Copertina
Autore Antonio Cassese
Titolo Il sogno dei diritti umani
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2008, Serie Bianca , pag. 224, cop.fle., dim. 14x22x1,4 cm , Isbn 978-88-07-17158-1
CuratorePaola Gaeta
PrefazioneAntonio Tabucchi
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe diritto , guerra-pace , storia contemporanea , storia criminale
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Indice

    Introduzione
  5 Per un mondo più umano di Antonio Tabucchi

 17 Note introduttive di Paola Gaeta

 21 L'uomo animale crudele

    Parte I
 25 I nostri diritti e i loro guardiani

 27 Diritti e violazioni
    La dichiarazione universale dei diritti umani e
        i diritti calpestati, 27;
    I diritti umani che uniscono l'Europa, 30;
    Il diritto di nascere liberi e gli schiavi del nuovo
        millennio, 33;
    La pena di morte: oltranzisti contro pragmatici, 36;
    La moratoria della pena di morte, 39;
    Torture a Bolzaneto, 41;
    Occupiamoci del lutto dei bambini, 44

 48 I guardiani dei diritti
    Il Consiglio per i diritti umani e l'occasione perduta, 48;
    La Corte internazionale di giustizia di fronte al muro
        che viola i diritti, 50;
    Il boicottaggio: l'ultima arma per opporsi alle violazioni
        dei diritti umani, 52;
    Minuscole onde di speranza, 55

 58 I diritti dei popoli
    Autodeterminazione e paesi baltici, 58;
    Autodeterminazione: il sogno dei popoli, 60;
    L'autodeterminazione del popolo palestinese:
        un sogno irrealizzabile?, 62;
    La confederazione come strumento di pace, 63;
    Confederazione c. secessione per il Kosovo, 65;
    Il lupo, l'agnello e la secessione dell'Abkazia e
        dell'Ossezia del Sud, 68

    Parte II
 71 Guerre e diritti

 73 La guerra e il diritto
    Perché il diritto deve prevalere sulla forza, 73;
    Papa Wojtyla e la "guerra giusta", 77;
    La privatizzazione della guerra, 79

 83 L'Onu gendarme di vetro
    Quale ruolo per l'Onu?, 83;
    E all'Onu si è scritto un altro libro dei sogni, 85;
    Il Gendarme di vetro in cerca d'una spada, 88;
    I Caschi blu: impotenza per le regole che legano le mani, 89;
    Srebenica: uno smacco per il Palazzo di vetro, 93

 95 Quando è lecita la guerra?
    Il ricorso alla guerra e le regole del gioco — Iraq (2003), 95;
    Perché la guerra all'Iraq (2003) era illegittima, 96;
    Gli Usa e la guerra al terrorismo, 98;
    Le guerre, il diritto e la morale dei pazzi, 101

103 Le guerre che calpestano i diritti
    Le guerre moderne: stragi di civili, 103;
    Quando si torna indietro di secoli, 107

    Parte III
109 Giustizia per i crimini universali

111 La giustizia interna
    Il caso Klaus Barbie: un processo emblematico, 111;
    Giustizia per l'avvocato Löw, colpevole di essere ebreo, 113;
    Il coraggio di indagare sui crimini italiani del passato, 115;
    Per i massacri compiuti dai militari americani non c'è
        un tribunale, 117

120 La giustizia internazionale
    Se aumentano i crimini di guerra, 120;
    Da Norimberga alla Corte penale internazionale, 125;
    Luci e ombre della giustizia penale internazionale, 127;
    Gli Stati Uniti contro la Corte penale internazionale, 129

