Autore Lewis Carroll
CoautoreHarry Furniss [illustrazioni]
Titolo Sylvie e Bruno
EdizioneBordeaux, Roma, 2021 [1978], , pag. 496, ill., cop.fle., dim. 13,4x21x3,4 cm , Isbn 978-88-32103-88-5
OriginaleSylvie and Bruno [1889]
TraduttoreFranco Cordelli
LettoreElisabetta Cavalli, 2021
Classe classici inglesi









 

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Indice


              PRIMA PARTE

    Prefazione di Lewis Carroll - 11
 1. Meno pane! Più tasse! - 21
 2. L'amie inconnue - 29
 3. Regali di compleanno - 36
 4. Un'astuta cospirazione - 43
 5. Il palazzo del Mendicante - 51
 6. Il ciondolo magico - 60
 7. L'ambasciata del Barone - 68
 8. A cavallo di un leone - 74
 9. Un Buffone e un Orso - 81
10. L'Altro Professore - 90
11. Peter e Paul - 98
12. Un Giardiniere melomane - 107
13. Visita in Canilandia - 116
14. La Fata Sylvie - 125
15. La vendetta di Bruno - 136
16. Un coccodrillo cambiato - 144
17. I tre Tassi - 151
18. Via Stramba, numero venti - 162
19. Come si fa un Flizz - 171
20. Luce che viene, luce che va - 180
21. Attraverso la Porta d'Avorio - 190
22. Saltando il binario - 201
23. Un Orologio Ultrista - 212
24. Festa di compleanno dei ranocchi - 221
25. Guardando a Oriente - 232


              SECONDA PARTE

    Prefazione di Lewis Carroll - 243
 1. I compiti di Bruno - 255
 2. Il coprifuoco dell'amore - 265
 3. Primi albori di luce - 274
 4. Il Re-cane - 283
 5. Madida Jane - 291
 6. La moglie di Willie - 300
 7. Mein Herr - 307
 8. In un luogo ombroso - 317
 9. Il ricevimento di addio - 326
10. Chiacchiere e confetture - 336
11. L'uomo nella Luna - 345
12. Musica fatata - 352
13. Quello che Tottles pensava - 362
14. Il picnic di Bruno - 373
15. I volpacchiotti - 385
16. Oltre queste voci - 392
17. Al salvataggio! - 401
18. Un ritaglio di giornale - 411
19. Un duetto fatato - 414
20. Burle e spinaci - 427
21. La conferenza del professore - 437
22. Il banchetto - 447
23. La storia del maiale - 456
24. Il ritorno del mendicante - 466
25. Dalla morte alla vita - 476

    Nota del Traduttore di Franco Cordelli - 483


 

 

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1. Meno pane! Più tasse!



E poi la gente applaudì di nuovo e un tale, più scalmanato degli altri, scaraventò in aria il cappello e urlò (per quello che riuscii a capire): «Chi ci sta ad acclamare il Sotto-Governatore?». Tutti acclamarono, ma se lo facessero per il Sotto-Governatore non fu chiaro; qualcuno urlava: «Pane!»; altri: «Tasse?», ma nessuno sembrava sapere ciò che realmente voleva.

Tutto questo l'ho visto dalla finestra aperta della sala da colazione del Governatore, guardando al di sopra della spalla del Lord Cancelliere che era saltato in piedi quando le grida erano iniziate, quasi se l'aspettasse, e si era precipitato alla finestra da cui si godeva la vista migliore della piazza del mercato.

«Che può significare tutto ciò?» continuava a ripetersi mentre, con le mani intrecciate dietro la schiena e la toga svolazzante percorreva la stanza in lungo e in largo. «Non ho mai udito tante urla... e a quest'ora del mattino, poi! E tutte insieme! A lei non sembra una cosa strana?».

Io modestamente dissi che alle mie orecchie suonava come se stessero urlando per motivi diversi, ma il Cancelliere non volle ascoltare neanche per un attimo i miei suggerimenti. «Urlano tutti le stesse cose, glielo assicuro!» disse; poi, spenzolandosi dalla finestra, bisbigliò a un tale che stava in piedi lì sotto: «Tienili uniti, capito? Il Governatore sarà qui fra poco. Dai il segnale per la "marcia-in-avanti"». Ovviamente tutto ciò non era destinato alle mie orecchie, ma io non potevo fare a meno di udire, visto che avevo il mento quasi sulla spalla del Cancelliere.

