Copertina
Autore Mircea Cartarescu
Titolo Nostalgia
EdizioneVoland, Roma, 2003, Intrecci 25 , pag. 330, cop.fle., dim. 145x210x22 mm , Isbn 978-88-86586-98-6
OriginaleVisul
CuratoreBruno Mazzoni
LettoreCorrado Leonardo, 2005
Classe narrativa romena
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Indice


Il mendebile                  7

I gemelli                    51

REM                         173


 

 

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Pagina 7

Il mendebile



Sogno in maniera smisurata, colorata alla follia. In sogno ho sensazioni che non sperimento mai nella realtà. Ho preso nota di centinaia di sogni nel corso degli ultimi dieci anni, alcuni di essi si ripetevano convulsamente, trascinandomi sotto le medesime forche caudine della vergogna e insieme dell'odio e della solitudine. Dicono che uno scrittore perda almeno un lettore per ogni sogno raccontato, che i sogni diano noia alla narrazione, essendo soltanto un metodo comodo e stantio di mise en abīme. In verità, solo di rado un sogno è significativo per qualcun altro. Per di più, gli scrittori si giovano talvolta di contraffazioni, e calibrano il sogno a richiesta, perché rifletta e metta in ordine la realtà dispersa della storia, così come, se poniamo un cappuccio di stilografica al centro di uno scarabocchio anamorfosico, ci vediamo riflessa l'immagine di una donna nuda. Poiché voglio cominciare questo racconto con un sogno, cerco di difendermi in qualche modo dall'accusa di neghittosità e semplicioneria che scatterebbe automaticamente.

Sono, come sapete, un prosatore occasionale. Non scrivo che per voi, amici cari, e per me stesso. Il mio vero mestiere è insipido, ma mi piace e ne conosco alla perfezione i trucchi. I trucchi della scrittura, invece, mi lasciano indifferente. In poco più di un anno, da quando assisto alle vostre riunioni domenicali, avrei potuto imparare moltissimo sulle tecniche con cui dare forma a una storia. Il fatto è però che temevo di non avere molto da dire. In realtà, fino alla notte in cui ho sognato ciò che voglio raccontarvi, sono stato convinto che non ci fosse nulla nella mia vita meritevole di essere portato alla luce. Non proverò dunque a realizzare una mise en abīme, voglio solo affrontare le cose dal principio, perché sono convinto che, nella vita come nella finzione, sia l'inizio a creare il tono. Č così persino nella pazzia. Mi ricordo come cominciò a impazzire un mio ex amico. Una sera arrivò tutto agitato nel mio monolocale e mi raccontò, in maniera singolarmente coerente, cosa gli era accaduto un'ora prima: "Sono salito sul tram per andare da un mio conoscente. A causa del freddo esterno i vetri della vettura erano appannati. Seduta di fronte a me c'era una donna, una mezza contadina, in una sudicia giacca a vento marrone e con uno scialletto verde. Nemmeno l'avevo notata, finché non ha sollevato la mano infagottata in un guantone e ha pulito una porzione del vetro appannato. Stavo giusto guardando fuori, attraverso quella macchia divenuta diafana, quando il tram è entrato in galleria e la macchia si è fatta nera come la pece rispetto al fondo opalescente del resto del vetro. Eh sì, la macchia riproduceva alla perfezione il profilo di Goethe, quale lo conosciamo dalla nota silhouette. Non mancava niente: il naso diritto che si dipartiva dalla fronte obliqua, la parrucca terminante con un codino, le labbra serrate, il mento rotondo..."