132 Dittatori alla sbarra
    Pinochet, 132,
        L'arresto, 132,
        La prima decisione della Camera dei Lord
            sull'estradizione di Pinochet, 135,
        La seconda sentenza sull'estradizione di Pinochet, 138,
        La giustizia e l'occasione perduta, 141;
    Milosevic, 143,
        Processo e morte di Slobodan Milosevic, 143;
    Karadzic, 145,
        L'arresto, 145,
        Karadzic arriva all Aia, 147;
    Saddam Hussein, 149,
        1991: il grande imputato resta nel suo bunker, 149,
        I diritti del dittatore prigioniero, 151,
        Era giusto processare Saddam Hussein?, 153,
        L'impiccagione di Saddam (30 dicembre 2006), 156,
        Requiem per un processo, 158;
    Al1-Bashir, 160,
        Gli eccidi del Darfur di fronte alla Corte penale
            internazionale, 160,
        La richiesta del procuratore dell'Aja di arrestare
            al-Bashir, 162,
        Al-Bashir reagisce, 167

168 Notte nel Darfur
    Gli stupri impuniti del Darfur, 168;
    I bambini del Darfur guardano la guerra, 169;
    Prodi e il Darfur, 172

    Parte IV
175 Il terrorismo e le sfide alla democrazia

177 Terroristi e terrorismi
    Chi è terrorista?, 177;
    Terrorismo e politica miope, 180;
    Lezioni da Strasburgo su terrorismo e diritti umani, 182

184 La tortura e il terrorismo
    La democrazia davanti alla tortura, 184;
    Gli Usa, la tortura e lo stato di diritto, 187

191 La lotta al terrorismo in Italia
    Il pacchetto Pisanu e il fermo di polizia, 191;
    L'espulsione di stranieri e i diritti umani, 194

    Parte V
197 Guantánamo e altre prigioni

    Guantánamo nostro lager, 199;
    Guantánamo e il disprezzo del diritto internazionale, 202;
    Le sevizie di Abu Ghraib, 204;
    Le responsabilità dei superiori per Abu Ghraib, 205;
    Le prigioni segrete della Cia chiuse anche alla
        Croce Rossa, 208

    A mo' di conclusione
211 I diritti umani: solo un sogno?


216 Nota sulle fonti

 

 

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Pagina 21

L'uomo animale crudele



Il problema essenziale dei diritti umani, che può sembrare forse ingenuo porre, è al contrario un problema che nessuno può eludere: come mai la dottrina dei diritti umani, che oramai è parte essenziale del patrimonio dell'umanità, ed è divenuta anzi una nuova e possente religione laica ora che la forza propulsiva delle religioni tradizionali si sta spegnendo, è ogni giorno calpestata e negata? Come mai ogni giorno uomini maltrattano, sfruttano, torturano, uccidono altri uomini? Domanda certo elementare, che numerosi filosofi si sono posti già tante volte. È la domanda che tormentava Primo Levi ed Elie Wiesel ad Auschwitz, quando si interrogavano sulle ragioni della disumanità che erano costretti a subire.

Si possono trovare tante ragioni e motivazioni di carattere storico e sociale per spiegare tutte queste manifestazioni di disprezzo profondo per l'altro. Al di là delle spiegazioni specifiche, esistono però fattori più generali, senza i quali non riusciremmo a spiegare perché la disumanità si ripete nel tempo e nello spazio, benché oggi - a differenza di ieri esista un decalogo di diritti fondamentali che consente di qualificare e condannare tali manifestazioni come violazioni flagranti dei diritti umani.

Un tentativo di risposta è nelle parole che un grande scienziato francese, Jean Hamburger, pronunciò una quindicina di anni fa nel corso di un incontro a Strasburgo. Hamburger notò giustamente che non c'è nulla di più falso che sostenere che i diritti umani sono fondati sulla natura dell'uomo.

L'ordine biologico naturale, egli notava, è invece basato sulla crudeltà, sulla sopraffazione, sul disprezzo dell'individuo, sull'ingiustizia. Le norme etiche e la dottrina dei diritti umani esprimono un rifiuto dell'ordine biologico, una ribellione contro la legge della natura. Esiste dunque un uomo biologico e un uomo sociale, si potrebbe dire. I diritti umani costituiscono una battaglia quotidiana dell' homo socialis contro il ritorno alla condizione animale, "una sorta di creazione attiva e quotidiana, una ribellione continua che dà senso e originalità alla vita dell'uomo".