La marcia-in-avanti fu una cosa proprio curiosa: una processione di gente che, in fila per due, si muoveva disordinatamente, partì dal lato opposto della piazza del mercato avanzando a zig-zag verso il palazzo, virando selvaggiamente di qua e di là come un vascello che affronta un vento contrario, così che la testa della processione era molto spesso più lontana da noi, alla fine di una virata, di quanto non fosse stata alla fine della precedente.

E tuttavia era chiaro che ciò avveniva secondo ordini precisi, perché tutti gli occhi erano fissi sull'uomo in piedi sotto la finestra, al quale il Cancelliere continuava a bisbigliare. Costui teneva il cappello in una mano e una bandierina verde nell'altra: ogni volta che sventolava la bandierina la processione si avvicinava un poco; quando l'abbassava, si allontanava un altro poco, e quando agitava il cappello, tutti cacciavano un urlo rauco. «Urrà!» urlavano, scrupolosamente scandendo il tempo col movimento del cappello che si alzava e si abbassava. «Urrà! Niente! Costi!-tuzione! Meno! Pane! Più! Tasse!».

«Basta, basta!» bisbigliò il Cancelliere. «Falli riposare fin quando non ti darò l'ordine. Ancora non arriva!». Ma in quel punto le grandi porte a vento del salone si spalancarono, e lui si voltò con un sussulto colpevole per ricevere Sua Eccellenza. Invece era soltanto Bruno, e il Cancelliere cacciò un sospiro di sollievo.

«'Giorno!» disse il bambino, rivolgendo il saluto, genericamente, tanto al Cancelliere che ai domestici. «Chi lo sa dov'è Sylvie? Cerco Sylvie!».

«È col Governatore, credo, V-scenzar» replicò il Cancelliere con un profondo inchino. Senza dubbio era piuttosto assurdo applicare quel titolo (che, come capirete senza bisogno che ve lo dica, altro non significava se non "Vostra Eccellenza Reale", condensato in un monosillabo) a una personcina il cui padre era solamente il Governatore dell'Ultra-Paese; ma dobbiamo mostrarci indulgenti verso un uomo che aveva trascorso molti anni a Corte, nel Paese delle Fate, e vi aveva appreso la quasi impossibile arte di pronunciare cinque sillabe in una.

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«Io... io non avevo intenzione di fare quella domanda!» balbettai un po' seccato di avere avviato la conversazione in modo così anticonformista.

Il sorriso della signora diventò una risata - non di scherno, ma la risata di una fanciulla felice che si sente perfettamente a suo agio. «Davvero?» disse. «Allora è stato uno di quei casi che voi medici chiamate "cerebralismo inconscio"».

«Non sono medico» risposi. «Ne ho forse l'aspetto? Che cosa glielo ha fatto credere?».

Lei indicò il libro che stavo leggendo, posato in modo che il titolo Malattie di cuore risultava chiaramente visibile.

«Non c'è bisogno di essere medici» dissi io, «per interessarsi ai libri di medicina. C'è un'altra categoria di lettori che è ancora più interessata».

«Intende i pazienti?» interruppe lei, mentre uno sguardo di tenera pietà dava al suo viso una dolcezza nuova. «Ma» con l'evidente desiderio di evitare un argomento penoso, «si può anche non essere nessuna delle due cose per interessarsi ai libri di Scienza. Secondo lei, contengono più Scienza i libri o le menti?».

«Una domanda piuttosto profonda, per una signora!» dissi fra me, convinto, con la boria tipica del Maschio, che il livello intellettuale Femminile fosse essenzialmente più basso. Ci pensai un istante, prima di rispondere. «Se intende dire menti viventi, credo sia impossibile decidere. C'è tanta Scienza scritta che nessun essere vivente ha mai letto e c'è tanta Scienza pensata che non è ancora stata scritta. Ma se lei intende l'intera razza umana, allora credo che ne contengano più le menti: tutto quello che è stato trascritto nei libri deve essere stato prima nella mente, non le pare?».