Dunque, la smetterò di svicolare e comincerò anch'io il racconto del sogno di cui ho detto, che risale a un paio di mesi fa. Ho sognato di stare rinchiuso dentro a un vaso di vetro che sembrava però intagliato come in un cristallo di rocca. Mi rigiravo qua e là nel barattolo che proiettava ogni tanto arcobaleni e guardavo con grande soddisfazione, attraverso le pareti trasparenti, il mondo fluido e pulsante che stava intorno. Un uccello veniva remigando dai monti lontani e, a mano a mano che si avvicinava, s'ingrandiva inarcandosi lungo le pareti ricurve. Quando arrivò molto vicino, vidi il suo immenso occhio a mandorla, che d'improvviso mi comprendeva interamente, dilatarsi come attraverso una lente d'ingrandimento. Mi coprii il volto con una sensazione incredibile di vergogna e piacere. Quando ripresi a guardare, osservai che sulla parete del vaso, che scintillava meravigliosamente, era comparsa l'esile sagoma di una porta. Mi precipitai verso di essa terrorizzato al pensiero che potesse essere aperta. Ma mi risollevai subito: un lucchetto enorme, molle come fosse di carne, pendeva dalla porta. Lungo il sentiero che scendeva dalle montagne lontane e s'interrompeva davanti alla mia porta, veniva giù una bimbetta. Da come camminava in direzione della porta, con grandi fiocchi alle treccine e la boccuccia umida, pareva seria e bene educata. Le pareti del barattolo erano diventate limpide e diritte come cristallo e provai d'un tratto un'angoscia irrazionale, un terrore come non mi è mai più capitato di provare. La bimba è giunta davanti alla porta e ha cominciato a battere con i pugni piccini, madreperlacei, sullo spesso cristallo. Per l'angoscia mi sono buttato a terra e ho preso a dimenarmi, ma senza perderla mai di vista. Quando ha messo le mani sul lucchetto, ho sentito le mie viscere straziarsi e scoppiarmi il cuore. Ha rotto il lucchetto e, con le mani imbrattate di sangue, ha sospinto la pesante porta di quarzo. Č rimasta impietrita sulla soglia in un atteggiamento che non posso descrivervi, perché non esistono parole in grado di farlo. E d'un tratto, mentre mi allontanavo per il sentiero che conduceva verso i monti lontani, ho visto la scena da un punto alle spalle della bimba, sicché con lo sguardo ho potuto comprendere una superficie sempre maggiore delle massicce pareti di vetro o ghiaccio o cristallo del barattolo, che non era affatto un barattolo, bensì un immenso castello, una costruzione ottusa, con cornicioni e stucchi, modanature e gorgoni, lucernari e balconi, merlature, torri e grondaie solo ed esclusivamente di materia fredda e traslucida. Al centro delle mille sale dalle pareti trasparenti stavamo io, steso in terra, e la bimbetta nel vano della porta spalancata, e alle sue spalle, dall'atrio del castello fino alla stanza centrale, centinaia di porte aperte con i lucchetti insanguinati.

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Per circa un mese questo è stato il nostro luogo di gioco. Non pensavamo ad altro che ai racconti del Mendebile, dei quali aspettavamo la continuazione giorno dopo giorno. Quando non aveva voglia di continuare, giocavamo al tennis di piede, raccontavamo barzellette, parlavamo di calcio. Lui non s'immischiava granché in tali discussioni, e noi trovavamo naturale il suo atteggiamento. In breve tempo c'eravamo resi conto che il ragazzo, più piccolo di quasi noi tutti, ci superava di molto in qualcosa a cui nemmeno avevamo pensato fino a quel momento. A casa stordivamo i nostri genitori con "il Mendebile ha detto, Mendebile ha fatto..." Col tempo però, dal suo trono di cemento e metallo, il ragazzo ha cominciato a parlare, tra le storie e come sognando, d'altre cose che non erano più solo spade e cavalieri. Semplicemente interrompeva certe volte un racconto e, con una voce cambiata, ferma e severa, impossibile da contraddire, diceva alcune frasi che noi ci sforzavamo inutilmente di comprendere.

Qui volevo arrivare. Mi chiedo atterrito come sia possibile che io ricordi delle parole che allora non potevo nemmeno comprendere e che credevo di dimenticare non appena erano state pronunciate. Alcune delle sue bizzarre "teorie" contraddicevano apertamente quanto ci avevano detto i nostri genitori o noi stessi avevamo sentito nelle trasmissioni di divulgazione scientifica "per il popolo": La rosa dei venti alla radio e Telenciclopedia alla tivvù. Il Mendebile le riempiva però di significato e di suggestione, non so dire come, con la semplice sua presenza, con la voce e i gesti, senza contare che le cose dette da lui avevano, in sé, qualcosa di un altro mondo. Credo che soltanto un frammento di tutto ciò che ho letto in vita mia possa essere comparato nella sua essenza con quanto ci diceva all'epoca il ragazzo: la descrizione della regione dei beati nel Fedone. Solo perché vi facciate un'idea, annoto qui, numerandole, le poche siffatte teorie che ancora ricordo, enunciate dal Mendebile nelle sere rosso fiamma o nei mattini azzurri, tra i muri giallo acceso della Scala Uno:

1. Nella mia testa, sotto la calotta cranica, c'è un homunculus che mi assomiglia alla perfezione: ha le medesime sembianze, si veste allo stesso modo. Ciò che fa lui, faccio anch'io. Quando lui mangia, io mangio. Quando lui dorme e sogna, io dormo e sogno esattamente gli stessi sogni. Quando lui muove la mano destra, muovo anch'io la mia. Perché lui è il mio burattinaio.

Ma la volta del cielo non è altro che il cranio di un bimbo enorme, il quale pure mi assomiglia alla perfezione: ha le medesime sembianze, si veste allo stesso modo. Ciò che faccio io, fa anche lui. Quando io mangio, lui mangia. Se io dormo e sogno, lui dorme e sogna lo stesso sogno. Perché lui muova la mano destra, è sufficiente che muova la mia mano destra. Poiché io sono il suo burattinaio.

Il mondo circostante è lo stesso per me e per lui. Tanto il mio burattinaio quanto la mia marionetta sono circondati da un Lutà, da un Lumpà e da un Mimi e da voi, e da tutti gli altri, i quali pure sono simili a voi. Questo tappo di birra che sta per terra esiste anche nel mondo piccolo, piccolissimo, del mio burattinaio, nonché in quello grande, grandissimo, della mia marionetta. Per il fatto che tutto è uguale.

Nel mio burattinaio esiste però un altro burattinaio, che sta nel suo cranio e mi assomiglia alla perfezione, e in lui ce n'è un altro ancora più piccolo e così via, all'infinito. E la mia marionetta manovra un'altra marionetta, molto più grande, nel cui cranio essa vive, e che manovra a sua volta un'altra marionetta e così sempre, ancora, all'infinito. Il loro mondo è uguale al nostro mondo.

Io stesso non so quale elemento di questa sequenza io sia. Nel momento in cui vi racconto ciò, una teoria infinita di marionette e di burattinai parlano nei loro mondi a una teoria infinita di ragazzi, utilizzando le medesime parole.


2. La terra è un animale provvisto di capacità logica e di volontà. Essa ha però una volontà molto maggiore della nostra, di noi che siamo a essa vincolati. Gli uccelli e le farfalle posseggono in verità una volontà più forte, perciò possono volare. Noi stessi, se fortifichiamo la nostra volontà, diventiamo leggeri come l'aria. (Il Mendebile ci ha offerto anche una dimostrazione pratica di questa teoria. Si è messo accovacciato nell'atrio della Scala Uno e, afferrando le ginocchia con le braccia, ha reclinato il capo all'indietro. Quindi ha stretto forte le palpebre e ha cominciato a entrare in tensione, così tanto che ci siamo spaventati. In quei momenti il suo volto non aveva più nulla di umano. Tremava a labbra serrate e con le guance letteralmente gonfie di sangue, come dei sacchi solcati da vene bluastre. Dopo qualche minuto, Martaganul e Vova l'hanno sollevato fino al soffitto con un solo dito ciascuno, disposti alla sua destra e alla sua sinistra. Abbiamo giocato quasi un quarto d'ora soffiando e spostando da una parte all'altra il gomitolo vivo che, in posizione fetale, era diventato leggero come un palloncino).


3. Le donne non si accoppiano mai con i maschi. Esse portano nel grembo una cellula. Quando raggiungono l'età giusta, vogliono partorire. Allora danno il via alle tappe della nascita, che sono le seguenti: dalla cellula viene fuori una pulce. Dalla pulce, uno scarafaggio. Dallo scarafaggio, una piccola rana. Dalla rana, un topo. Dal topo, un porcospino. Dal porcospino, una lepre. Dalla lepre, un gatto. Dal gatto, un cane. Dal cane, una scimmia. Dalla scimmia, un uomo. Le donne possono fermarsi a qualunque tappa. Alcune partoriscono rane, altre gatti. Però la più parte di loro desidera avere bambini. Esse potrebbero generare un essere ben più meraviglioso di un bimbo, poiché le tappe della nascita non s'interrompono con l'uomo. (E il Mendebile soggiungeva: "Io ho visto un essere siffatto.")


