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| << | < | > | >> |Indice9 Godot a Napoli 10 Nota dell'autore 11 Il '68 e l'uomo che vendeva racconti 14 Piazza Dante come Spoon River 17 Il comportamento di Roberto Saviano 20 Quando Pasolini in treno attraversò Gomorra 23 Le biografie inconsapevoli dei volti di Montesanto 26 La necessità di partire per realizzare se stessi 29 Tra gli esseri umani di Luigi Incoronato 32 Vite archiviate 34 I writers hanno perso la fantasia 37 Il Nilo nei decumani 39 L'umanità dolente di Porta Capuana 42 Petru, Herta e la leggenda indiana 45 Ci salva la pastiglia di Gegè 48 Quando Lauro ci regalò la Fontana del Carciofo 51 L'inchiesta sul Vico si sciolse come la neve al sole del 1956 54 Quei vecchi cantastorie ci aiutavano a ragionare 57 Tutti i parenti di San Gennaro a New York 60 Da Napoli non si vede Chicago 63 La discarica nel MoMa e la parsimonia di Zhao 66 Pizzofalcone, quel mondo che parla all'Europa 69 Il presepe non è un posto per veline e notabili 72 Questa città straniera fugge la "napoletanità" 75 C'è il kitsch nella capitale della bellezza 78 Lo stupore della speranza e la cattiva politica 81 Dialogo tra Soterio e un Amministratore Locale (Alla maniera del Recanatese) 83 La politica ruba il mestiere agli scrittori. Racconta fiabe che sconfinano nelle frottole 86 Quei negozi travolti dall'ossessione dello shopping 89 La liturgia degli odori 92 Il dottor Capasso nella città barocca 95 Al dormitorio pubblico arrivano i libri 98 Le vuvuzuelas e le trombe di donna Antonietta 101 L'amore al tempo dei giovani napoletani 104 Al Lido delle Sirene bevendo orzata 107 Sul pontile, il vento 110 La lezione umanistica di Medicina 112 L'implacabile memoria dell'amianto 115 Se i poveri sono vergognosi 118 Ejzenštejn al Vomero 121 Lettera a un vecchio sindacalista 124 Sul treno di Petru un premio ai musicisti 127 Tre napoletani alla Bernari 130 La linea sottile che separa le nostre vite 133 Il Risorgimento che ci unisce 136 A Pozzuoli il percorso dell'Italia che unisce 139 Luigi Incoronato e le rampe dannate 143 Uno scrittore |
| << | < | > | >> |Pagina 9Godot a NapoliNe sono consapevole e me ne assumo la responsabilità. La rivelazione è di quelle che lasciano sconcertati: Samuel Beckett è nato a Napoli. Tutti credono che l'Autore dell'Assurdo sia irlandese, ma è un errore grossolano. Solo uno che è nato a Napoli può aver pensato Estragone e Vladimiro. Solo un napoletano può conoscere l'arte difficile e ammaliante dell'attesa senza inizio e, forse, senza fine. E poi, solo Napoli ha il suo Godot che non può, non deve mancare all'appuntamento a lungo rinviato. Potrà spostarlo di un giorno o di mille, ma quando il tempo sarà giunto, come nell'Ecclesiaste, egli si paleserà, perché le nottate passano sempre. E questo lo dice pure Eduardo, sulle cui origini napoletane sicuramente non ci sono dubbi. Beckett, fingendosi irlandese, ha dato all'entità di cui si attende la venuta un nome di copertura, un'astuzia raffinata per non chiamarlo espressamente San Gennaro o Maradona che poi, come le antiche divinità alle quali si attribuivano nomi diversi, sono la stessa cosa e fanno gli stessi miracoli. Infatti i miei concittadini li venerano allo stesso modo. Per questo, prima o poi, sono sicuro che anche a Napoli gli alberi si copriranno di foglie, per anticipare l'epifania tanto prefigurata. Godot, allora, sarà il nome del nuovo giorno.
Quindi, ora che lo sapete, ditelo agli storici della letteratura,
rimettete sui suoi piedi la verità a lungo negata: Samuel Beckett
è nato a Napoli!