«Non è come una Regola d'Algebra?» chiese Milady ("Anche l'Algebra!" pensai, con meraviglia crescente). «Se consideriamo i pensieri fattori, non possiamo forse dire che il Minimo Comune Multiplo di tutte le menti contiene quello di tutti i libri, ma non viceversa?».

«Certo» replicai, incantato da quell'immagine. «E che cosa fantastica sarebbe» più che parlando di fatto, «se potessimo applicare la stessa regola ai libri. Sapete, quando cerchiamo il Minimo Comune Multiplo togliamo un numero ogni volta che se ne dia il caso, tranne quando è elevato alla massima potenza. Così dovremmo cancellare ogni pensiero trascritto, tranne là dove è stato espresso con la massima intensità».

Milady rise allegramente. «Temo che certi libri sarebbero ridotti alla pagina bianca» disse.

«Certo. La maggior parte delle librerie diminuirebbero in dimensione. Ma pensi quanto ci guadagnerebbero in qualità!».

«Quando accadrà?» domandò ansiosamente. «Se c'è qualche speranza che succeda ai tempi miei, credo che smetterò di leggere e aspetterò!».

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8. A cavallo di un leone



Il giorno seguente scivolò via piuttosto piacevolmente, in parte dedicato a sistemarmi nel mio nuovo alloggio, e in parte a passeggiare nei dintorni con la guida di Arthur, per cercare di farmi un'idea generale di Elveston e dei suoi abitanti. Quando scoccarono le cinque, Arthur propose... questa volta senza imbarazzo... di accompagnarmi al Maniero, per farmi conoscere il Conte di Ainslie che lo aveva affittato per la stagione, e rinnovare la conoscenza di sua figlia Lady Muriel. La mia prima impressione del gentile, dignitoso, ma socievole vecchio fu assolutamente favorevole, e l' autentica soddisfazione che comparve sul viso della figlia quando mi accolse con le parole «questo è proprio un piacere insperato» fu molto lusinghiera per quel residuo di vanità superstite a tanti anni di fallimenti e delusioni e tanti scontri con un mondo volgare.

Rilevai tuttavia, compiaciuto, l'esistenza di un sentimento ben più profondo della semplice cordialità amichevole, nel modo con cui accolse Arthur, sebbene mi sembrò di capire che fosse un avvenimento quotidiano; la loro conversazione, alla quale occasionalmente partecipavamo il Conte e io, aveva una fluidità e immediatezza che raramente si riscontrano se non fra vecchissimi amici: e poiché sapevo che si conoscevano soltanto dall'estate, ora già prossima a sfaldarsi nell'autunno, percepii con certezza che l'Amore, e solo l'Amore poteva spiegare quel fenomeno.

«Come sarebbe comodo» osservò ridendo Lady Muriel à propos della mia insistenza nel risparmiarle il disturbo di portare una tazza di tè al Conte, all'altro capo della stanza, «se le tazze di tè non avessero alcun peso! Allora, forse, si permetterebbe alle Signore di portarle per brevi distanze!».

«È facile immaginare» disse Arthur, «una situazione in cui gli oggetti non abbiano necessariamente alcun peso reciproco, pur serbando, presi singolarmente, il proprio peso».

«Un paradosso assurdo» disse il Conte. «Ci dica come sarebbe possibile. Non lo indovineremo mai».

«Bene, supponiamo che questa casa, così com'è, fosse situata qualche milione di miglia al di sopra di un pianeta, con niente intorno a disturbarla: naturalmente cadrebbe sul pianeta».

Il Conte annuì. «Naturalmente, sebbene ci vorrebbero dei secoli».

«E nel frattempo il tè delle cinque continua ad aver luogo?» chiese Lady Muriel.

«Quello e altre cose» disse Arthur. «Gli abitanti continuano a vivere, crescono e muoiono e intanto la casa continua a cadere! Ma per quel che riguarda il peso relativo degli oggetti: nessuna cosa può essere pesante, capite, a meno che, tentando di cadere, non ne sia impedita. Siete d'accordo?». Fummo tutti d'accordo.