4. Gli uomini non sono tutti uguali. Essi sono di quattro tipi: quelli che non sono nati, quelli che vivono, quelli che sono morti e quelli che non sono né nati, né vivono, né sono morti. Questi ultimi sono le stelle. (Tale brevissimo discorso è stato tra gli ultimi pronunciati dal Mendebile, appena prima del suo declino. Vedo realmente davanti ai miei occhi la scena. Credo che fossero all'incirca le nove di sera e aspettavamo da un momento all'altro di sentirci chiamare dai balconi dai nostri genitori. Scorgevamo ancora a malapena lo scintillio dei nostri occhi nell'ombra della sera. Sopra il mulino, il cielo era violaceo. Assai in lontananza scintillava una piccola stella rossa. Era quella in cima al mastodontico edificio stalinista di Casa Scānteii. Il Mendebile sembrava presentire qualcosa, dal momento che non aveva avuto mai tanta sofferenza e desiderio e nostalgia nella voce come quando ha sollevato repentinamente il braccio e teso l'indice della mano verso quella porzione di cielo costellata di stelle al di sopra delle ciminiere del mulino.)


5. Questa frase l'ha pronunciata dopo avere ascoltato un litigio tra Paul e Nicusor, che erano giusto usciti di casa con un bel po' di bandierine di carta rosse e tricolori, rosso giallo e blu, che provenivano dai materiali di propaganda del corteo. "Papà mi ha portato dalla sfilata dieci bandierine," diceva Paul. "Il mio papà me ne ha portate cinquanta, diceva Nicusor. A me, però, papà mi ha portato cinquecento bandierine," diceva Paul. "E a me ne ha portate un milione, di bandierine," diceva Nicusor. "A me ne ha portate un miliardo, dalla sfilata," diceva Paul. "A me invece ha portato un quadriliardo di bandierine," diceva Nicusor. "A me ha portato cinque milioni di centinaia di quadrilioni di bandierine," diceva Paul. "Però il mio papà mi ha portato un infinito di bandierine," diceva Nicusor. "E a me papà ha portato un milione d'infiniti," diceva Paul. "Ma non è possibile, papà mi ha detto che il numero più grande che c'è è un infinito. Non esiste un numero più grande.") No, non esiste un unico infinito. Esiste un'infinità di infiniti. Su questo righello di dieci centimetri esiste un'infinità di punti, ma su questa linea, di un metro, devono essercene di più. Un infinito qualunque io lo chiamo Toro, perché ho questo sacchetto al collo con su ricamato un toro e m'immagino di avere nel sacchetto un infinito, un universo intero in cui si trovano molti mondi come il nostro. Ma che cos'è questo sacchetto rispetto a me, che sono fatto da un'infinità di punti? Non è altro che un infinito più piccino. E questo edificio è un infinito più grande di me. In tutto il mondo non esistono se non infiniti maggiori o minori: la sedia è un infinito, il garofano è un infinito, questo gessetto è un infinito. Infiniti che si affastellano l'uno nell'altro, che si divorano reciprocamente. Ma esiste un infinito che comprende tutti gli altri infiniti. Me l'immagino come una torma infinita di tori.

