Autore Gianrico Carofiglio
Titolo La regola dell'equilibrio
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Stile Libero Big , pag. 282, cop.fle., dim. 13,8x21,6x2,2 cm , Isbn 978-88-06-21812-6
LettoreGiangiacomo Pisa, 2014
Classe gialli












 

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Pagina 3

Uno


Era forse il dieci di aprile. L'aria era fresca, tersa. Spirava una brezza profumata molto rara in città, il sole e la sua luce si spandevano liquidi su di noi e sulla facciata grigia del tribunale. Carmelo Tancredi e io eravamo vicini all'ingresso, chiacchieravamo.

- A volte penso di smettere, - dissi appoggiandomi al muro. L'intonaco era scrostato e una ragnatela di piccole crepe si estendeva in modo preoccupante verso l'alto.

- Smettere cosa? - mi chiese Tancredi togliendosi di bocca il sigaro.

- Di fare l'avvocato.

- Scherzi? - disse lui, con un lieve, inconsapevole scatto del mento.

Mi strinsi nelle spalle. In quel momento passarono due giudici. Non si accorsero di me e io fui contento di non doverli salutare.

- Li conosci? - dissi indicando con un cenno del capo la porta a vetri dietro la quale i magistrati erano scomparsi un attimo prima.

- Ciccolella e Longo? So chi sono, non direi che li conosco. Una volta sono andato a deporre in udienza davanti a Ciccolella, ma è stata una cosa rapida.

- Qualche giorno fa ero in ascensore proprio con lui. C'erano anche due praticanti e quell'avvocatessa sempre vestita come se dovesse andare a un veglione di capodanno cinese.

Tancredi ridacchiò. Aveva capito subito di chi stavo parlando.

- La Nardulli.

- La Nardulli, appunto. È strana ma è una persona per bene, mi fa quasi tenerezza. Difende gratis un sacco di disperati.

- Vero. Quando abbiamo bisogno di un difensore d'ufficio e non si trova nessuno lei è sempre disponibile, anche se non ci guadagna niente. E allora?

- L'ascensore arriva al piano terra e io mi scosto per farla passare; era l'unica donna li dentro. Lei sta per uscire, traballando su quei tacchi assurdi, quando Ciccolella le passa davanti, la urta, quasi la fa cadere, poi la guarda per qualche istante ed esclama: avvocato! Con tono di rimprovero, come per dirle: avresti dovuto spostarti, non avresti nemmeno dovuto provare a passare prima di me. Io sono un giudice, nel caso non lo sapessi. Poi si gira e se ne va senza salutare nessuno.

- Simpatico.

- Lo ha fatto apposta, a urtarla. Io mi sono sentito una merda. Sarei dovuto intervenire, dirgli che non sono modi quelli, che era un villano. Ma naturalmente non l'ho fatto. Poi ci ho rimuginato su. In studio mi hanno visto parlare da solo almeno tre volte, quel giorno. Mi capita sempre piú spesso.

- Tanto i tuoi clienti lo sanno che sei pazzo. Cosa ne è venuto fuori da queste rimuginazioni? Si dice: rimuginazioni?

- Credo di no.

Arrivò una macchina della polizia, ne scesero due tipi dall'aria poco rassicurante, salutarono Tancredi, che rispose con un cenno, ed entrarono.

- Ho pensato che prima era diverso, - ripresi, - che questa maleducazione, questo livello di volgarità non c'erano, quando ho cominciato, piú di vent'anni fa. Mi è parso di ricordare che i rapporti nell'ambiente fossero meno brutali, meno... volgari, appunto. Poi mi sono interrotto, mi sono pizzicato e mi sono detto che stavo rimbambendo, che stavo facendo quello che avevo sempre trovato patetico negli altri.

- Rimpiangere il passato?

- Già. Rimpiangere il passato come se fosse l'età dell'oro. Uno rimpiange la propria giovinezza e magari quando ci stava in mezzo pensava che fosse uno schifo. Sai, l'incipit di quel romanzo di Paul Nizan: «Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questo è il periodo migliore della vita».

- Conosco la frase, ma non ho letto il libro. Come hai detto che si chiama l'autore?

- Paul Nizan, uno scrittore francese.