«Ebbene, se ora prendo questo libro e lo sollevo a braccia tese, naturalmente ne avverto il peso. Lui cerca di cadere, e io glielo impedisco. E se lo lascio, cade a terra. Ma se cadessimo tutti insieme, lui non cercherebbe di cadere più velocemente, capite: perché, se lo lascio andare, che altro può fare se non cadere? Ma dal momento che anche la mia mano starebbe cadendo... con la stessa velocità... lui non l'abbandonerebbe mai, perché questo equivarrebbe a voler arrivare per primo. E non potrebbe mai superare la caduta del pavimento!».

«Capisco benissimo» disse Lady Muriel, «ma ci si sente storditi a pensare a queste cose! Secondo lei, come sarebbe possibile?».

«Un'idea ancora più curiosa» mi avventurai a dire. «Supponiamo di legare la casa con una corda che le passi sotto, e di farla tirare da qualcuno che stia su quel pianeta. Allora la casa andrebbe più veloce del suo normale tempo di caduta, ma i mobili - e le nostre nobili persone - continuerebbero a cadere col loro tempo normale, e quindi rimarrebbero indietro».

«Praticamente ci solleveremmo fino al soffitto» disse il Conte, «con l'inevitabile conseguenza di ricavarne una commozione cerebrale».

«Per evitarla» disse Arthur, «facciamo fissare al suolo i mobili, e facciamo legare noi ai mobili. Così il tè delle cinque potrà procedere in pace».

«Con una piccola difficoltà!» interruppe allegramente Lady Muriel. «Noi ci porteremmo le tazze, ma che accadrebbe del tè?».

«Mi ero dimenticato del tè» confessò Arthur. «Quello, senza dubbio, salirebbe fino al soffitto... a meno che non decideste di berlo strada facendo!».

«E con questo, mi pare che siano state dette sufficienti sciocchezze, per il momento!» disse il Conte. «Che notizie ci porta questo Signore, dal grande mondo londinese?».

[...]


«Certo!» rispose prontamente il Giardiniere. «Io piaccio sempre. Non dispiaccio mai a nessuno. Eccovi serviti!» e spalancò la porta e ci lasciò uscire nella polverosa strada maestra.

Ben presto trovammo il sentiero per il cespuglio, che era così misteriosamente sprofondato nel suolo, e a questo punto Sylvie tirò fuori il Ciondolo Magico dal suo nascondiglio, lo rigirò pensosa, e poi si rivolse a Bruno con aria piuttosto smarrita. «Che cos'era che dovevamo farci, Bruno? Mi è completamente passato di mente».

«Bacialo!» era l'invariabile ricetta di Bruno in caso di dubbio o difficoltà. Sylvie lo baciò ma senza nessun risultato.

«Strofinalo a rovescio» fu il secondo suggerimento.

«Qual è il rovescio?» chiese molto ragionevolmente Sylvie. L'ovvia soluzione fu di provare da tutte e due le parti,

Lo sfregamento da sinistra a destra non sortì alcun risultato. Da destra a sinistra...

«Oh, ferma Sylvie!» urlò, improvvisamente allarmato Bruno. «Che succede?».

Alcuni alberi, sulla vicina collina, si stavano lentamente muovendo verso l'alto, in solenne processione: mentre un mite rigagnolo che un istante prima ruscellava ai nostri piedi, cominciò a gonfiarsi, a schiumare, a fischiare e a ribollire in modo veramente allarmante.

«Strofinalo in qualche altro modo!» urlò Bruno. «Prova su e giù! Presto!».

Fu un'idea felice. Il su-e-giù funzionò e il paesaggio, che aveva mostrato segni di aberrazione mentale in varie direzioni, ritornò al suo normale stato di serietà - a eccezione di un topolino giallo-marrone che continuò a correre da pazzo su e giù per la strada sferzando la coda come un piccolo leone.