Questa ribellione continua si manifesta oggi soprattutto a due livelli. Da una parte la società civile, oramai a livello planetario, si indigna e insorge contro ogni prevaricazione, e soprattutto contro la riduzione degli esseri umani a semplici elementi di un enorme mercato mondiale. I movimenti spontanei come quello di Seattle o di Genova, malgrado estremismi e non poche ingenuità, esprimono il desiderio di cogestire talune esigenze fondamentali: il diritto al lavoro, alla salute, a un ambiente sano, a una vita dignitosa. Le organizzazioni non governative, sempre più numerose e vivaci, esercitano una pressione crescente sui governi, cercando di condizionarne le scelte, soprattutto nel senso di sollecitare i governi a tener conto di interessi generali più che di esigenze nazionali o di interessi a breve termine.

Oltre però alla società civile internazionale, più o meno articolata e organizzata, si assiste anche al diffondersi di una domanda sempre iù pressante di giustizia. Gli individui si rivolgono sempre più spesso ai giudici, civili o penali, per ottenere giustizia per torti subiti da organi del proprio stato o di uno stato estero. Gli individui non hanno più paura del Leviatano e della protezione che esso ha sempre fornito ai suoi organi, soprattutto quelli supremi, ma contestano il potere sovrano e la sua espressione, e non temono di trascinare in giudizio uomini di stato. Tutti sanno quel che è avvenuto a Pinochet. Semplici individui hanno osato contestare davanti a giudici i crimini di cui si sarebbero macchiati anche altri ex capi di stato o di governo, o alti dignitari in carica: Hissène Habré in Senegal e in Belgio, Fidel Castro in Spagna, Gheddafi in Francia, Sharon in Belgio, Kissinger e l'ex ministro della Difesa e l'ex capo dell'esercito del Salvador negli Usa, la leadership ruandese attuale, in Francia e in Spagna. Non ha importanza che in molti di questi casi i giudici abbiano seguito vecchie concezioni e respinto l'azione giudiziaria. Quel che conta è che non si ha più timore di sfidare i rappresentanti del Leviatano. Si aggiunga che nel frattempo i due Tribunali penali internazionali (per l'ex Jugoslavia e per il Ruanda) stanno operando con solerzia, condannando leader politici e militari colpevoli di gravi crimini internazionali, e la Corte penale internazionale ha cominciato ad amministrare la giustizia. Si aggiunga ancora che gli individui non temono ora di chiamare in causa addirittura gli stati come tali: un cittadino del Kuwait ha convenuto in giudizio questo stato davanti ai tribunali inglesi per aver subito atti di tortura in Kuwait; cittadini cinesi si sono rivolti alla Corte di Tokyo per i danni subiti a causa dell'uso di armi batteriologiche in Cina da parte delle forze armate giapponesi, negli anni quaranta; e cittadini della Repubblica federale jugoslava hanno accusato davanti ai giudici italiani il governo italiano per aver partecipato al bombardamento della Televisione di Belgrado, nel 1999. Ancora una volta, conta poco che anche in questi casi i giudici spesso difendono lo stato accusato. Resta il fatto che gli individui non sono più disposti a subire passivamente le angherie, né intendono più seguire le tradizionali vie diplomatiche. Oggigiorno gli individui prendono nelle proprie mani ogni rivendicazione di diritti, fanno a meno di intermediari, e invocano il diritto internazionale direttamente davanti ai giudici dello stato accusato di aver violato quel diritto.