Mi spostai un po', scivolando contro il muro, in modo che il sole mi arrivasse in faccia. Cercai una posizione di appoggio, la piú comoda possibile, e socchiusi gli occhi.

- A volte penso a quando immaginavo quello che mi sarebbe accaduto nel futuro. Un viaggio, la laurea, il matrimonio, il mio primo processo in cassazione, un sacco di cose. Quei momenti, i momenti in cui immaginavo il futuro, mi sembrano vicinissimi. Invece le cose che mi immaginavo e sono davvero accadute mi appaiono lontanissime. Il mio futuro è sprofondato nel passato.

- Ho sentito spiegazioni piú chiare.

- Ma hai capito, sí?

- Solo per la mia intelligenza fuori del comune.

Si spostò anche lui con la faccia al sole. Diede un paio di tiri con il sigaro.

- Come descriveresti l'odore del toscano? - gli chiesi.

- Non mi dire che ti dà fastidio. Sto riducendo sempre di piú la mia cerchia di amicizie per incompatibilità: la mia incompatibilità con la loro intolleranza verso il toscano.

- Non mi dà fastidio. Cioè, non molto.

Tancredi si portò una mano sul viso e la passò contropelo sulla corta barba che aveva da qualche mese.

- Gli esperti dicono che l'odore - anzi, loro dicono: l'aroma - del toscano è un misto di cuoio bagnato, di pepe, di vecchio barile di brandy, di legno stagionato. A furia di sentirlo ripetere mi sono convinto di percepirli anch'io, questi odori. A parte il vecchio barile di brandy, naturalmente. Non ne ho mai visto né annusato uno.

- Pepe, legno stagionato, barile di brandy, cuoio...

- Bagnato, cuoio bagnato.

- Cuoio bagnato... Divento matto per queste cose. Come le descrizioni dei sommelier. Mi sento sempre un cretino quando sono a tavola con qualcuno che dice cose del tipo: sensazione fruttata, sentore di cioccolato e liquerizia, tannini. Io bevo il vino, ma queste cose non le sento.

- Non hai mai fumato il toscano?

- Mai. Per parecchi anni, forse te lo ricordi, le sigarette. Poi niente. Mai sigari, mai pipa, grazie al cielo.

Si stava bene appoggiati a quel muro, con quel senso di pulizia dell'anima che solo certe giornate di primavera sono capaci di risvegliare. Pensai che sarebbe stato bello andare in qualche posto in campagna, stendere una coperta sul prato, leggere, mangiare dei panini, chiudere gli occhi e ascoltare i mormorii della natura.

- Hai voglia di sentire una storia?

Fece un gesto con la mano, come per dire: prego, accomodati.

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Mi interruppe quasi con rabbia. Come se non avesse aspettato altro che una frase come la mia per dire davvero quello che gli si agitava dentro.

- Guido, io non mi fido dei miei colleghi, e ancor meno mi fido di quelli delle procure. Il modo in cui ho fatto il magistrato in questi anni non mi ha attirato le loro simpatie. A loro piacciono i giudici che si appiattiscono, in maniera piú o meno elegante, sulle loro posizioni. Il rispetto intransigente delle norme non gli piace. È sempre stato cosí. Ho sempre avuto paura che trovassero uno pseudopentito compiacente che li aiutasse a darmi una lezione. A farmi pagare tutti gli annullamenti sacrosanti, tutte le demolizioni di assurdi teoremi indiziari. Era un'idea che mi ossessionava da anni, da prima ancora che andassi a presiedere il tribunale del riesame.

- Però io non credo che...

- Lasciami finire, scusa. Bada bene che non dico si tratti di un'accusa costruita dal nulla a tavolino. Sarebbe troppo banale. Lo scenario molto verosimile che io mi immagino - quello che emerge dalla lettura dei verbali di tanti collaboratori, dall'analisi del modus operandi di questi della procura - è più complesso.

Mi colpi che avesse detto modus operandi per parlare del lavoro della procura. Modus operandi è l'espressione che di solito, in contesti investigativi e criminologici, viene usata per indicare lo stile operativo e i tratti caratteristici di un criminale o di una categoria di criminali. Non so se lo avesse fatto in modo consapevole, ma non avrebbe potuto scegliere un modo piú efficace per esprimere il proprio disprezzo.