«Seguiamolo» disse Sylvie: e anche questa risultò un'idea felice. Il topo immediatamente si calmò stabilizzandosi in un alacre trotto al quale riuscimmo facilmente a tener dietro. L'unico fenomeno che mi dava qualche preoccupazione era la rapidità con cui l'infima creatura che stavamo seguendo aumentava la sua mole, che a ogni istante si faceva più simile a quella di un vero leone.

Ben presto la trasformazione fu completa: e un nobile leone rimase pazientemente in attesa che noi ci avvicinassimo. Neppure l'ombra della paura sembrò sfiorare i bambini, che lo accarezzarono come se fosse stato un piccolo pony.

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13. Visita in Canilandia



«C'è una casa là a sinistra» disse Sylvie dopo aver camminato qualcosa come cinquanta miglia, o almeno così mi sembrò. «Chiediamo se ci possono ospitare per la notte».

«Ha l'aspetto di una casa molto conforte-ole» disse Bruno, mentre voltavamo per la stradina che conduceva lassù. «Spero che i cani saranno gentili perché io è tanto stanco e affamato!».

Un Mastino bardato con un collare scarlatto camminava, imbracciando un moschetto, in su e in giù come una sentinella davanti all'entrata. Alla vista dei bambini sobbalzò e si avvicinò per affrontarli, tenendo il moschetto puntato in direzione di Bruno che rimase immobile ma pallidissimo e continuò a serrare la mano di Sylvie, mentre la Sentinella prese a girargli intorno per osservarli da ogni lato.

«Ubuu, un buhuya!» ringhiò alla fine. «Uba yawa ubu! Bauwahaba ubuya? Bau Wau?» chiese a Bruno in tono severo.

Naturalmente Bruno capì tutto senza difficoltà. Tutte le Fate capiscono il Canese... cioè il linguaggio dei cani. Ma poiché voi potreste trovarlo un po' complicato, almeno da principio, lasciate che ve lo traduca: "Esseri umani mi sembrano! Una coppia di umani vagabondi! A quale cane appartenete? Che volete?".

«Non apparteniamo a un Cane!» cominciò Bruno parlando in Canese («la gente non appartiene mai ai cani!» bisbigliò a Sylvie), ma Sylvie lo interruppe in fretta per timore di ferire la suscettibilità del Mastino.

«La prego, vorremmo un po' di cibo e un alloggio per la notte... se c'è posto in casa» aggiunse, timidamente. Sylvie parlava il Canese molto bene, ma credo che per voi sia meglio che riporti la conversazione nella nostra lingua.

«Casa! Che dite? Non avete mai visto un Palazzo?» ringhiò la sentinella. «Venite con me! Sua Maestà deciderà quel che si dovrà fare di voi».

Lo seguirono attraverso l'ingresso, giù per il corridoio, e in un magnifico salone dove, tutt'intorno, erano raggruppati cani di ogni razza e dimensione. Due splendidi Segugi sedevano impettiti, ai due lati del reggi-corona. Due o tre Bulldog - che immaginai fossero le guardie del corpo del Re - stavano all'erta, in assoluto silenzio; le uniche voci che si potevano udire erano quelle di due cagnetti che erano saliti su un sofà e conversavano con animazione come se litigassero.

«Lord e Dame e Notabili di Corte» ci fece osservare sgarbatamente la nostra Guida, facendoci entrare. Di me i Cortigiani non si accorsero neppure, ma Sylvie e Bruno furono oggetto di parecchi sguardi curiosi; molti sussurrarono apprezzamenti uno dei quali mi arrivò distintamente - fatto da un Bassotto dall'aria furbastra, al suo amico - Ba wu uaya huba oubu, ha ba? ("mica male, quell'umana, vero?").

Lasciando i nuovi arrivati al centro del Salone la Sentinella si avvicinò alla porta di fondo, sormontata dall'iscrizione, in Canese, CANILE REALE - GRATTARE E URLARE.

Ma prima di eseguire, la Sentinella si rivolse ai bambini e disse: «Datemi i vostri nomi».

«Preferiremmo di no!» esclamò Bruno, tirando via Sylvie dalla porta. «Vorremmo tenerceli. Torna indietro, Sylvie. Svelta!».