Come reagiscono gli stati? In generale, preferiscono defilarsi, trincerandosi dietro "i supremi interessi della nazione", in sostanza perseguendo interessi a breve termine, rinunciando quindi a qualsiasi progettazione politica di largo respiro. Su questo sfondo generale si sta delineando però un fenomeno ben più preoccupante: la tendenza di molti stati, primo fra tutti gli Usa, a concepire la risposta a fenomeni gravi come il terrorismo o altre forme di violenza privata o pubblica, solo in termini di repressione. Si nega, o si vuole ignorare, che dietro questi fenomeni gravi e aberranti si possano nascondere cause e motivazioni storico-sociali che andrebbero esaminate e discusse, per cercare di comprendere, per esempio, il contesto e la molla della violenza terroristica. Quegli stati pensano erroneamente che basti stroncare e uccidere i terroristi, distruggere le loro basi e nel contempo arroccarsi in fortezze inespugnabili, dopo aver bruciato ogni ponte levatoio. Ma non ci si libera dei terroristi assassinandoli a uno a uno. Non si può rispondere con le armi, o solo con le armi, a coloro che vivono nella miseria, nell'arretratezza e nel fanatismo. Tornano alla mente le parole di uno dei padri della Dichiarazione universale dei diritti umani, il francese René Cassin, premio Nobel per la Pace. Nel 1940, dopo essersi scagliato contro la Germania e gli altri "stati-mostro" che avevano imbarbarito la comunità internazionale, egli avvertiva che al termine della guerra vi era però il pericolo che gli stati vincitori utilizzassero la loro temibile potenza economica, militare e politica "per perpetuarsi ipertroficamente, con il pretesto di creare garanzie legittime contro il ritorno di nuove barbarie e di nuove aggressioni".

Insomma, se si guarda alla diffusione e all'intensità della violenza attuale nel mondo, non solo a quella che proviene dagli stati ma anche a quella provocata da individui, siano essi terroristi, guerriglieri o insorti, il bilancio non può che essere cupo. Per non disperare, occorre tenere bene a mente le parole che un grande leader americano, Robert Kennedy, pronunciò a Città del Capo il 7 giugno 1966, in un'epoca dunque in cui la minoranza bianca ancora deteneva il potere in Sudafrica. Egli disse che "ogni volta che un uomo si leva per difendere un ideale, o si batte per migliorare il destino degli altri, o insorge contro un'ingiustizia, egli lancia una minuscola onda di speranza (a tiny ripple of hope)", un'onda che incontrandosi con tante altre che vengono "da altre sorgenti di energia e di audacia, possono formare una corrente capace di abbattere le più possenti muraglie di oppressione". Queste parole le potete ora leggere scolpite sulla sua tomba.

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Torture a Bolzaneto

Quel che è avvenuto a Bolzaneto nel luglio 2001 è la violazione simultanea e flagrante di tre importanti trattati internazionali che l'Italia aveva contribuito a elaborare e si era solennemente impegnata a rispettare: la Convenzione europea dei diritti umani del 1950, il Patto dell'Onu sui diritti civili e politici del 1966, e la Convenzione dell'Onu contro la tortura del 1984. A Bolzaneto sono stati inflitti trattamenti disumani e degradanti ma, in più casi, anche vere e proprie torture.

I trattamenti disumani e degradanti, vietati dalla Convenzione europea, sono quelli che causano sofferenze fisiche o mentali ingiustificate e umiliano e abbrutiscono una persona. Ad esempio, la Corte europea vietò all'Inghilterra di infliggere come pena la fustigazione di minorenni condannati; condannò la Turchia perché due ufficiali avevano commesso atti di violenza carnale nella zona nord di Cipro senza essere puniti; censurò la Lettonia per aver detenuto in un carcere carente di strutture adeguate un condannato paraplegico e non autosufficiente, causandogli "sentimenti costanti di angoscia, inferiorità e umiliazione". Anche tenere ventidue ore al giorno più detenuti in celle anguste, senza servizi igienici, costituisce trattamento disumano e degradante - come fu rimproverato all'Inghilterra.

Quando si ha invece tortura? Quando i maltrattamenti o le umiliazioni causano gravi sofferenze fisiche o mentali, e inoltre la violenza è intenzionale: si compiono volontariamente contro una persona atti diretti non solo a ferirla nel corpo o nell'anima, ma anche a offenderne gravemente la dignità umana; e ciò allo scopo di estorcere informazioni o confessioni, o anche di intimidire, discriminare o umiliare. "Datemi un pezzettino di pelle e ci ficcherò dentro l'inferno," è quel che un grande scrittore americano fa dire a un aguzzino. La tortura è proprio ciò: l'inferno nel corpo o nell'anima. È tortura l'uso di elettrodi su parti delicate del corpo, il fatto di provocare un quasi-soffocamento (infilando un sacchetto di plastica sul capo), o quasi-annegamento (si tiene una persona a testa in giù, inondandole di acqua la bocca e il naso, così da darle la sensazione di annegamento), o il fatto di picchiare con forza e a lungo sul capo di una persona con un elenco telefonico, fino a provocare capogiri o svenimenti. Queste e tante altre forme di violenza sono state concordemente considerate tortura da autorevoli giudici internazionali.