- Si presenta uno di questi delinquenti che decide di collaborare, di regola perché è senza speranze processuali e si avvia a ricevere una pesante condanna; o perché qualcuno dei suoi ex amici ha deciso di ammazzarlo. Il pubblico ministero e la polizia giudiziaria che lo interrogano gli chiedono di quali argomenti sia in grado di riferire, dato che, come sai, la possibilità di ricevere i benefici della collaborazione dipende molto dall'importanza delle informazioni che può fornire, dal fatto che siano almeno in parte inedite. E fra le informazioni piú ambite ci sono quelle che coinvolgono in fatti criminali politici, pubblici ufficiali, amministratori, poliziotti, carabinieri, finanzieri e, dulcis in fundo, magistrati. L'aspirante pentito sa benissimo che il grado della sua considerazione da parte degli inquirenti, la sua importanza e dunque le sue probabilità di avere benefici e potere contrattuale aumentano se parla di cose come voto di scambio, appalti truccati e, appunto, corruzione di poliziotti e giudici. Spesso non ne sa niente, però; o almeno non sa niente di preciso perché di certe cose, ammesso che accadano anche dalle nostre parti, sono a conoscenza solo i capi, i vertici dei gruppi criminali. Il neo pentito che non abbia nulla di concreto da raccontare su questi temi, ma che su questi temi sia, come dire, sollecitato, scava nella memoria e a forza di scavare trova sempre qualcosa. Anche solo un miserabile pettegolezzo orecchiato in carcere. Magari l'effetto del millantato credito di qualche mascalzone tuo collega.

«Cosí racconta che il giudice Pinco Pallino è corrotto perché glielo ha detto il compagno di cella Tizio oppure l'avvocato Caio. Il pubblico ministero annuisce - è proprio quello che voleva sentire - e il pentito capisce di essere sulla strada giusta. Quando viene riascoltato per approfondire l'argomento, che con ogni evidenza i suoi interlocutori - gli inquirenti dai quali dipende il suo destino - considerano importante, cerca di ricordare di più, abbellisce, aggiunge qualche congettura facendola passare per conoscenza di fatti. Alla fine ne viene fuori, ben impacchettata, un'accusa fragile ma credibile, su cui occorre indagare per trovare riscontri. Per indagare e trovare riscontri ci vuole tempo. E io mi troverò incastrato in questa storia per chissà quanto e con la reputazione macchiata per sempre. Perché anche quando il procedimento sarà stato definito - archiviazione o assoluzione che sia - tutti ricorderanno che io ero il giudice accusato dal pentito di aver fatto commercio di scarcerazioni.

«Fra l'altro nei prossimi mesi diventerà vacante il posto di presidente del tribunale. Come forse immagini, avrei buone possibilità di concorrere. O forse dovrei dire: avrei avuto. Con questa pendenza, a meno che non riusciamo a chiuderla prestissimo, le mie chance sono prossime allo zero.

Di nuovo quella smorfia di disgusto, incontrollata.

Fu il mio turno di versarmi dell'altro vino, dopo aver riempito anche il suo bicchiere.

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Era una bella giornata di primavera. Alberi, nubi grandi e amichevoli, il vento, il cielo, azzurro chiarissimo e abbagliante verso il sole, intenso, quasi blu, dalla parte opposta dell'orizzonte; la calce dei trulli, il marrone delle zolle, il verde degli orti, il rosso a macchie dei papaveri, il giallo e bianco a puntini delle piccole margherite.

La giornata giusta per tornare con la memoria a quando si faceva il primo bagno ad aprile. Larocca era mai venuto con noi amici al mare? Mi sembrava di no, ma non ne ero sicuro, spesso eravamo gruppi numerosi, qualcuno arrivava, qualcun altro se ne andava e può darsi che fosse capitato, ma non me lo ricordavo.

Il piú delle volte andavamo in un posto fra Cozze e Polignano, proprio sulla strada che stavo percorrendo; Pietra Egea, si chiamava. Forse si chiama cosí anche adesso, non lo so. Non so se il nome lo avessimo dato noi o appartenesse alla toponomastica ufficiale.

A quel tempo non c'erano la superstrada e le complanari. Lasciavamo le auto su uno sterrato polveroso, attraversavamo la campagna scavalcando muretti a secco e inutili cancelli, fino a dei grandi scogli bianchi, piatti, su cui prendevamo il sole e dai quali ci tuffavamo nell'acqua limpidissima.