«Sciocchezze» disse Sylvie decisa - e dette i nomi in Canese. Allora la Sentinella grattò violentemente alla porta e cacciò un urlo che fece tremare Bruno dalla testa ai piedi.

«Uya wa!» disse, da dentro, una voce profonda (che in Canese significa "Avanti!").

«È il Re in persona!» bisbigliò il Mastino in tono atterrito. «Toglietevi le parrucche e posatele umilmente alle sue zampe» (noi diremmo "ai suoi piedi").

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24. Festa di compleanno dei ranocchi



E così accadde che, a distanza di una settimana da quando i miei amici fatati m'erano apparsi per la prima volta come Bambini, mi ritrovai a fare una passeggiata di commiato, attraverso i boschi, nella speranza di rincontrarli ancora una volta. Bastò stendermi sull'erba soffice perché mi tornasse subito quella sensazione "magica".

«Metti l'orecchio motto giù» disse Bruno, «e ti dico un segreto! È la festa di compleanno dei ranocchi... e abbiamo perso il Baby!».

«Quale Baby?» dissi, un po' frastornato dalla complicata notizia.

«Il Baby della Regina, naturalmente!» disse Bruno. «Il bambino di Titania! E siamo motto dispiaciuti. Sylvie, lei è... oh così dispiaciuta!».

«Quanto è dispiaciuta?» chiesi maliziosamente.

«Tre quarti di metro!» replicò Bruno con perfetta solennità. «E io sono un po' dispiaciuto, pure» aggiunse, chiudendo gli occhi per non far vedere che stava ridendo.

«E come farete per il Baby?».

«I soldati lo stanno cercando... su e giù da per tutto...».

«I soldati?» esclamai.

«Sì, certo!» disse Bruno. «Quando non c'è da combattere i soldati fanno qualsiasi lavoretto, sai!».

Mi divertì l'idea che ritrovare un Baby Reale fosse definito "un lavoretto qualsiasi".

«Ma come avete fatto a perderlo?» chiesi.

«L'abbiamo messo in un fiore» spiegò Sylvie che ci aveva appena raggiunto, con gli occhi pieni di lacrime. «Solo che non ci ricordiamo quale!».

«Lei dice che noi l'abiamo messo in un fiore» l'interruppe Bruno, «perché non vuole che io sia punito. Ma sono stato proprio me a mettercelo. Sylvie stavava raccogliendo i Giatinti».

«Non dovresti dire "l'abiamo" messo in un fiore» osservò Sylvie seria seria.

«Insomma, l'habiamo, allora» disse Bruno. «Non mi ricordo mai quelle orrende h».

«Lasciate che vi aiuti a cercarlo» dissi. Così Sylvie e io facemmo un "giro esplorativo" fra i fiori ma non c'era nessun neonato.

«Che è successo a Bruno?» dissi, terminato il nostro giro.

«È laggiù nel fossato» disse Sylvie, «e sta facendo divertire un ranocchietto».

Mi misi in terra a quattro zampe per cercarlo, perché ero molto curioso di scoprire come si potevano intrattenere delle piccole ranocchie. Dopo un minuto lo vidi, seduto sul bordo del fossato, accanto a un ranocchietto, ma con l'aria piuttosto sconsolata.

«Come te la stai cavando, Bruno?» dissi, facendogli cenno mentre guardava in su.

«Non riesco più a non farlo divertire» rispose Bruno tristemente, «pecché non mi vuol dire che cosa gli piacerebbe fare! Gli ho mottrato tutte le lenti d'acqua... e un verme vivo... ma dice niente! Che cosa ti piacerebbe?» urlò nelle orecchie della Rana. Ma la piccola creatura rimase silenziosa e non lo degnò di uno sguardo. «È sorda, credo!» disse Bruno, voltandosi con un sospiro.

«E adesso è ora di preparare il Teatro».

«E il Pubblico chi sarà?».

«Solo le Rane» disse Bruno. «Ma non sono ancora venite. Devono essere conduciate come pecore».

«Si risparmierebbe tempo» suggerii, «se Sylvie e io andassimo a prenderle mentre tu prepari il Teatro».