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REM



Cortàzar, un García Màrquez sbrindellato (Erendira in edizione di lusso con illustrazioni), il Manoscritto trovato a Saragozza nella rilegatura rigida di cartone rosso scuro, all'incirca un metro della collana "Il Romanzo del xx secolo" e più file variopinte di raccolte di tascabili e libri della casa editrice Univers, libri lucidi, con copertine in bianco e nero, della "Biblioteca d'Arte" (intravedo subito L'intelligenza delle forme di Sendrail, L'arte fantastica di Brion e ogni sorta di altro bla-bla su gotico, manierismo, barocco, rococò e arte moderna, la quale deriverebbe tutta dal gotico, dal manierismo, dal barocco o dal rococò). Ponderosi, della consistenza e quasi delle dimensioni di certe raccolte di planches, i libri d'arte fanno incurvare l'intero ripiano su cui giacciono in obliquo, tutti belli e rilucenti, con un qual certo odore chimico. Uno soltanto è girato un po' sul davanti. Č possibile vedere sulla copertina una specie di roulotte in legno con le persiane spalancate, in un paesaggio di edifici rossastri, con volte e cornicioni che si perdono in prospettive senza fine. Credo che sia un'immagine al crepuscolo, non troppo sul tardi. L'ombra di una bimbetta che gioca con il cerchio si proietta lunga sul selciato. Degli altri album si vedono solo i dorsi, con il nome in bianco, ben stagliato, dei pittori: Tintoretto, Guardi, Leonardo, Degas, Harunobu, Pontormo, Mantegna. Su altri scaffali, solo libri di poesia: la collana a strisce variopinte "Le piu belle poesie" (quanto si addica il marrone a Eliot, il verde elettrico alla poesia americana, il mattone a Ritsos! ma non sarebbe nemmeno possibile immaginarseli in altro modo), la collana "Orfeo" con copertine di carta ruvida grigio-azzurra (ricorderemo qui l'ottimo Dylan Thomas: "Com'ero giovane sotto i rami del melo..."), infine la collana squadrata ma ben riuscita "Poesis", con il nero cupo di Wallace Stevens e il verde scuro di Rimbaud. Una parete di libri, fino al soffitto, su ripiani quasi invisibili. Un'armoniosa confusione, un cosmo libresco. Sei un filosofo? Vieni spostato nel tuo abito color crema, con un rettangolo azzurro sulla costola, dov'è segnato il tuo nome e ciò che hai scritto. Sei un saggista? Il tuo posto è lì, tra Petros Haris e Camus, e devi indossare abiti luttuosi. Sei politologo, studioso di fisica atomica, biologo con qualche idea originale, sociologo, antropologo? Vai a "Pensiero contemporaneo". Hai il diritto di sceglierti il colore, dal giallo limone fino al viola. Sei un qualcosa di indefinito, romanziere sconosciuto o arcinoto, autore di manuali? Volume a sé, con tutti i vantaggi e gli svantaggi. Sei ingegnere edile, docente di resistenza dei materiali, costruttore di caldaie, matematico? Spiacenti. La signora che vive in questo monolocale non ti acquisterà mai.

Un monolocale minuscolo, verso la periferia di Bucarest. Si arriva qui cambiando più autobus e sperdendosi per stradine grigie. La scala del palazzo ha pareti dipinte in un colore verde pallido e puzzo d'immondizia. Qualche pianta di asparago completamente appassita in un vaso di coccio, su un supporto di ferro battuto qualche foto rovinata, con il monastero di Voronet, un oleandro in una cassetta di legno dal cui fondo vengono fuori piccoli scarafaggi rossi: è più o meno questo che si vede nei corridoi, in fondo a una lunga sequenza di porte numerate che è possibile immaginare estremamente sottili. Caseggiato di monovani, del tipo comfort minimo. La sua stanza è però ben curata e bella. Sotto gli innumerevoli scaffali (adesso vedo alcuni grandi trattati, ponderosi, di oncologia, un volume sulle adenopatie, un'altro dal titolo porpora, aggressivo: Leucemia) si trova un sofà doppio, ricoperto con una cergà pelosa, rossa, che pare essere caldissima. Sarebbe anche il caso. Il calore arriva probabilmente con difficoltà qui, ai margini della città. Il pavimento, a sorpresa: di maiolica! E su di essa due piccole pelli grigie di coniglio. Lungo il sofà c'è a stento il posto per passare. Eppure, in quello spazio ristretto viene stipato anche un tavolinetto su cui ci sono un cesto di mele e un portacenere. Sotto il tavolino giornali e riviste, in prevalenza "Luceafàrul", "Orizont" e, in fondo a tutto, un numero ingiallito di "Romania literarà". Accanto alla finestra, sulla sinistra, una nicchia con un lavandino e una parvenza di tavolo da cucina. Proprio vicino all'ingresso, il bagno con doccia e wc. Sulle pareti della camera, ben intonacate, degli arazzi colorati in degradé: un tramonto, una bimba con l'oca e una donna che legge una lettera accanto alla finestra (probabile copia da Vermeer). Li ha chiaramente cuciti lei da piccola.