Senza quasi rendermene conto lasciai la superstrada, imboccai l'uscita per Cozze e percorsi la complanare alla ricerca della stradina sterrata di trent'anni prima. Non ci misi molto a trovarla, ma adesso c'erano un cancello e una rete che impedivano il passaggio. Parcheggiai l'auto, mi guardai attorno per essere sicuro che non ci fosse nessuno e, in abito grigio e cravatta regimental, scavalcai il cancello sperando che non saltasse fuori un contadino incazzato e munito di cane feroce. A parte i gabbiani, però, non c'era anima viva. Un leggero vento di scirocco portava gli odori della macchia mediterranea, che si scorgeva alla fine dei campi. Gli stessi di allora. Il ginepro, l'alloro selvatico, il cappero, il rosmarino e chissà quanti altri che nemmeno so come si chiamano.

Mi fermai un istante a riempirmi i polmoni di quel vento tiepido e profumato. Allentai la cravatta, ripresi a camminare e in pochi minuti fui agli scogli bianchi, inclinati verso il mare come scivoli per ciclopi.

Spesso, quando ritrovi un posto della tua infanzia o della tua giovinezza remota, ti sembra piú piccolo e d'un tratto le memorie perdono quella dimensione mitica nella quale per anni le avevi collocate.

Pietra Egea invece era proprio uguale ai miei ricordi. Non solo gli scogli, anche la campagna e la macchia intorno. Mi pareva di essere stato lí una settimana prima. Era una sensazione rassicurante e dolorosa a un tempo.

Non c'era nessuno in vista, nemmeno in mare. Neppure una barchetta di pescatori in lontananza. L'acqua era verde e cosí trasparente che mi venne voglia di togliermi gli abiti e tuffarmi senza pensare e senza esitare. Se esitavi, quando ancora era aprile, la paura del freddo ti fermava. È sempre la paura del freddo a fermarti. In generale, dico. Dovrebbe essere una riflessione profonda, questa? Puoi fare di meglio, Guerrieri. O forse no, forse il meglio che riesci a produrre sono queste metafore un po' didascaliche. Vabbe', tanto rimane fra noi, non è necessario che lo sappia qualcun altro.

Non feci il bagno. Troppo complicato.

Mi sfilai la giacca, mi stesi sullo scoglio, chiusi gli occhi, lasciai che il vento tiepido mi passasse sotto gli abiti, abituai l'orecchio ai ronzii lontani e ai fruscii vicini e al leggerissimo sciabordio dell'acqua.

Restai cosí per un minuto, senza pensare. Poi tornarono. I pensieri, appunto. I soliti. Dove sarei stato in quel momento se le prime analisi non fossero state sbagliate, se davvero avessi avuto quella malattia — facevo fatica a pronunciarne il nome anche solo nella mia testa: leucemia. Non era una domanda. Sarei stato in qualche stanza piú o meno asettica, piú o meno bianca, debole come un vecchio, con la nausea e gli aghi infilati nelle vene. Forse avrei già perso i capelli. Forse sarei stato sul punto di morire.

Quasi sempre pensare queste cose — ma era proprio pensare?, mi chiesi per rinunciare subito a cercare una risposta — mi lasciava addosso un senso doloroso di fragilità, di incurabile precarietà. Quella mattina, steso sullo scoglio piatto e amichevole, dolcemente uguale a sé stesso, immerso nel brulichio di tante vite invisibili e invincibili, avvertii invece un senso bruciante di meraviglia. Ero capace di camminare, di guidare la macchina, di saltare la corda, di dare pugni, fare delle flessioni, di scavalcare un cancello. Come da ragazzo.

Negli stessi anni in cui pensavo che sarei morto prima di arrivare alle medie, immaginavo anche che da grande sarei stato uno scienziato. È contraddittorio? Direi di sí. Protestate con quel bambino che aveva paura di tutto e si immaginava storie che non aveva il coraggio di raccontare. Lui non conosceva Scott Fitzgerald, ma l'adulto che sarebbe diventato un giorno lesse una frase che non avrebbe mai piú dimenticato: «Una fondamentale qualità umana è la capacità di sostenere simultaneamente due idee opposte senza perdere la capacità di funzionare». Ecco, è tutto qui.