Questo libro è dedicato a tutti coloro che continuano ad aspettare il loro riluttante Godot, a tutti i Vladimiro e gli Estragone che, a Napoli e in qualunque altra parte del mondo, attendono caparbiamente la notte che precede l'alba del giorno nel quale l'attesa avrà termine. Perché nulla è assurdo nel mondo capovolto dell'esistenza di città a lungo attraversate e narrate. | << | < | > | >> |Pagina 11Il '68 e l'uomo che vendeva raccontiDelle sere trascorse tanto tempo fa a piazza Sannazaro mangiando pizze e caponate, con il tanfo di fogna proveniente dalle caditoie, un ricordo si è presentato inaspettato, mentre la città non sapeva dove mettere i rifiuti che la invadevano. Mi è tornato in mente l'Uomo Che Vendeva Racconti. A piazza Sannazaro, durante il '68, era quasi obbligo andarci almeno una volta a settimana. Quando non si sapeva come concludere la serata, si decideva per un mare immaginato e negato: «Andiamo a Mergellina a farci una pizza». A Napoli ci si incontrava a piazza Medaglie d'Oro o a piazza Sannazaro. Alcuni di quelli che tiravano a far tardi, in quelle piazze ci hanno lasciato frammenti di esistenza e, a volte, la vita ce l'hanno lasciata tutta quanta, come la pelle dei serpenti dopo la muta. A piazza Sannazaro nel 1978 c'è morto Claudio Miccoli. Aveva vent'anni, era mite e sognatore. La morte gli si è presentata alle spalle, per frantumare ingenue speranze di giustizia. Sull'aiuola spartitraffico ora sono in pochi a notare che c'è un rettangolo di pietra a ricordare quella morte. A piazza Sannazaro ho diviso l'impepata di cozze e il fritto all'italiana con tanti amici dei quali non ricordo più nemmeno il volto e il nome, parlando di assalti al cielo e di mondi da capovolgere. Poi il tempo ha ridotto le mie frequentazioni della piazza, anche se abito solo a un chilometro in linea d'aria da quel luogo. A piazza Sannazaro, tanti, troppi anni fa, a una certa ora della sera, quando delle pizze rimanevano i cornicioni bruciacchiati e delle impepate i gusci tristemente neri e vuoti, compariva l'Uomo Che Vendeva Racconti. Era grosso di corporatura e aveva un'età indefinita, tra i quaranta e i sessanta. Girava tra i tavoli con movenze antiche, vestito da "povero dignitoso", come si diceva una volta per indicare quelli che, con ritrosia, erano costretti a elemosinare qualche spicciolo. Gli altri mendicanti elencavano patologie spaventose di figli e parenti, mostravano cicatrici, vendevano amuleti di plastica, con abilità persuasive da Corte dei Miracoli. Lui no. Si rivolgeva agli avventori distratti parlando l'italiano di certi vecchi venditori di stoffe, con un garbo che doveva rafforzare il significato importante della merce che proponeva. Su di lui circolavano le notizie più strane e contraddittorie. Si diceva che fosse l'ultimo discendente di un'antica e aristocratica famiglia del corso Vittorio Emanuele, travolta dai debiti e dalla guerra. Qualcuno sussurrava che fosse un prete spretato, altri affermavano, con certezza, che fosse stato per sempre segnato da un'infelice storia d'amore vissuta molto tempo prima. Nessuno, però, sapeva come si chiamasse o dove andasse a dormire, dopo la serata trascorsa a racimolare qualche soldo. Dalla vecchia borsa-portadocumenti di pelle nera tirava fuori dei fogli sgualciti e si avvicinava a un tavolo: «Ho scritto poesie, romanzi e racconti». Gli interpellati a stento sollevavano lo sguardo dal piatto e, con un movimento rapido della testa, gli facevano capire che a loro non interessava niente delle cose stampate sui fogli custoditi nella vecchia borsa di pelle nera. «Ho scritto poesie, romanzi e racconti. Ne ho tantissimi. Se volete, potete scegliere voi stessi quelli che vi piacciono», e tirava fuori altri fogli, ancora più sgualciti. Qualche guappetto con la ragazza prendeva a