Copertina
Autore Iride Cristina Carucci
Titolo Amalia a perdere
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2002 [2001], La bottega del racconto , pag. 240, dim. 115x165x15 mm , Isbn 978-88-359-5087-5
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa italiana
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Pagina 7 [ inizio libro ]

Nuvole


Erano stracci bianchi e morbidi o schiuma lattiginosa, soffice che a tratti occupava il cielo nero della notte sospingendolo sopra tetti, ammassandolo negli angoli dei balconi, sprofondandolo sugli alberi spogli, sulle teste della gente.

Ancora, quella notte stava inghiottendo tutto... e se poi mattina non fosse arrivata?... E se poi fosse stato sempre cosí?!... Vagare nel nulla della notte con le sottili lame di luna che creavano mostri, allungavano spigoli, gelavano asfalti, costruivano trappole dove, se mai non si fosse fatta attenzione, si sarebbe entrati per sempre.

Tutto era sospeso su quella voragine buia e su quelle spade di luna.

E se mattina non fosse arrivata?!... Non c'era niente da opporre alle tenebre, neanche il piú piccolo progetto di salvezza.

Il vento freddo, solitario si infilava tra i capelli, penetrava dentro la testa, nella carne, nelle ossa, nel lago deserto del cuore. La mussola della camicia da notte, scossa da quel tremito, si appiccicava al corpo, succhiava il chiarore lunare diventando fosforescente relitto nel mare della notte.

I piedi attaccati alle mattonelle fredde della terrazza ne penetravano la porosità, la durezza e formavano radici lente, lunghe fino alle viscere profonde, scure, calde della terra.

Ora lei era tutt'uno con il giardino spoglio dell'inverno, con le ombre dei rami, con il silenzio dei fili d'erba seccati dal gelo della notte. I suoi capelli, sottili metalli attorcigliati all'albero scabro in mezzo al giardino.

L'alito freddo della notte la immobilizzava sotto quelle scaglie aguzze di luna. Solo le radici dei piedi, in uno spazio remoto avevano toccato il ventre molle, caldo, rosso, palpitante della terra.

Forse una speranza, o forse un sogno di naufrago.

Che cosa le era accaduto? Perché era stato inevitabile perdersi a quel modo? Perché una rovina?

La sua vita era stata un solitario sfaldarsi giorno dopo giorno, un impercettibile raggelarsi momento dopo momento, per anni, per secoli. Silenzioso, occulto, inavvertibile. Ed ora, solo ora, se lo diceva e se ne rendeva conto; ma ora, era già tardi.

La sua coscienza era stata tardiva, era stata un lampo, aveva illuminato una parte, ma lasciato al buio tutto il resto.

La sua casa, bella, chiara di luce e di solidità di giorno, si perdeva esausta insieme agli altri relitti nel vento della notte.

Nella stanza da letto, con la luce sinistra della luna nella camicia da notte e nelle membra gelide, Amalia portò il freddo di fuori.

Lo scricchiolio leggero del pavimento di legno sotto il suo peso, il cigolio della finestra che si richiudeva, si dilatarono nel sonno profondo della camera, che pareva senza risveglio.

Nel letto matrimoniale la sua parte disabitata l'accolse col peso freddo delle coperte.

Vicino, Osvaldo, emanava un calore intenso; la mole squadrata del suo corpo affossava il materasso ed il cuscino, quasi a formare una nicchia. I contorni della figura si sollevavano e si abbassavano con regolarità al suo russare. Pareva che un dolore tremendo si addormentasse con lui a schiacciarlo nel sonno e sparisse non appena apriva gli occhi.

Nella stanza l'alito caldo e acre dell'uomo si spandeva, a riempire il letto, a toccare il volto freddo di Amalia.

La vicinanza dei corpi acuiva la povertà della distanza di quei viaggiatori nel mistero della notte.

Amalia non osava muoversi, a tratti, tratteneva il respiro.

Il freddo si faceva piú intenso e rattrappiva ogni movimento.

Nella lenta rotazione della terra, sospesi nel vuoto, piccoli esseri separati, viaggiavano ogni notte nell'immenso spazio del nulla. Dentro la navicella del letto, ognuno di loro giaceva solitario dopo il tumulto della giornata.

Eppure un'illusione c'era stata che aveva mescolato i corpi e le anime, vinto i deserti, acceso sorrisi di potenza, di eterno. Fuochi fatui, stelle cadenti.