Dunque sarei stato uno scienziato, in un laboratorio luminoso come quello di un'università americana che avevo visto in un documentario. Il campus era immerso nel verde e popolato di giovani ricercatori seri, simpatici e felici di fare quello che facevano. Pronti per grandi scoperte. Io sarei stato come loro: un adulto felice.

Nel ricordare i miei sogni di bambino non realizzati mi venne un'assurda allegria — la stessa di allora — che non provavo piú da tanto tempo. Come se quelle fantasie, e altre, potessero ancora diventare realtà.

Fenomeno singolare, mi dissi mentre percorrevo a ritroso la stradina sterrata, fra i muretti a secco, i fichi d'india e gli ulivi. Dipenderà anche questo dagli scossoni impressi alla tua psiche dalla faccenda delle analisi, conclusi risalendo in macchina e rimettendomi in viaggio verso sud.


A Lecce comprai i quotidiani perché volevo verificare se fosse filtrata la notizia della perquisizione. Non c'era nulla. La cosa mi stupí e non sapevo come interpretarla. Era una scelta di rigore e riservatezza o si trattava di una mossa tattica che non sapevo decifrare?

Cercando senza successo di sciogliere il dilemma, entrai nel palazzo di giustizia. È una specie di blocco di cemento piuttosto brutto, anche se certo non regge il confronto — quanto a bruttezza, intendo — con il tribunale penale di Bari.

Andai nella cancelleria dell'ufficio per le indagini preliminari, mi qualificai, consegnai la nomina firmata da Larocca e chiesi di consultare il fascicolo dell'incidente probatorio.

Come mi aspettavo, non c'era molto: tre verbali di interrogatorio del collaboratore di giustizia Capodacqua, pieni di omissis; due verbali di Marelli, il secondo dei quali redatto in ospedale; un'informativa della finanza, con allegato certificato medico, in cui si comunicava che Marelli era gravemente malato.

Presi un po' di appunti per dare subito ad Annapaola i dati necessari per i suoi accertamenti e feci richiesta di copia integrale degli atti depositati, che nei giorni successivi avrebbe ritirato il mio collega corrispondente su Lecce.

Pensai di andare in procura a parlare con uno dei magistrati titolari del fascicolo, poi mi dissi che non c'era nessuna vera ragione per farlo, nessuna informazione ulteriore che potessero darmi, sempre che fossero in ufficio e potessero ricevermi senza preavviso e senza appuntamento. Cosí, circa un'ora dopo, prima del previsto, ero di nuovo fuori.

Chiamai Larocca, gli feci un rapido resoconto e tagliai corto. Non avevo voglia di sentire una nuova sequenza di lamentele e improperi contro la procura.

Proprio mentre stavo per uscire dalla città mi ricordai della disposizione che avevo ricevuto da Consuelo e Maria Teresa. Dovevo comprare un vassoio di pasticciotti — i buonissimi dolci leccesi di pasta frolla croccante, ripieni di crema — e consegnarlo nelle loro mani, tassativamente, al mio rientro. In assenza di pasticciotti non sarei stato riammesso in studio. Cosí invertii la direzione di marcia, arrivai fin nei paraggi della bellissima piazza Sant'Oronzo, diedi uno sguardo all'anfiteatro romano, ritrovai la solita pasticceria — dove avevano appena sfornato — ed eseguii la disposizione ricevuta.

Il profumo delizioso e quasi allucinogeno dei dolci mi accompagnò lungo la strada del ritorno.

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Mi svegliai con il mal di testa. Un dolore sordo fra la tempia e l'occhio, come non mi capitava da un sacco di tempo. Di quelli che non puoi rimanere a letto. Devi alzarti, anche se è mattina presto — quella volta era mattina presto, per la precisione erano le cinque e mezzo — mangiare qualcosa, prendere un paio di compresse e aspettare che passi. Di solito succede, ma per tutta la giornata ti porterai dietro una sensazione spiacevole di minaccia, come un'ombra in agguato.

In piú ci si misero anche le condizioni atmosferiche.