A Bolzaneto quasi tutti gli oltre duecento arrestati vennero sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, come risulta dagli atti dei pubblici ministeri, riassunti nell'incisivo reportage di D'Avanzo pubblicato il 17 marzo 2008 su "la Repubblica". Ma in più di un caso si andò oltre e si trattò di vera e propria tortura. Ad esempio, nel caso di A.D. che - cito D'Avanzo - "arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella 'posizione della ballerina' [in punta di piedi]. Lo picchiano col manganello. Gli fratturano le costole, lo minacciano di 'rompergli anche l'altro piede'. Poi gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano 'Comunista di merda". Penso anche al caso di G.A., arrivato ferito a Bolzaneto: "Un poliziotto gli prende la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due 'fino all'osso'. G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G.A. ha molto dolore. Chiede 'qualcosa'. Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare".

Questi fatti, se confermati dai giudici, costituiscono tortura. Così come si arriva alla soglia della tortura in altri casi apparentemente meno gravi, ma in cui l' effetto cumulativo di più comportamenti (insulti, pestaggi ripetuti, umiliazioni soprattutto nei confronti delle donne, spesso lasciate nude agli sghignazzamenti e agli scherni dei poliziotti), è tale da causare gravi sofferenze mentali (spesso anche fisiche).

Orbene, di fronte a questi fatti cosa si può fare in Italia? Visto che siamo legati da importanti trattati internazionali, se i giudici non infliggeranno adeguate punizioni e significativi risarcimenti, si potrà fare ricorso alla Corte europea. Ma non basta. La Corte di Strasburgo potrà tutt'al più accertare la violazione della Convenzione europea da parte dell'Italia e condannare il nostro governo a risarcire i danni morali e materiali. Più significativo sarebbe che i nostri giudici potessero condannare per tortura coloro che fossero ritenuti colpevoli di tali atti. Ma è impossibile: come è noto, anche se la Convenzione dell'Onu del 1984 ne impone l'emanazione, una legge che vieti specificamente la tortura manca ancora in Italia - benché ben venti progetti di legge siano stati presentati in Parlamento dal 1996. Come mai? In genere in Italia tardiamo ad attuare trattati internazionali, per insipienza, lentezze burocratiche, ottuse resistenze della pubblica amministrazione. Nel caso della tortura è lecito però sospettare che la mancanza di una legge sia dovuta anche a una precisa volontà politica di certi partiti: la volontà di non consentire che i colpevoli dei fatti di Bolzaneto venissero puniti adeguatamente. È significativo che nella terz'ultima legislatura (2001-2006), quando sembrava di essere in dirittura di arrivo, all'improvviso la Camera approvò a maggioranza, in plenaria, un emendamento della Lega che richiedeva per la tortura la sussistenza di "reiterate violenze o reiterate minacce" (non basterebbe torturare solo una volta, bisognerebbe torturare la stessa persona ieri, oggi e domani, per essere puniti!). Anche se successivamente si tornò al testo originario, la legislatura si chiuse senza alcuna legge, così come è avvenuto nel 2006-2008.

A sette anni dalle violenze a Bolzaneto, nel luglio 2008, i giudici di Genova hanno confermato la ricostruzione dei fatti dei pubblici ministeri e hanno riconosciuto l'accusa di "abuso di autorità" e di "violenza privata" a carico di quindici tra gli imputati. Ma la parola "tortura" non è stata mai utilizzata, e per la maggior parte dei condannati i giudici di Genova hanno applicato l'indulto o le norme sulla prescrizione della pena.