Il piede alieno di lei toccò la carne calda di Osvaldo che subito si scostò, immerso in un sonno muto e profondo.

Amalia provò un senso di nausea che le chiuse l'imboccatura dello stomaco.

La solitudine della notte le diveniva insopportabile, il suo gelo avrebbe avuto bisogno di calore, il suo nulla di un altro nulla.

Sul comodino i numeri rossi della radiosveglia erano in agguato contro di lei inerme.

Una prigione spontanea, come rovo selvatico, a cerchi concentrici, dapprima ampi, poi sempre piú stretti, lentamente l'aveva richiusa.

Ora l'intrico era diventato fitto, pungente e feriva la carne, lacerava l'anima; bastava un minimo movimento, un lieve tentativo di fuga a renderlo sempre piú avvinghiante.

Cosí Amalia languiva in quella immobilità dolorosa che non lasciava presagire fughe o strappi.

Nella sua vita non c'erano vistosi tradimenti, frenetici alzar di voci, precipitosi scalpiccii, ma tranquilli inferni di lontananze ravvicinate, di parole straniere che rimbalzavano da una solitudine all'altra.

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Pagina 63

La vita leggera


La primavera andava avanti, con le sue bizzarrie.

Ora, folate di vento freddo scuotevano impauriti boccioli, strappandone in mulinelli i petali, come foglie già vecchie agli angoli delle strade.

Ora, un caldo improvviso toccava la linfa degli alberi e i rami indurivano in turgide protuberanze.

Le finestre si spalancavano, entravano odori a spessi strati: fiori, smog, cucina.

Il caldo si mescolava in un aroma dolciastro e appiccicoso che prendeva in un senso di vertigine.

Gli abiti si coloravano, giú per via Zamboni si accendevano, i fazzoletti rossi intorno ai colli.

Per moda? Per segni di riconoscimento?

Del gruppo degli anni precedenti, erano rimasti solo in quattro.

Ormai si vedevano quasi ogni giorno come fossero sopravvissuti, passati inosservati, agli smistamenti della vita.

La sera, passeggiavano per Piazza Maggiore. Amalia e Osvaldo chiacchieravano vicini e distanti come consueti amici. Francesco stringeva, appiccicandola a sé, Felicita.

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Pagina 70

Al Partito


«Ben fatto ragazzo, ben detto!... Cosí t'hanno fatto segretario del partito giovanile! Bravo... bravo!»

Si rigirava la lingua attorno alla bocca, il grasso usciva dal collo stretto della camicia.

Stava seduto a fatica, con la pancia sporgente e le gambe allargate e raccorciate.

Tamburellava dita grassocce, da abate, e di tanto in tanto, si passava l'indice tra gli ispidi baffetti. Gli occhietti erano cunei vivaci tra i rigonfiamenti delle gote e il fosco delle sopracciglia.

«Bravo figliolo, bravo!... Tu farai strada... dai retta a me che non sono l'ultimo arrivato!... L'è qualcuno qua dentro il dottor Strozzi...»

Continuava in un dialetto stretto che non aveva dimenticato la campagna.

«Al padrone ci chiediamo il permesso, come da legge, e per un po', invece di andare a fadigare, vieni qua, si butta giú un programmino, si organizza volantinaggio... Dai... dai glielo facciamo vedere noi a quei figli di buona donna!...»

Osvaldo orgoglioso, lo guardava, per niente intimidito, oltre il ripiano grigio della scrivania che li divideva.

Nell'enfasi delle parole, allo Strozzi, di tanto in tanto, scricchiolava la poltrona nera di finta pelle, con acuti dolorosi.

Le mani rimestavano con importanza l'ammasso bianco di fogli, carte, cartine, sulla scrivania.

Dietro la testa dell'uomo, rotonda e zazzeruta che si recrinava e si alzava a dare l'assenso alle parole, gli occhi di Osvaldo incrociarono il manifesto del Quarto Stato.

Le braccia vigorose della donna che marciava in testa ai dimostranti che quasi sembravano distaccarsi dalla parete della stanza ed entrarvi dentro con autorità.

Un senso di importanza gli gonfiava il petto e gli tendeva la mascella squadrata.

In quel momento si sentiva che avrebbe fatto tutto, sarebbe stato disposto a tutto, a qualunque atto eroico e salvifico.