Ero andato a Lecce due settimane prima e il tempo era stupendo. Adesso era maggio, ma guardando fuori pareva ottobre inoltrato, forse anche novembre. Faceva freddo, il cielo era grigio e sporco, c'era vento a raffiche, a tratti pioveva. L'aria era opaca. La primavera era ammalata, e sembrava che nulla sarebbe stato come prima.

Consuelo doveva venire con me, ma alle sette e mezzo mi telefonò dicendomi che aveva la febbre ed era piena di dolori. Capita, d'inverno, le risposi, consigliandole di curarsi e pensando che non avevo proprio voglia di andare a farmi da solo quell'udienza, a centocinquanta chilometri di distanza.

Cercai di rianimarmi pensando ai pasticciotti, ma non era la mattina giusta.

Pur di avere compagnia, fui sul punto di chiamare Larocca e dirgli che ci avevo ripensato, che era meglio ci fosse anche lui, che nel giro di un quarto d'ora sarei passato da casa sua e cose del genere. Scartai l'idea, tirai fuori dall'armadio l'impermeabile, che con il mese di maggio ero convinto di avere archiviato, e presi anche un ombrello. Di pessimo umore, uscii di casa.

Dopo una mezz'ora di strada il vento calò e la pioggia diventò battente, fitta, regolare. Dovetti impostare i tergicristalli alla velocità massima. Era novembre, non avevo piú dubbi. Ascoltai un notiziario in cui l'esperto meteo mi informò che quella mattina sull'Adriatico meridionale avrebbe piovuto. Lo ringraziai per l'informazione riservata e passai a una radio locale che trasmetteva un programma di musica italiana anni Settanta intitolato in modo evocativo: Zampa d'elefante; una mirabile sintesi di cultura e costume.

Il conduttore si chiamava Cosimo. Parlava una lingua elementare e ipnotica caratterizzata da una radicale e spietata eliminazione del congiuntivo. C'erano le dediche, fra le quali una rimarrà per me indimenticabile: «Questo pezzo è dedicato alla piccola Ledi Daiana, che è nata ieri, e ai suoi stupendi genitori Vito e Maddalena. Abbiamo al telefono papà Vito. Ma qual è il vero nome della bambina, Vito?» Pausa interdetta, quella di chi pensa che il suo interlocutore sia un po' scemo e dunque faccia domande sceme, poi: «Ledi Daiana. Quello è il nome. Ledi Daiana Recchimurzo, datosi che io mi chiamo Recchimurzo Vito».

Recchimurzo Vito, da grande voglio essere come te, dissi ad alta voce. Fra i sintomi del mio squilibrio c'è l'abitudine di parlare con i conduttori e i partecipanti ai programmi radio che ascolto quando sono in macchina da solo. Be', a volte anche quando non sono da solo, come potrebbe raccontarvi qualcuna delle mie fidanzate e anche la mia ex moglie.

L'ascolto di quella meravigliosa trasmissione mi distrasse dal maltempo, esteriore e interiore, anche perché ebbi modo di dedicarmi all'interpretazione dei testi.

Uno, piú di tutti, mi ossessionava sin dall'adolescenza: «Sciolgo le trecce ai cavalli, corrono». L'esegesi è ardua. In primo luogo: i cavalli sono muniti di trecce, eventualmente da sciogliere? Poi: questi specifici cavalli della canzone corrono dopo che gli sono state sciolte le trecce oppure l'autore o il cantante, entrambi fantini provetti, effettuano lo scioglimento delle trecce mentre le bestie corrono?

In un'altra canzone, la storia di un amore finito male, il testo si chiudeva con un invito disperato del lui abbandonato alla lei (che si capiva essere una che non andava troppo per il sottile, essendo fra l'altro munita di «un corpo di chi ha detto troppi sí») abbandonante. «Anima mia, nella stanza tua c'è ancora il letto come l'hai lasciato tu». Significa, mi chiedevo, che le lenzuola non sono mai state cambiate? Il che darebbe un torbido - ma anche un po' sudicio - tono di decadenza a tutta la vicenda. O il cantante allude solo alla collocazione del letto, ma in questo caso dov'è la parte romantica della faccenda?