canzonarlo, ridendo poi sguaiatamente. Il venditore ambulante di parole non rispondeva e passava a un altro tavolo: «Ho scritto poesie, romanzi e racconti», ripeteva tristemente, come se volesse comunicare la consapevolezza di una cosa ritenuta inutile dai suoi mancati acquirenti. In tanti anni non ho mai visto nessuno comprargli niente. Dopo il '68 sono finiti anche il '77 e le giunte Valenzi. Ci sono stati il colera e il terremoto. L'Italsider e tante altre fabbriche hanno chiuso. In tutti questi anni non mi sono mai chiesto che fine avesse fatto l'Uomo Che Vendeva Racconti. Avevo persino dimenticato la sua esistenza. Me ne sono ricordato, a piazza Sannazaro, una sera in cui la città sembrava senza speranza e i cumuli d'immondizia, come siepe leopardiana, impedivano di vedere l'orizzonte. Forse il nostro futuro era già scritto sui fogli sgualciti dell'Uomo Che Vendeva Racconti. Mi sono sentito più triste, col rimpianto di non avergli mai dato qualche spicciolo in cambio delle parole d'inchiostro fissate sui fogli volanti da cantastorie. Ho capito che nessuno avrebbe potuto più svelarmi il mistero dei poveri sentimenti nascosti in quelle poesie e in quei racconti: una particella di passato è andata irrimediabilmente dispersa. Peccato, perché, in fondo, poesie, romanzi e racconti sono molto meglio delle parole di quelli che vendono inganni. | << | < | > | >> |Pagina 29Tra gli esseri umani di Luigi IncoronatoI fantasmi, a Napoli, sono più vivi dei vivi. Bisogna solo cercarli per ascoltare i loro racconti, i loro moniti. Come capitato al dottor Ricardo Reis alla ricerca di Pessoa nella Lisbona del dittatore Salazar, anch'io ho inseguito le presenze scomode che vegliano sulla mia sventurata città. Ho incontrato Luigi Incoronato, morto suicida nella casa di vico Piedigrotta nella notte tra Pasqua e Pasquetta del 1967. I fantasmi degli scrittori hanno un privilegio rispetto a quelli degli altri mortali. Le loro parole non necessitano di medium e di sedute spiritiche. Sono intelligibili e presenti come epitaffi, sicuramente più nette delle tante pronunciate dai viventi. A Napoli, le domeniche pomeriggio invernali sono ambigue. Il freddo rende tutto più pulito. Le strade sono finalmente vuote e il vento può attraversarle in santa pace, senza che il traffico gli impedisca di passare. Nelle case gli afrori di ragù e di frittura cedono lentamente il posto alla pigrizia dei contenitori televisivi, alle antenne satellitari cariche di football, alle chiacchiere profumate di limoncello. In quella calma ovattata e tiepida, tuttavia, si nasconde l'inganno metropolitano della grande rimozione. La città, ripiegata nel provvisorio letargo domenicale, mette da parte i suoi drammi, le insicurezze. Per sopravvivere. Sotto i portici maleodoranti della Galleria Principe di Napoli al Museo, in un pomeriggio di domenica, ho incontrato Luigi Incoronato. Non era solo. Era circondato da altri fantasmi. Vivi, questi ultimi, eppure fantasmi. Fantasmi per la città, per il potere, per l'economia, per quelli che, al caldo, ascoltavano pigramente i rumori televisivi. Incoronato era già un fantasma da vivo, come Cesare Pavese in una canzone di Ivan Della Mea. Figuriamoci poi da morto. Aveva trascorso parte della sua vita imprigionato nel quadrilatero compreso tra via Costantinopoli, il Museo Archeologico, via Pessina, via Broggia. Insegnava italiano e storia nella scuola media della via degli antiquari, con la mente rivolta, tuttavia, alle cose delle quali avrebbe discusso negli incontri organizzati da Libera Carelli per l'associazione "Amici del libro italiano" o nelle riunioni di redazione della rivista "Le ragioni narrative". A via Pessina al Museo, negli anni del secondo dopoguerra, aveva incontrato la città degli esclusi, quella dei dannati della terra che si