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3. Primi albori di luce



Il giorno seguente il tempo era caldo e bello, e ci mettemmo in cammino di buon'ora per goderci il lusso di una buona chiacchierata prima della separazione.

«Questo quartiere ha un numero anormale di poveri» notai, mentre passavamo accanto a un gruppo di baracche troppo scalcinate per poter essere chiamate "case".

«Ma i pochi ricchi» replicò Arthur, «danno più del normale contributo di aiuti per i poveri, così l'equilibrio è salvo».

«Immagino che anche il Conte dia parecchio».

«È molto generoso, ma la salute e le forze non gli permettono di fare di più. Lady Muriel si prodiga, per quanto riguarda l'insegnamento e la visita alle famiglie, molto più di quanto ha piacere che si dica».

«Così lei, almeno, non fa parte di quei parassiti che s'incontrano tanto spesso nei ceti alti. Ho pensato molte volte che, se fossero chiamati a farlo, non sarebbero in grado di giustificare facilmente la loro raison d'ètre e di fornire una prova del loro diritto a vivere ancora!».

«La questione di quelli che chiamiamo "parassiti"» disse Arthur, «(voglio dire cioè di tutti coloro che assorbono parte dei beni materiali della comunità sotto forma di cibo, abiti ecc. senza contribuire in pari misura con un lavoro produttivo), è senza dubbio molto complessa. Ci ho pensato, e mi sembra che la soluzione più semplice del problema, tanto per cominciare, sarebbe una comunità senza denaro, che compra e venda solo per baratto; per rendere le cose più semplici, inoltre, supponiamo che il cibo e altri generi possano conservarsi per molti anni senza subire deterioramenti».

«È un piano davvero eccellente» dissi, «ma qual è la vera soluzione?».

«Il tipo più comune di parassita della società» disse Arthur, «è colui che ha ereditato dai genitori la ricchezza. Ora, prendiamo un uomo di intelligenza eccezionale, o eccezionalmente forte e laborioso, che abbia contribuito col proprio lavoro ai bisogni della comunità in misura tale che la contropartita del suo lavoro in abiti ecc... sia, diciamo, cinque volte maggiore della sua necessità. Non possiamo negargli il diritto assoluto di distribuire a suo piacere le proprie ricchezze superflue. Così, se lascerà ai quattro figli (diciamo due maschi e due femmine) sufficienti sostanze per fronteggiare le necessità della vita fino alla fine dei loro giorni, non vedo come la comunità potrebbe essere danneggiata ove decidessero di non far altro per tutta la vita che "mangiare e bere e divertirsi. Di certo nessuno potrebbe dir loro: "Chi non lavora non mangia!". La loro replica sarebbe schiacciante: "Il lavoro, che è il giusto equivalente del cibo che mangiamo, è stato già fatto e voi ne godete i benefici. Con quale metro di giustizia potete esigere due parti di lavoro per una di cibo?"».

«Eppure» dissi, «c'è qualcosa di sbagliato, da qualche parte, se queste quattro persone, in grado di svolgere un lavoro utile alla società, scelgono di starsene in ozio, non ti pare?».

«Sì» disse, «ma direi che riguarda più una legge divina - secondo cui ognuno deve fare ciò che può per aiutare gli altri - che non un diritto della società a esigere lavoro in cambio di un pane già onestamente guadagnato».

«Ritengo che il secondo aspetto del problema si pone quando i parassiti posseggono denaro invece di beni materiali».