Avrebbe d'ora in poi lavorato lí dentro e sarebbe stata la persona piú importante dopo lo Strozzi.

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Pagina 80

In Osvaldo, le battute, i luoghi comuni, le volgarità, prese in prestito dal cinema o dalla tv erano paraventi di canne leggere che lo difendevano dal mondo, intrappolandolo nella confusione.

Piú tardi, ne avrebbe compreso la paura e lo smarrimento.

Amalia si sentiva impotente, sorrideva e lo assecondava in quel delirio, diventando il suo trastullo.

Spesso accadeva che Osvaldo la umiliasse, ma poi, con repentino cambiamento d'umore, l'attirasse a sé, baciandola appassionatamente.

Su quel mare incerto, dalle onde pericolose, lei si consumava.

Il buio s'era allargato a raffreddare i respiri della stanza.

Ne era rimasta avvolta, insieme alle cose che in quell'insignificante spazio erano naufragate con lei, per quella giornata.

Si scosse dal torpore, accese la luce.

Ora anche la sua finestra, nel presepio della sera, avrebbe fatto l'invidia e la malinconia di chi si trovava fuori, e aveva fretta di rincasare.

Nel silenzio della cucina, si sentiva già prevenire dal piano di sopra la sigla del telegiornale.

La voce defl'annunciatore zittiva la famiglia riunita davanti ai piatti della cena, permettendo solo un indispensabile tramestio di stoviglie.

Scendevano filamenti di solitudine che si legavano a quelli della sua cucina a formare una trama nella quale si muovevano gli abitanti di quella serata.

Il respiro faceva paura, come un intruso.

Martellanti i passi di lei che preparava la cena. Assordante lo sfrigolio della fettina nella padella.

La luce crepitava sulla scena della cucina.

Apparecchiò col tovagliolo di carta il tavolo pieghevole accostato al muro e fece posto al piatto, accantonando libri e fogli.

Riempí un bicchiere d'acqua.

Cosí, stando seduta di fronte al muro, Amalia ne scorgeva muffe, preziose infiorescenze, bombate nuvole, abbozzi di avide farfalle.

Mangiando o sollevando gli occhi dai libri d'esame, il paesaggio era screpolato e fantastico.

L'anima delle cose. Nostalgia nel ricordo.

I rebbi della forchetta pungevano i pezzetti di carne nel piatto.

L'altra seggiola, accanto a lei, era carica di libri.

Dopo cena, avrebbe riempito il modulo, si sarebbe inserita nelle graduatorie degli insegnanti supplenti. Forse... l'avrebbero chiamata...

Cosí, dunque, si sarebbe entrati nel mondo degli altri, di quelli che lavorano, che guadagnano, di quelli che mangiano il loro pane.

Dunque, all'improvviso e silenziosamente, stava cambiando tutto?

E la casa, quelle due camere sul vecchio cortile, non sarebbero piú state «degli studenti»?

Richiuse le tendine sui vetri della finestra.

Il crepitio rigido del nylon, un segnale appena a ricomporre le cose.

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Pagina 139

Dentro la notte


Giugno aveva bagliori d'acqua sotto la luna. Nell'aria tiepida brillavano le stelle primaverili, leggeri calici, rovesciati nella frescura della notte.

Sciabordava il mare, con increspature di schiuma attorno alle pietre, a schiarire l'oscurità.

Tremiti impercettibili le attraversavano a corpo, e se, su quelle notti cariche di attesa e di silenzi, Amalia socchiudeva gli occhi, le sembrava d'avvertire il crepitio fitto degli istanti, l'alito caldo della vita soffiarle sopra il collo.

Le pareva di udire il suo flusso ampio e silenzioso.

Poi, avvenne in fretta.

In una mattinata che schiariva a carpire neri guizzi di rondini e gesti frettolosi, si ritrovò in una strisciante macchina scura, bardata qua e là con dondolanti corolle e fiocchi bianchi inamidati.

Stormiva il suo capo sotto la ghirlandina chiara dei fiori che non riuscivano ad ammorbidire gli spigoli degli zigomi e la durezza del naso che spiccava tra occhi spaventati.

Tremolò sotto il velo delle lacrime, l'immagine di Osvaldo.

Vestito a nuovo l'aspettava davanti al sagrato.

Si sorrisero.

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