contendevano, per rifugio, un angolo del luogo rimosso che prende il nome di Scala a San Potito, passaggio sconosciuto ai più che porta in collina, verso la Salute. Ai giorni nostri, i passanti distratti a stento notano l'androne silenzioso e triste che dà su via Pessina. Pensano sia l'ingresso di un palazzo e procedono per la loro meta. Eppure, ricorda Incoronato nella nota conclusiva: «Gli avvenimenti e i personaggi di questo romanzo sono immaginari. Nella realtà esiste solo la Scala a San Potito, dove negli anni 1944-45-46-47 abitarono esseri umani». Non "reietti", "barboni", "emarginati", "immigrati", "extracomunitari", "zingari", ma esseri umani. Con la sua scrittura, nel 1950 Incoronato seppe restituire dignità a chi non sapeva di averne diritto. Per questo il suo fantasma di suicida è più generoso dei tanti che blaterano di "diritto alla vita" per cinica vocazione propagandistica, chiudendo ipocritamente gli occhi dove, al contrario, la vita invoca il diritto alla dignità. Sotto i portici della Galleria Principe di Napoli, in un freddo pomeriggio di domenica, ho visto esseri umani "di scarto" raccogliere brandelli di povere esistenze, difesi da coperte lerce, mentre il fantasma di Incoronato vegliava inquieto su di loro. Dall'altro lato della piazza, tirati a lucido, i torpedoni attendevano il ritorno dei turisti desiderosi di appropriarsi frettolosamente dei millenni di storia della Sirena Partenope. Non una strada, ma un oceano divideva due mondi. «L'impegno attivo nella difesa dei diritti delle minoranze, il farsi carico della cura della sofferenza umana, l'assistenza agli esclusi e agli oppressi, non solo non hanno perso il loro valore esemplificativo, ma rimangono anzi un tratto insostituibile di una coscienza polimorfa e multitematica che non ha unicità di volto, né compatte ideologie unitarie, né centralità d'indirizzi». Così Sergio Piro in "Esclusione, sofferenza, guerra". Sono le parole di un altro fantasma, di un "angelo nel cielo sopra Napoli" che è piacevole incontrare in tempi tristi di ronde e mazzieri. In compagnia di Luigi Incoronato e di Sergio Piro il ritorno a casa mi è sembrato meno pesante. Tra il 1997 e il 2009, ricorda la Comunità di Sant'Egidio di Napoli, sono cento gli "scarti umani" morti di stenti e di solitudine nella nostra città. | << | < | > | >> |Pagina 32Vite archiviateI dormitori pubblici sono luoghi dove si archiviano vite che non devono fare rumore, per non disturbare quelli che, fuori, le loro "voci di dentro" fanno finta di non sentirle. Il dormitorio è il luogo della notte che si contrappone ai luoghi del giorno, ossimoricamente, però, è il posto dove la notte non ha accesso, perché precluso a coloro che dell'insonnia fanno ragione di fuga, di scoperta, di lucida inquietudine. Nei dormitori, ovviamente, si dorme. Le parole non possono essere ripulite dalle incrostazioni di senso comune che il tempo ha depositato nei loro significati. Non bastano le buone intenzioni semantiche, i volontarismi linguistici. Nei dormitori si dorme. Dormivano e tacevano, ricacciando indietro le lacrime, quelli di Ellis Island, infagottati nelle cuccette al primo piano del grande edificio sul mare, anticamera del Nuovo Mondo. Negli stanzoni dai letti allineati, vegliavano, facendo finta di dormire, i disoccupati ai quali l'Esercito della Salvezza dava rifugio, mentre la Grande Crisi rendeva Londra misera come una mendicante. Nei dormitori il sonno è uguale per tutti. Si dorme aggrappati alla propria sofferenza, per paura che gli altri possano entrare nei sogni e negli incubi, appropriandosi anche di quel poco che lo scrigno dell'inconscio rivela soltanto a noi stessi. Napoli, martedì 29 giugno 2010. Dormitorio pubblico. Sono appena le cinque del pomeriggio. Troppo presto per la cena. Troppo presto