Nella stanza per il momento non c'è nessuno, ma la sento arrivare. Il filo che mi lega ai suoi mezzi di trasporto, con dei numeri impossibili da ricordare (trecentosessanta e qualcos'altro; centoventi e chissà cosa), alle strade da lei percorse, segnate da scuole e officine, entra in vibrazione. Allungo le mie esilissime zampe nella stanza. Trepido dal desiderio, per l'attesa. Mi apposto alla finestra, quindi, con mossa repentina, corro alla porta. Mi ficco tra i libri, lasciando fuori solo le grinfie da cui scorre il veleno. Mi aggiro per il bagno e frugo tra le pentole del cucinino. Č l'antica fame, la caccia atavica, che non cessa mai. Su una poltrona, all'angolo del letto verso l'ingresso, c'è una cartellina chiusa con dello spago. Accanto, un minitelevisore, con uno schermo grande quanto una cartolina postale, e la lunga antenna cromata mezza storta. Apro la cartella, per ingannare l'attesa. Č un oroscopo fotocopiato su carta pesante. I segni dello zodiaco sono raffigurati con disegni sbiaditi, complessi. Comincio a leggere a caso tra i maschi nati sotto i Gemelli, mi annoio però presto e riannodo lo spago della cartellina. Mi guardo ancora intorno e lo sguardo mi cade su una pila di dischi, posti su un ripiano impiallacciato. Ne prendo uno che ha sulla custodia una grande foto a colori di un ragazzo che tiene per le corna uncinate un enorme ariete villoso. Proprio in quel momento, sento dei passi nel corridoio, una chiave gira nella toppa della Yale ed entra lei.

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Pagina 195

Non ti soffermi troppo, né ci tengo granché, su tuo marito. Dici che era alcolista e che l'hai lasciato dopo sette anni di matrimonio. Sette anni di scalogna. Lanciava dalla finestra i tuoi romanzi, i tuoi volumi di poesia. Alla fine, cinque anni fa, hai divorziato da lui. Ti ricordi che il divorzio è stato emesso più o meno in quest'epoca, nel mese di dicembre. Hai subito lo choc peggio del previsto. La notte di Capodanno ti sei sentita tanto sola, senza uno scopo nel tuo monolocale di via Stefan cel Mare, la prima abitazione in cui ti eri trasferita, e sei uscita giusto a mezzanotte a passeggiare sul viale del Circo. Sei scesa fino al lago e lì, in una dimensione strana, avvolta nella nebbia, hai incontrato un adolescente che se ne stava in ginocchio e guardava attraverso il ghiaccio spesso le profondità del lago. Hai cominciato a piangere. Ancora adesso rabbrividisci quando ti ricordi quella scena. Lui che ti accompagna, severamente, fino alla strada, lasciandoti lì. Lui che dispare lentamente nella nebbia. Non l'hai mai più visto, come pure tuo marito.

Ti chiedo quando hai fatto per la prima volta all'amore e ti sento sorridere nell'oscurità densa. Ti accarezzo il volto con le dita e stai realmente sorridendo. Scoppiamo a ridere tutti e due. Mi dici che non ha assolutamente alcuna importanza quando e con chi l'hai fatto per la prima volta. Però, se ho pazienza, potresti raccontarmi qualche cosa di molto più interessante, e cioè quando ti sei baciata per la prima volta con qualcuno. "Perché, ci si può baciare anche altrimenti che con qualcuno?" ti chiedo, mentre la mia mano continua a carezzarti senza fretta, con la voluttà di un cieco, i contorni del volto. "Certo," mi dici, e sento le tue labbra muoversi. Mi mordi piano un dito. Poi: "Quand'ero piccola, mi baciavo allo specchio." Quindi a voce bassa, riservata, mi poni una strana domanda: "Hai mai sentito parlare di REM?" "No, non credo, borbotto io, senza essere granché attento o curioso. Su, dimmi come hai baciato la prima volta. E aggiungo, citando Ion Barbu: «Parlami della lappone Enigel / E di Crypto, il re-fungo»". E tu, mia cara Sheherazad, cominci il tuo racconto meraviglioso. L'isola di smeraldo si erge ora a migliaia di metri sopra le acque in cui riflette le proprie falesie. Solo un sentiero conduce fin lassù. Lì si stende un prato ricoperto con tarassachi gialli, margheritine e bocche di leone selvatiche. Farfalle e libellule, dagli occhi limpidi, enormi, roteano sopra i fiori. Più in là c'è una macchia di alberelli fioriti. Arriva fino a qui il profumo di scorza d'albero.