Poi in un crescendo impareggiabile dj Cosimo fece partire la sezione di archi che precede i primi versi di Ti amo di Umberto Tozzi. Il codice da Vinci è un giochetto da settimana enigmistica al confronto con gli oscuri versi di questa canzone. Per l'ennesima volta mi chiesi cosa significasse: «È una farfalla che muore sbattendo le ali l'amore che a letto si fa», e per l'ennesima volta fui turbato da un'immagine che sembra alludere a un'antica maledizione egizia: «Apri la porta a un guerriero di carta igienica».

Quando cambiai stazione, in cerca di qualche notiziario e di qualche congiuntivo, il mal di testa era passato del tutto e il mio umore, nonostante la pioggia che continuava a scendere ostinata, era parecchio migliorato.

Cosí cominciai a pensare al lavoro che mi aspettava.

Controesaminare i collaboratori di giustizia è una cosa che faccio di rado, perché di rado mi capita di difendere in processi di criminalità organizzata. Nessun giudizio sui miei colleghi che lo fanno d'abitudine - ce n'è di bravissimi e correttissimi - ma la tipologia media degli imputati di quei processi la preferisco lontana dal mio studio.

In ogni caso il controesame di un collaboratore non è una cosa facile: richiede equilibrio, e distacco. Di solito i cosiddetti pentiti dicono - grosso modo - la verità e attaccarli a testa bassa, come fanno molti avvocati, è quasi sempre inutile, suscita la reazione dura dei pubblici ministeri e comunica una sgradevole sensazione di vicinanza del difensore al modo di sentire dei suoi clienti e alla cultura criminale di cui sono portatori. Bisogna essere chirurgici. Isolare le parti che si vogliono mettere in dubbio e lavorare perché il giudice alla fine possa dire che quelle specifiche dichiarazioni sono inattendibili, senza essere costretto ad affermare che il collaboratore è inattendibile in toto.

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Ventisei


Gli eventi importanti della mia vita sono accaduti per caso. Se c'era un disegno non me ne sono accorto. Ho studiato diritto per caso o per ripiego o perché non avevo avuto il coraggio di chiedermi cosa davvero avrei voluto fare, forse temendo che scegliere implicasse una responsabilità di cui non ero all'altezza. Allo stesso modo mi sono ritrovato a fare l'avvocato: trasportato dalla corrente, dicendomi che però, in fondo, quel lavoro mi piaceva, che comunque la vita è un percorso fatto anche di compromessi e che è da adulti accettare questa verità. Giustificazioni, perlopiú, che sono come certi scogli appena sotto il pelo dell'acqua. Ti ci puoi appoggiare, ti ci puoi aggrappare, ma puoi anche andarci a sbattere, e farti molto male.

Avevo elaborato il disagio per il mio lavoro - un lavoro che non avevo mai davvero scelto - costruendomi il personaggio descritto da Annapaola. Aveva detto cose che sapevo benissimo e che, con metodo, mi ero sempre impegnato a non ammettere.

Avevo un'immagine di me e cercavo di corrisponderle. In un modo o nell'altro. In caso di contrasto con la realtà, era la realtà a doversi adattare. Ma è un meccanismo che non può durare per sempre. A poco a poco perdi l'equilibrio.

Finii il lavoro in sospeso e me ne andai dallo studio. Passai davanti a un panificio dal quale giungeva il profumo della focaccia appena sfornata. Ne comprai una fetta da liceale, cioè grande. Bevvi una birra gelata a un bar di ubriaconi abituali che mi guardarono per quello che ero: un corpo estraneo.

Poi presi la bicicletta e mi misi a pedalare senza una meta precisa, ma con l'intenzione di non smettere troppo presto. Ero molto, molto confuso.

Cerca di semplificare, Guerrieri, altrimenti non ne uscirai e sarà un'altra notte insonne. Dunque: un tuo cliente è imputato di corruzione in atti giudiziari. Lo difendi convinto della sua innocenza, poi scopri che è colpevole. Che fare? Continuare a difenderlo o rinunciare al mandato? In fondo è un quesito abbastanza semplice.

Forse non cosí semplice, però. Intanto: ti porresti lo stesso dilemma se scoprissi che un tuo cliente imputato di rapina ha effettivamente commesso quella rapina e magari ne ha commesse anche molte altre? Se addirittura scoprissi che è un rapinatore professionista? No, non te lo porresti.

Perché no?

Per quello che ha detto Tancredi.