o, forse, troppo tardi per tutto. I libri aspettano di essere tirati fuori dagli scatoloni. Gli scrittori. Già, gli scrittori... Ogni vita è un racconto. C'è più materia narrativa nelle vite degli "ospiti" del Dormitorio che nei nostri taccuini. «Vorrei la Divina Commedia», dice uno. L'inferno lo ha conosciuto e ce lo descrive con austero pudore. Non merita di espiare ulteriormente tra mediocri anime purganti. «Perché si diventa scrittore?» chiede un altro. «Perché ci si accorge che il momento è giunto», vorrei rispondergli. Mi viene in mente l'Ecclesiaste, forse perché sono tra quelli che considerano la scrittura un dono e un mistero. Troppe spiegazioni razionali rovinano l'epifania narrativa, come quando si parla troppo facendo l'amore. Perciò: che ognuno sia scrittore nel modo e nel tempo a lui concessi dalla sorte e dall'esistenza. I libri, in fondo, si conciliano bene con l'insonnia e il silenzio della notte. Il Dormitorio, per qualche momento, non è più il luogo del sonno omologato. Somiglia a una casa vera, dove, se uno ha voglia, rimane incollato alle righe d'inchiostro tipografico con la luce accesa, rifiutando l'ordine consolidato delle alternanze temporali. | << | < | > | >> |Pagina 45Ci salva la pastiglia di GegèPosso garantirvi che spezzare il pane della conoscenza è diventato un mestiere davvero difficile. Stai lì a parlare di Kafka, di Svevo e di "cultura della crisi", ti lasci trasportare dall'entusiasmo per le cose che stai dicendo e, di sguinci, leggi sul viso degli allievi, nel migliore dei casi, un'espressione di benevola sopportazione. Poi, improvvisamente, per un geniale guizzo di curiosità, mentre descrivi nei dettagli la complessa vicenda di Zeno Cosini e delle sue donne, uno studente chiede: «Professò, ma è vero che i triestini vengono definiti i napoletani del nord?». L'inaspettata domanda provoca sul didascalico docente lo stesso effetto decantato dalla pubblicità del mitico Vov negli anni Sessanta: una sferzata d'energia. E questo per due motivi. Il primo è, per così dire, di carattere "scolastico", perché consente di soffermarsi sulla storia di due città tolleranti che, nel corso dei secoli, hanno fatto da cerniera tra culture molto diverse tra loro. L'altro è quello che ti porta, finita la lezione, a indagare su mondi fino a quel momento non completamente conosciuti. In fondo, il paragone tra Trieste e Napoli ha più di una ragione per essere effettuato. Entrambe sono "città di mare con abitanti" e, come tali, la storia l'hanno metabolizzata in dosi più che omeopatiche. Ma manca ancora qualcosa, sfugge ancora qualche particolare per dare una risposta esauriente a chi, poco prima, ha posto il quesito. È dal 1993 che ci sentiamo ripetere, con accenti accorati, che Napoli è (dovrebbe essere) "una città europea". Perciò il confronto con la città di Svevo e Saba un poco mi rincuora e consente di ignorare momentaneamente i guai della mia. Ma la riflessione non è ancora soddisfacente. Purtroppo anche la nostra epoca, come scriveva Majakovskij nel 1926, «è difficiletta per la penna». Poi, mentre esco da una libreria del centro, un cantante di strada circondato da una piccola folla di turisti aggiunge un tassello non secondario alla ricerca: «Dint"e vetrine 'e tutte e farmaciste la vecchia camomilla ha dato il posto alle palline 'e glicerofosfato bromotelevisionato, diddittì, bicarbonato, borotalco e seme 'e lino, cataplasma e semolino, 'na custata a fiorentina, mortadella, dduie panine, cu' 'nu miezo litro 'e vino, 'nu cafè con caffeina, grammi zero zero tre... Ah! Pigliate 'na pastiglia, siente a mme!». Allora non posso fare a meno di richiamarmi al vecchio, caro Aron Ector Schmitz che, qualche decennio prima di Renato Carosone e di Gegè Di Giacomo, affermava, più o meno, la stessa cosa nella chiusa de "La