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| << | < | > | >> |IndicePrefazione ENNIO CASCETTA 7 Passaggi fotografici MASSIMO CACCIAPUOTI 17 PASSAGGI LETTERARI Il Napoletano Errante TIZIANO SCARPA 35 Via Ferrara 4 Aneddoti e ricordi sparsi di una famiglia napoletana CLAUDIO MATTONE 45 Circo Vesuviano MAURIZIO BRAUCCI 61 Una leggenda metropolitana ANTONIO GHIRELLI 73 Napoli: furori e delizie del sottosuolo DOMINIQUE FERNANDEZ 79 In treno | Napoli FABRIZIA RAMONDINO 89 Monoporzioni SERENA GAUDINO 97 Il vikingo è di ritorno BJÖRN LARSSON 107 |
| << | < | > | >> |Pagina 79Napoli: furori e delizie del sottosuolo
di DOMINIQUE FERNANDEZ
Come tutti, avevo voglia di vedere Paestum, presentata unanimamente come la più alta espressione dell'arte in Campania. In cammino dunque alla volta dei templi greci! O piuttosto: in treno, per percorrere il centinaio di chilometri che li separano da Napoli. Ho preso il treno alla Stazione Centrale, convinto che sarebbe stato soltanto un viaggio banale e che non avrei serbato alcun ricordo particolare di quel mezzo di trasporto. Errore! E gioia nello scoprire che mi ero sbagliato! Avevo portato con me Spaccanapoli di Domenico Rea, i meravigliosi racconti di una sessantina di anni fa, rimasti vivi ed esatti dopo più di un mezzo secolo, batiscafi insostituibili per esplorare le profondità di Napoli. Ma si rivelò impossibile leggerne una sola riga durante il percorso. Nell'Italia meridionale, l'espressione "prendere il treno" ha un significato ben diverso da quello che ha nel resto dell'Europa. Si ha l'intenzione di approfittare del viaggio per rinchiudersi in se stessi, lontano dall'agitazione della propria vita quotidiana? Si desidera guardare tranquillamente il paesaggio, isolati nella contemplazione della campagna napoletana? Impossibile. Fin dalla partenza, in pochi minuti, il vagone si è trasformato in una dépendance della strada. Ciascuno si mette a parlare con il proprio vicino. Ci si rivolge la parola, ci si tocca, con la mano, con la voce. Nessuno si astiene dalla conversazione che si trasforma ben presto in cicaleccio e allegria generali. Ci si chiama da un capo all'altro del vagone, le persone che non si conoscono fanno subito amicizia, le voci sono forti, le risate sonore, il calore e la gioia comunicativi. Senza il movimento del treno, senza il paesaggio che sfila davanti ai finestrini, ci si crederebbe in un quartiere della città vecchia. Stessa animazione, stessa corrente circolare di simpatie, stessa spontaneità calorosa di affetti, stessa vicinanza di corpo e di cuore. I passeggeri ricreano istantaneamente l'atmosfera, la promiscuità, la confusione del vicolo. Il viaggio, in loro compagnia, cessa di essere un'avventura solitaria verso un luogo sconosciuto per diventare un prolungamento ambulante della napolitudine. L'uno racconta come san Gennaro, a lungo pregato, abbia compiuto il miracolo di guarire il nipotino da un male incurabile, un altro estrae da una borsa delle stilografiche di contrabbando per proporle all'intorno. Una vecchia si fa il segno della croce non appena scorge una vacca, ma è troppo commossa per rivelarci il segreto di tale devozione. In pochissimi scendono alla minuscola stazione di Paestum. Gli uni si sono fermati a Salerno, gli altri proseguono verso il sud. Poiché a Paestum, non appena si esce dalla stazione (se il locale da lillipuziani, in cui l'assenza di biglietteria obbliga a munirsi alla partenza di un'andata e ritorno, merita tale nome) e si imbocca uno stretto sentiero fra due campi, ci si confronta con un altro mondo: il mondo, antinapoletano, della solitudine, della grandezza silenziosa. Il Napoletano detesta due cose: il silenzio e la solitudine. In fondo al sentiero che va in linea retta verso il sito archeologico, ecco i tre templi. Sono allineati in una pianura nuda, priva di asperità. La loro posizione non è spettacolare, come a Segesta o ad Agrigento, in Sicilia. Non sono valorizzati dalle pendici suggestive di un monte o dalla vicinanza del mare. Possono contare unicamente sulla loro bellezza. E sono, infatti, i più bei templi che ci abbia lasciati l'Antichità, infinitamente più belli di quelli che ho visti in Grecia. Risalgono all'epoca d'oro dello stile dorico, cioè al VI e al V secolo a.C. Quello mediano è il meglio conservato. Il peristilio, i frontoni e la cella sono quasi intatti. Purezza e nudità doriche. Le sei colonne della facciata e le quattordici dei lati lunghi rispondono alla sezione aurea. Il leggero rigonfiamento delle colonne (èntasi) e la correzione ottica del loro allineamento contribuiscono all'armonia del tempio e alla serenità che esso sprigiona. I tre santuari, in aperta campagna, indorati dal sole, appena consumati dal tempo, si innalzano sulla pianura deserta come i guardiani dell'eternità. | << | < | > | >> |Pagina 89In treno