Ti racconterò dei fatti avvenuti verso il 1960 o l'anno dopo, quand'ero ancora una bimbetta, non avevo più di dodici anni. Abitavo con i miei in Calea Mosilor, in una di quelle case strane, con il secondo piano aggettante, due colonne sottili all'ingresso, con ogni genere di grotteschi mascheroni, di gesso, messi dappertutto. Giusto sopra l'ingresso stava sospeso il balcone, alla cui base c'era un gocciolatoio che veniva fuori, come nei vecchi sifoni per il selz, dal becco spalancato di un'aquila in metallo. Il balcone era minuscolo, eppure d'estate diveniva il luogo preferito dei miei giochi, quasi la mia residenza permanente. Lanciavo contro il pavimento una grossa palla a strisce arancione, azzurro e rosso porpora o guardavo per lunghi minuti, tra i ferri della ringhiera coperti di edera, verso la resta dell'aquila dove gli occhi, il becco e le narici inarcate, come pure ogni ciocca che ne ricopriva la cresta, erano minutamente cesellati nel metallo rosso scuro. Quando, dopo aver cullato per ore una bambola e aver cantato da sola, in pieno sole, entravo in casa conservando ancora negli occhi i riflessi lucenti dell'edera, le stanze mi sembravano lugubri come loculi. La sera, dopo cena, uscivo di nuovo a osservare le stelle. Non so perché, ma mi sembra che all'epoca ci fossero molte più stelle nel cielo di quante se ne possano vedere ora. Così, c'erano molte più eclissi, quasi ogni settimana c'era un'eclisse di sole che osservavo attraverso pezzetti di vetro affumicati, preparati in anticipo. Te ne ricordi? Ma tu all'epoca eri assai piccino... Allora c'erano anche nevicate più consistenti, e in quell'anno, in estate, era comparsa ad un tratto nel cielo una cometa, con sei diverse code che si spegnevano nel cielo. La osservavo dal balcone senza stancarmi mai, come se ne stava immobile, una macchia biancastra tra le stelle, giallo splendente con migliaia di punte aguzze. Dalla strada, allora pavimentata con pietre e delimitata da costruzioni simili alla nostra, intonacate in varie sfumature di rosa e di mattone, decorate a buccia d'arancia, con la stuccatura malandata, con le finestre provviste di persiane polverose, si sentivano gli echi dolciastri delle canzoni del tempo, le quali ancora oggi mi producono una stupida nostalgia: "Entra la luna dalla finestra / entra nella cameretta nostra..." Se salivo nella soffitta della casa e guardavo dal lucernaio (una specie di lunetta, in realtà, segnata da altre due effigi di quel popolo di gorgoni che c'era in Mosilor, ad una delle quali mancava un braccio: tendeva verso le stelle solo uno spuntone di ferro che aveva sostenuto lo stucco), vedevo al di sopra dei tetti circostanti le réclame palpitanti della città, rosse e verdi, intense, che si accendevano e si spegnevano a intervalli regolari. Ce n'era in particolare una, di colore zaffiro, collocata sopra un edificio del centro, che oggi non esiste più. Non appena si spegneva, chiudevo anch'io gli occhi e contavo fino a undici. Quando li riaprivo, dovevo vedere, in quello stesso attimo, la réclame che si accendeva nuovamente. Essa rifletteva sul volto lucente della mia bambola, con la testa di cartapesta, una luce accurrognola che si spegneva per far posto a un'ombra rossa con striature e macchie verdi. Me ne stavo in soffitta, osservando i profili neri della città, finché udivo mio padre ciabattare su per la scala. Saliva, mostruosamente, un'enorme statua di carne rossa che occupava tutto il vano d'accesso alla soffitta. Avevo tanta paura di lui, anche se non mi batteva mai, anzi mi prendeva tra le braccia e si avvicinava anche lui con me alla piccola finestra rotonda. Una testa grandissima, una testa più piccola e una ancora più piccola (la testina di cartapesta con le codine di spago marrone di Zizi, la mia bambola, che si chiamava così perché mi piaceva ascoltare alla radio la voce della cantante Zizi Serban), tre teste, sei occhi rotondi si affollavano per osservare le stelle. Quindi ridiscendevamo nei nostri tuguri.