«Sì» replicò Arthur, «e credo che il caso più semplice sia quello del denaro liquido. L'oro è di per sé una forma di ricchezza materiale, ma una banconota rappresenta soltanto la promessa di corrispondere una certa quantità di ricchezza materiale dietro richiesta. Il padre di quei quattro "parassiti" aveva realizzato (diciamo) 5.000 sterline di lavoro proficuo per la comunità. In cambio la comunità gli aveva dato la promessa scritta di rilasciargli, quando lo richiedesse, 5.000 sterline in cibo ecc. Allora, se lui spende per sé 1.000 sterline e lascia il rimanente ai figli, certamente loro hanno pieno diritto di presentare questa promessa scritta e dire: "Dateci il cibo per il quale è stato già dato l'equivalente in lavoro". Ritengo che questo andrebbe dichiarato pubblicamente e senza ambiguità. Mi piacerebbe farlo entrare nella testa di quei socialisti che imbottiscono i nostri poveri ignoranti di idee come: "Guardateli, quei marci aristocratici, che non fanno un accidente e vivono del sudore delle nostre fronti!". Vorrei fargli capire che il denaro che quegli "aristocratici" spendono rappresenta altrettanto lavoro già fatto per la comunità e il cui equivalente, in beni materiali, è esigibile presso la comunità stessa».

«Ma i socialisti non potrebbero rispondere: "La maggior parte di questo denaro non rappresenta affatto un onesto lavoro"? Se fosse possibile risalire di proprietario in proprietario si troverebbero forse, all'inizio, procedure legittime (donazioni, eredità o "ricevute per meriti" ecc.), ma ben presto salterebbe fuori un proprietario che non ha alcun diritto morale sul suo denaro essendosene appropriato con la frode o altri misfatti, e naturalmente i suoi successori diretti non ne avrebbero maggior diritto di lui».

«Verissimo» replicò Arthur. «Ma questo introduce inevitabilmente la logica sbagliata dell' eccesso di prova. È applicabile sia ai beni materiali che al denaro. Una volta che indaghiamo oltre il dato che l'attuale proprietario di una certa fortuna ne sia venuto in possesso onestamente e ci chiediamo se qualche precedente proprietario, nei tempi passati, non l'abbia ottenuta con la frode, ci sarà ancora qualche fortuna che potrà dirsi "sicura"?».

Dopo un attimo di riflessione mi sentii costretto ad ammettere che era proprio così.

«La mia conclusione» proseguì Arthur, «dal puro e semplice punto di vista dei diritti umani - uomo contro uomo - è questa: se qualche ricco «parassita», venuto in possesso del suo denaro con mezzi leciti, pur senza aver compiuto la minima parte di lavoro, decide di spenderlo per le proprie necessità, senza contribuire con la propria fatica ai bisogni della società, dalla quale compra cibo e abiti, quella società non ha alcun diritto di interferire. Ma la cosa cambia completamente aspetto se consideriamo la legge divina. Misurato su quel metro, quell'uomo agisce decisamente male se trascura di mettere a disposizione di coloro che ne hanno bisogno la forza e la capacità che Dio gli ha date. Quella forza e quella capacità non appartengono alla società e non costituiscono un debito da pagare; né appartengono all'uomo di per sé, perché le usi a suo piacere: appartengono a Dio e vanno usate secondo la Sua volontà; e non ci sono dubbi su quale sia questa volontà: "Fa' il bene e prodigati, senza chiedere nulla in cambio".».

«In ogni modo» dissi, «in genere i "parassiti" fanno molta carità».

«La cosiddetta "carità"» mi corresse. «Perdonami se ti sembrerà che parli senza carità. Non mi sognerei di applicare il termine a qualsiasi individuo, ma direi che in genere una persona che soddisfa qualsiasi capriccio che gli passa per la mente - non rinunciando a mente - e dà ai poveri soltanto una parte - o anche tutto - di quello che gli avanza, non fa che ingannare se stessa quando parla di carità».

«Ma dando agli altri il superfluo, quella persona non si nega forse il piacere, tipico dell'avaro, di ammucchiare quattrini?».

«Te lo concedo volentieri» disse Arthur. «Avendo quella tendenza, farebbe una buona azione a tenerla a freno».

«Ma anche quando spende per sé» insistetti, «il nostro "ricco" fa del bene dando lavoro a coloro che altrimenti sarebbero disoccupati; e questo, spesso, è meglio che mantenerli indigenti facendo l'elemosina».

«Mi fa piacere sentirtelo dire» disse Arthur; «non avrei voluto liquidare l'argomento senza prima mettere in chiaro i due aspetti viziati di una proposizione durata così a lungo, senza essere mai contraddetta, che la società ormai l'accoglie come un assioma!».

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