di FABRIZIA RAMONDINO
Su e giù quest'anno, da Essen Werden a Napoli, da Napoli a Essen Werden! E se tutto quel tratto di ferrovia, tra Basilea e Duisburg, quasi sempre lungo il Reno, mi è diventato familiare, è solo quando il treno passa accanto alla cattedrale di Colonia che provo la stessa emozione di quando, verso Gaeta, appaiono le rocce bianche fra la macchia mediterranea, fiorita, quando è la stagione, di ginestre, sormontate a Terracina dalle rovine del tempio di Giove, e il mare. Di tutto il lungo viaggio solo quei due tratti mi danno il senso che sto tornando a casa, un tempo verso la madre (e la madre-città poi sempre), ora verso la figlia (la figlia-avventura e prolungamento del destino). Perciò è come se avessi due patrie. E l'una si annuncia col cielo e il mare azzurri, le bianche rocce e rovine del tempio luccicanti, il mirto e la ginestra, l'altra con le acque scure del Reno, il cielo plumbeo, le doppie strutture architettoniche, l'una giustapposta all'altra, della stazione di Colonia, in ferro e vetro scuriti dal fumo, e della grande cattedrale gotica, la prima della Renania. Impiegarono seicento anni per costruirla; e altrettanti anni forse, a rovescio nel tempo, furono necessari per trasformare in rovina il tempio di Giove a Terracina. A Colonia nacque Agrippina, moglie di Claudio imperatore, che intercesse presso il marito affinché la sua città fosse dichiarata colonia romana - data da allora lo splendore della città - e che fu assassinata dal figlio Nerone a Baia. Se il matricidio fu consumato presso Napoli, presso Colonia gli Unni trucidarono undicimila vergini, che a seguito di Orsola, figlia di un re britannico, tornavano in patria dopo un pellegrinaggio a Roma. Ma erano undicimila o solo undici? I tedeschi, inventori del punto e virgola - lo introdusse per la prima volta verso il 1650 Schottelius, padre della grammatica tedesca - si chiedono come interpretare il manoscritto latino che documenta l'eccidio: la M contenuta nell'iscrizione XIMV significa Mille o Martiri? Questa piccola polemica filologica me ne ricorda altre, politiche e recenti, sull'entità delle cifre degli ebrei sterminati. Abbandono le riflessioni su eccidi e delitti e torno a interrogarmi sul perché proprio quei due tratti di percorso, oltre essermi cari, destino in me emozioni sepolte. Forse perché il Reno era la via di comunicazione più importante della tarda antichità in Germania e perché Terracina, Gaeta, Formia sono sulla Domiziana, vedo avanzare le legioni romane, che conquistarono, prima della Germania, la mia città, e Neapolis, città fiorente di industrie e commercio, decadde dal tempo della guerra civile tra Mario e Silla, quando fu ucciso tutto il ceto dirigente locale, sicché la città si trasformò in luogo di villeggiatura privilegiato dei Romani. Allora, la mia simpatia va ad Arminio che sconfisse Varo, attirandolo nella foresta di Teutoburgo. E ricordo Savinio, un altro greco, che in epigrafe a un suo saggio, Maupassant e l'altro, scrisse misteriosamente: Maupassant è un romano. Noto che di nuovo le mie riflessioni ruotano intorno alla storia, alla guerra e al macello - Hermannschlacht, La battaglia di Arminio, s'intitola il dramma di Heinrich von Kleist su quell'eroe nazionale, che ho visto rappresentato al Teatro Argentina due anni fa con la straordinaria regia di Peyman, direttore del teatro di Bochum. E in tedesco Schlacht significa nel contempo «battaglia» e «macello». L'epica classica, greca e romana, toccò la mia città e i suoi dintorni, così come la saga dei Nibelunghi ha toccato il tratto eroico del Reno. E lì e qui c'è uno scoglio delle Sirene, le sorelle lontane Loreley e Partenope, temute dai naviganti: morire era, dunque, soccombere al fascino femminile e al canto, finirla con guerre, navigazione, scoperte - queste, solo, erano la vita. Nonostante sia tanto più recente, la saga dei Nibelunghi ha tratti più arcaici dell'Iliade, sembra più vicina all'antico regno delle madri studiato da Bachofen. Brunilde, la Pentesilea germanica, poteva congiungersi solo con l'uomo vinto in battaglia, e aveva vinto Sigfrido; ma con un sotterfugio le fu fatto credere che il vinto fosse Gunther, re dei Burgundi, che quindi diventò suo sposo; e quando Crimilde, sposa di Sigfrido, le rivelò il segreto, Brunilde non si vendicò su di lei, ma su di lui. Crimilde, per vendicarsi a sua volta, attese tredici anni, tessendo trame e intrighi, e servendosi del nuovo sposo, Attila, come strumento: segno questo che le madri antiche erano state sconfitte del tutto e che per vincere dovevano ricorrere non più alla battaglia aperta, ma al raggiro; e dovevano tessere trame, come sui loro telai. | << | < | |