Di rado, molto di rado, uscivo di casa. Non avevo amiche e i miei genitori erano molto appartati. La mamma, poverina, usciva soltanto per fare la spesa, mentre mio padre solo per andare fino al suo misterioso lavoro, da cui provenivano i nostri soldi. Quando si decidevano a portarmi a spasso, ero felice. Non dimenticherò mai quando sono stata con mio padre alla città dei Ragazzi, in Piala Natiunii, avevo all'epoca circa quattro o cinque anni. La città mi è parsa immensa. C'era in mezzo un abete alto fino al cielo, pieno di lampadine colorate, festoni di tanti colori, grandi pacchetti di cartone avvolti in fogli di stagnola, rossi, blu e oro, palle grandi quanto una testa d'uomo, fili dorati spessi come una mano. In cima, l'abete aveva una stella rossa a cinque punte, che riusciva a riverberare di rosso la neve di tutta Bucarest. Nei viali c'erano specchi deformanti e figure alte quasi tre metri, fatte di neve artificiale, nel cui torace si aprivano vetrine con complicati macchinari. Si vendevano dappertutto lecca-lecca a spirale, limonata in bottigline rugose, ben tornite. C'erano grandi scatole, con sotto il cellophane strane forme di zucchero colorato, c'erano dei Babbi Natale di pangiallo e altri in carne e ossa, che raggruppavano in vari punti i bambini e gli raccontavano fiabe. Camminando nel labirinto non era possibile smarrirsi, poiché su ogni pannello c'era una freccia che indicava la direzione giusta. Una topaia lunga e vistosamente colorata custodiva la balena Goliath, che abbiamo visitato anche noi, accalcandoci nella folla: un cilindro enorme, viola, come di gesso dipinto, con immense pinne e fitti fanoni nella bocca. Balene si chiamavano anche le lamelle flessibili di plastica, che mio padre portava nei colletti delle camicie, per tenerli tesi. Le vendevano gli zingari agli angoli delle strade. La cosa più bella nella città dei Ragazzi, oltre all'abete, mi è parsa però la navicella spaziale Vostok, a grandezza naturale, sulla cui punta si poteva salire, come dentro a una torre. Su, dentro la cabina, si vedevano le due cagnette Strelka e Belka, fatte di pezza e di lana arricciata. Bisognava quindi scendere subito dalla parte opposta, poiché venivano a turno ancora altri ragazzi che volevano vedere le cagnette, prese in complicate briglie con decine di fibbie. Mio padre mi raccontava che, prima di loro, era stata spedita nel cosmo un'altra cagnetta, Laika, e che questa era rimasta sulla luna. Talvolta me ne stavo a osservare, sul cristallo annerito, le macchie della luna, quand'era sereno, ma lì, per quanto mi sforzassi, non vedevo nulla. Più in là c'era anche un cannocchiale, su un treppiede, impiastricciato di tanti colori. Mio padre ha dato anche lì dei soldi e ho potuto guardarci dentro. Credevo che avrei visto le stelle piene di foreste e di fiori e le ragazzine che vi abitano, ma attraverso le lenti rotonde non ho visto che migliaia di simmetrici pezzettini di vetro che andavano a formare immagini diverse se si ruotava un po' il tubo. Sembravano dei fiocchi di neve, grandi e splendenti. Me ne andavo piangendo per quel dispendio di luci e di colori, come non avevo mai visto. Passavamo accanto a un edificio sul cui tetto c'era un pannello con migliaia di lampadine, su cui scorrevano le notizie, lettere che fuggivano verso sinistra, formate da lampadine gialle che si accendevano e si spegnevano. La gente, con le mani piene di regali, stava lì, per lunghi minuti, a seguire quel via vai di parole. Ce ne siamo tornati a casa percorrendo la città dominata da una luna piena immensa.

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