coscienza di Zeno", descrivendo la vita come una malattia «che procede per crisi e lisi», alla quale ci illudiamo di dare soluzione con terapie cervellotiche, incapaci di scrutare in noi stessi. In fondo, la medicalizzazione della società procede senza ostacoli. I mezzi di comunicazione di massa ci fanno ogni giorno una testa così sulla necessità di ristabilire la "naturale regolarità", di "difenderci da germi e batteri", di "mantenerci giovani", come se vivessimo in un lazzaretto di appestati o in un paradiso dell'eterna giovinezza. Ogni mattina la radio, prima di iniziare la giornata, ci bombarda con la pubblicità della marca di una pasticca magica infarcita di magnesio, potassio, vitamine e altri innumerevoli minerali e principi attivi che promettono di trasformare i nostri rampolli in una futura "razza eletta", come se fossero affetti tutti da rachitismo e da denutrizione. Gli scaffali di quelli che una volta erano i "casadduogli", le salumerie, sono pieni di integratori alimentari, di cibi "light", di intrugli da speziale. L'acqua, a volte neppure "minerale", ce la vendono in bottiglie che promettono una vita senza mali e senza affanni. A loro volta, molte farmacie si sono trasformate in supermercati. Così va il mondo ricco, mentre gran parte dell'umanità continua a soffrire la fame e la sete, quelle vere. Allora, parafrasando l'ingenuo ma lungimirante principe Myskin, penso che, probabilmente, l'unica salvezza per il mondo sia rappresentata, oltre che dalla bellezza, anche dall'ironia, in tempi nei quali la paura di ciò che ci è sconosciuto viene seminata senza risparmio, rendendo tutti noi degli ipocondriaci senza speranza, continuamente in bilico tra Zeno Cosini e Argan, il malato immaginario di Molière. Perciò penso che lo studente dell'inaspettata domanda sia meritorio di un pubblico riconoscimento. Senza esserne consapevole, ha ridestato in me l'orgoglio di essere nato e di vivere nella città della Sirena, la quale, più di una volta nella sua lunga vita, è stata arpionata da qualche pescatore cinico e arrogante, riuscendo sempre a cicatrizzare le ferite e a sopravvivere. L'ironia è un po' come il sale del mare: consente di disinfettare la parte, evitando il proliferare degli agenti patogeni. Napoli e Trieste, fortunatamente per loro, sono accomunate da entrambe le cose. Perciò, in cuor mio, ringrazio il disincanto di Italo Svevo, la dolce ironia di Umberto Saba e l'allegra preveggenza di Renato Carosone e Gegè Di Giacomo, senza escludere, ovviamente, il principe del disincanto, Totò. E, poiché gli aspetti che rendono vicine la città del Vulcano e quella del Carso sono più numerosi di quanto si pensi, un appello non guasta: in tempi di tetragoni sostenitori della strategia della paura, non perdiamoci di vista, venite a Napoli, nostri fratelli d'Italia, in nome del senso dell'ironia che ci accomuna. | << | < | > | >> |Pagina 72Questa città straniera fugge la "napoletanità"Scena "esterno giorno", all'angolo tra via Forno Vecchio e via Toledo. Ho appena incontrato un vecchio amico, docente alla Federico II. Ci conosciamo da molto tempo e abbiamo condiviso un iniziale percorso di formazione. Poi, come sempre capita, le nostre strade si sono separate. Il mio amico si occupa di etnoantropologia e di migranti. Io faccio il "cantastorie metropolitano", racconto la vita e un po' migrante mi sento anch'io, perché spesso Napoli mi fa lo stesso effetto che New York fa al protagonista di un romanzo di Paul Auster: « [...] E per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto». Gli incontri inaspettati, a volte, offrono numerosi motivi di riflessione, soprattutto se l'interlocutore ha delle cose interessanti da dirti. Al vecchio amico incontrato per caso mi accomuna oggi l'amore tormentato per la città, carico di dubbi e di voglia