Perché c'è distanza, fra voi. Lui, il rapinatore, non fa parte del tuo gioco, quello dei processi, delle regole e della giustizia. Un giudice corrotto sí. Un giudice corrotto - non la sua esistenza, ma il fatto che sia tuo cliente, che il suo destino dipenda in parte da te - fa saltare il sistema, l'impalcatura, l'intero palcoscenico su cui finora hai interpretato il tuo personaggio.

La corruzione - e in particolare la corruzione giudiziaria - è diversa dalla rapina perché ha a che fare con il potere. Il potere di un giudice è mostruoso, se uno ci pensa. Può decidere della libertà e della vita di una persona. Non voglio fare nessuna retorica, ma è cosí. Il potere - ogni forma di potere - è una cosa accettabile solo se è trasparente, pulito, se è esercitato in modo uguale per tutti. L'articolo 3 della Costituzione, l'uguaglianza e cose del genere. Va bene, non stai facendo una conferenza. Però, cazzo. Con la corruzione il potere smette di essere controllabile e diventa inaccettabile. Insopportabile. Sporco. Ecco, deve essere questo il tema. Se questo tizio la fa franca continuerà a esercitare indisturbato il suo sporco potere.

Ma la corruzione giudiziaria c'è sempre stata. Inutile prendersela, è un problema delle procure e delle polizie, non tuo. L'imperfezione del mondo non è un problema tuo.

Sí, c'è sempre stata, la corruzione, ma cosí è diverso. Questa è troppo vicina. Lo sappiamo che nel mondo succedono un sacco di brutture e non possiamo indignarci davvero per tutte. Abbiamo riserve limitate di indignazione. Ma quando i fatti sono tanto vicini? Quando ti toccano, che devi fare? Un conto è non poter fare nulla - sai che c'è qualcosa che non va, ma non puoi farci niente - un altro conto è se nelle tue mani c'è la possibilità di reagire, in qualche modo.

Reagire? Reagire come? Forse dimentichi che sei un avvocato e che lui è un tuo cliente, forse dimentichi che ci sono dei doveri legati alla tua professione, fino a quando continui a esercitarla. Hai degli obblighi verso quel cliente, come verso chiunque si affidi a te. Il cliente è sacro. Se metti in discussione questo principio è finita.

E la giustizia? La dannata giustizia? Se quello continua a fare il giudice, come faccio, io, a continuare a fare l'avvocato?

Che c'entri tu col fare giustizia? Lo hai detto, sei un avvocato. I tuoi doveri sono semplici: difendi al meglio il tuo cliente, non commettere scorrettezze, non violare regole deontologiche. Basta. Vuoi fare giustizia? Dovevi diventare magistrato se volevi fare giustizia e cambiare il mondo. Poi ci avrebbe pensato il mondo a farti cambiare idea, ma questo è un altro discorso.

Tutto quello che stai dicendo è solo un modo per sollevare cortine fumogene, per sfuggire alla responsabilità di prendere una decisione non ovvia. Un modo di mentire a te stesso. Dici che ci sono le regole deontologiche, la tutela del cliente, gli obblighi dell'avvocato per sottrarti alla responsabilità che ti deriva dall'aver saputo certe cose. Non è che ti nascondi dietro i presunti doveri professionali solo per evitare seccature, solo per evitare di scegliere? Solo per sottrarti alla fatica di fare delle distinzioni? Com'era la battuta di quel film bellissimo di Renoir - La regola del gioco? «Ho voglia di sparire in un buco... di non vedere piú niente, di non dover piú distinguere ciò che è bene e ciò che è male». È quello che vuoi fare tu? Sparire in un buco per non dover distinguere fra bene e male? Come ti sentirai fra dieci anni rispetto a questo? Cosa vorresti aver fatto, fra dieci anni?

Non li sopporto certi discorsi di etica da rotocalco. Allora andiamo sul concreto, lasciamo perdere le chiacchiere astratte. Vuoi denunciarlo? Vuoi raccontare tutto alla Procura di Lecce? È questo che stai pensando? Te lo ricordi l'articolo 380 del codice penale? È la norma sul patrocinio infedele. Il patrocinatore che, rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa è punito con la reclusione da tre a dieci anni, se il fatto è commesso a danno di persona imputata di un delitto per il quale la legge commina la reclusione superiore a cinque anni.

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