi sulla decisione di avvalerci della facoltà di non rispondere. Pensava di poter spiegare tutto quello che era necessario e gli sembrava che rifiutarsi di rispondere fosse quasi un'ammissione di colpa e comunque un comportamento da criminale, non consono alla sua posizione.

La tua posizione di vecchio trombone e accademico da retrobottega, pensai, mentre mi montava dentro un'irritazione del tutto sproporzionata, perché in fondo quello stava esprimendo una perplessità legittima. Ma per sua sfortuna era la persona sbagliata, nella mattina sbagliata, e soprattutto con le scarpe sbagliate.

«Mi sembra che ne avessimo già discusso, professore. Conoscendo il pubblico ministero e considerata la fase in cui si trova il procedimento, confermo il mio consiglio: lei dovrebbe avvalersi della facoltà di non rispondere. Naturalmente la scelta è sua, quindi, se lei ritiene di comportarsi diversamente, io non posso impedirglielo. Se lo fa, però, sappia che per me è un grave errore e che mi riservo la facoltà di rinunciare all'incarico».

Io stesso, dopo aver finito di parlare, mi stupii per la mia aggressività. Lui per qualche istante rimase in silenzio, interdetto, quasi spaventato, non sapendo come comportarsi. La sua pomposa tromboneria baronale lo avrebbe naturalmente indotto a rispondermi per le rime, in altre circostanze. Ma eravamo in procura, cioè uno dei luoghi più intimidatori che esistano, lui era un indagato e io ero il suo avvocato. Non era nelle condizioni ideali per fare il duro con me. Alla fine sospirò.

«Va bene, avvocato, facciamo come dice lei».

A quel punto, non essendo un campione di coerenza, mi sentii in colpa. L'avevo maltrattato abusando della mia posizione di potere: una cosa che non si dovrebbe fare mai. Il mio tono diventò molto più mite e quasi solidale.

«È la cosa migliore, professore. Poi vediamo le prossime mosse del pubblico ministero e se necessario facciamo sempre in tempo a preparare una memoria nella quale scriviamo tutto quello che vogliamo, per difenderci».

Poco dopo entrammo nell'ufficio del pubblico ministero, ci avvalemmo della facoltà di non rispondere e cinque minuti dopo ero per strada, sulla via dello studio.

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