di capire. Quelli che dicono di conoscere la città "come le proprie tasche" non hanno la mia stima. Le città, e questo vale "anche" e "soprattutto" per Napoli, all'inizio ti sembrano un libro aperto. Poi ci vivi fino ad invecchiare, credi di sapere tutto di loro e, improvvisamente, ti accorgi che le facce che incroci ogni giorno ti sono diventate sconosciute, che "la città si è fatta straniera", come per Heinrich Böll o per James Ballard. In fondo entrambi hanno narrato catastrofi: quella causata dal nazismo e quelle che l'insipienza del potere prepara con ostinata disinvoltura mediatica. Entrambi raccontano città che sono labirinti di stati d'animo, di bisogni, di voci, di silenzi. La città diventa "straniera" quando ti rendi conto che non la conosci più come credevi e che devi trattarla con umiltà, che i luoghi comuni consolidati non bastano a spiegarla, anche perché gli stereotipi sono sempre degli specchi deformanti, buoni al massimo per ingannare snervanti attese beckettiane con i compagni di pensilina alle fermate dei mezzi del trasporto pubblico. La città diventa "straniera" quando ti chiede di trasformati in viaggiatore, perché si può essere turisti distratti anche se si abita ai Quartieri o al Vomero. La città diventa "straniera" quando sai che le sue domande sono più numerose delle tue risposte. Partenope, allora, implora di essere sottratta ai colori ruffiani da cartolina, per poter diventare "luogo universale", fino a lanciare, a chi la attraversa ogni giorno in modo pigro oppure ostile, il lamento e l'invettiva di Shylock: «[...] Se ci ferite, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?». Reagisco con fastidio quando sento dire che "siamo diversi perché napoletani". Mi sento cittadino di un mondo in trasformazione che non consente più di adagiarsi nella bambagia rassicurante della "napoletanità" a buon mercato. Amo Napoli, ma non penso di dovermi rifugiare nella sua storia come in un bunker. La logica perdente del "povero abitante di Partenope vittima del destino cinico e baro" non mi piace. Serve a non scontentare chi ci chiede di rimanere immobili, per l'ennesima messa in scena del solito, collaudato spettacolo caricaturale. Mentre la folla ci scorre intorno, con il mio amico cerchiamo di trattenere i frammenti delle nostre storie, ci raccontiamo stati d'animo. Ci aggiorniamo sui tanti che abbiamo conosciuto e che conosciamo. Parliamo della "riforma Gelmini" e degli studenti, delle prossime elezioni amministrative e delle contorsioni semantiche del "politichese", del labirinto delle contraddizioni urbane e del bisogno di riscoprire una città che, in tanti anni, è diventata "straniera" perché, come scriveva in una bellissima poesia Nazim Hikmet, «Mente il sogno, mente il colore, mente la voce». Ci diciamo dei migranti che non vanno più negli ospedali per timore di una possibile espulsione, proprio mentre gli spot pubblicitari ci cantilenano che "a Natale si può fare di più". Poco importa se la "Caritas" ricorda che, ancora una volta, butteremo nei cassonetti buona parte del cibo comprato per cenoni di vigilia e pranzi di festa. "A Natale si può fare di più", ma solo se i destinatari della "bontà" rientrano nelle tipologie previste dagli spot.
All'angolo tra via Forno Vecchio e via Toledo ci salutiamo
confermando reciprocamente la necessità di non rinunciare alla
voglia di capire, perché i dubbi posti dalla ragione possano
creare qualche spiraglio alla speranza: «[...] Eppure / piccola
porta della speranza, / nuovo giorno dell'anno / sebbene tu sia
uguale agli altri / come i pani / a ogni altro pane, / ci prepariamo
a viverti in altro modo». Sono versi di Pablo Neruda, un grande
poeta che ha amato Napoli da cittadino del mondo. Li dedico ai
lettori.
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