Per il futuro, non ci resta che sperare che il prossimo Parlamento sia meno inefficiente. E che le "autorità amministrative competenti" traggano le debite conseguenze da condanne di funzionari dello stato che infangano il buon nome delle forze dell'ordine, la cui stragrande maggioranza rispetta e tutela i diritti umani. E non si tema di continuare a protestare: il giorno in cui smettiamo di indignarci per fatti come quelli di Bolzaneto, la democrazia è morta in Italia.

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Pagina 44

Occupiamoci del lutto dei bambini

Tra i gruppi umani più bisognevoli di protezione, quello dei bambini al di sotto dei diciotto anni è sempre stato il più vulnerabile. I minori sono stati sfruttati per secoli, soprattutto nelle miniere e nelle fabbriche. Ora la globalizzazione ha trasformato il mondo in un grande mercato, dove si compra e si vénde tutto, petrolio, armi, computer, notizie, la mente e forse anche l'anima di molti. E uno starnuto a Wall Street produce brividi in tutto il pianeta. La globalizzazione ha reso la sorte dei minori ancora più precaria: la violenza si scarica su chi è più debole. La disgregazione del tessuto familiare e sociale e il crescente individualismo lasciano i minori senza un'importante rete di protezione. Le tensioni etniche e religiose e i conflitti sociali si sono moltiplicati. Le guerre sono diventate endemiche, e i primi a soffrirne sono i bambini, o come vittime (ne sono morti due milioni nell'ultimo decennio e sei milioni sono rimasti feriti), o come protagonisti-vittime (negli ultimi anni sono stati arruolati circa trecentomila "bambini-soldato"). La metà dei palestinesi che vivono a Gaza ha meno di quindici anni: la loro vita è tremenda. Sono cresciuti sotto i bombardamenti, hanno assistito all'uccisione o al ferimento di tanti intorno a loro, hanno accumulato disturbi del comportamento (aggressività, iperattività, incubi ed enuresi notturna, paura di rimanere soli).

Un effetto collaterale delle guerre civili sono le violenze sulle bambine. Un rapporto di Human Rights Watch definisce gli abusi sessuali su bambine di undici-dodici anni una "pratica abituale" nel Darfur. Le minori vengono rapite, violentate e poi abbandonate, spesso in condizioni molto gravi.

L'Aids, poi, si è diffuso su scala planetaria e devasta soprattutto molti paesi dell'Africa facendo strage tra i minori (due milioni e trecentomila ne sono affetti nei paesi in via di sviluppo); migliaia di bambini perdono entrambi i genitori per colpa del virus. Circa centoventisei milioni di minori fanno lavori pericolosi. Soprattutto nei paesi industrializzati c'è la piaga del traffico di bambini, della prostituzione e della pornografia infantili. Sembra quasi che, invece di progredire nella protezione dei gruppi umani resi più fragili e indifesi dalla natura o dalla società, la violenza quotidiana contro quei gruppi dilaghi anche negli stati più avanzati economicamente.

Cosa può fare la comunità internazionale? L'Onu e l'Unicef (il Fondo dell'Onu per l'infanzia) giustamente partono dal presupposto che spetta soprattutto agli stati sovrani adoperarsi al loro interno per tutelare i minori che vivono sul territorio di ciascuno di essi. Le organizzazioni intergovernative possono solo pungolare gli stati più recalcitranti o meno sensibili a questi problemi, e nel contempo fornire un quadro normativo generale che incanali e guidi in modo uniforme l'azione statale. E così l'Onu ha elaborato una convenzione (1989), che delinea una sorta di Magna Charta dei diritti dei minori e ha avuto un successo enorme. È la convenzione in materia di diritti umani più ratificata dagli stati: centonovanta membri dell'Onu, più Santa Sede e Isole Cook (mancano solo gli Usa, che la considerano troppo permissiva e l'hanno avversata perché vieta la pena di morte, peraltro abolita negli Usa, per i minori, nel 2005; nonché la Somalia, perché il paese è ancora privo di un governo centrale). La Convenzione (insieme con due protocolli non meno importanti, uno sui bambini-soldato e l'altro sulla vendita dei minori e la prostituzione e pornografia minorili) ha certo la forza di sospingere gli stati più diversi economicamente e culturalmente ad adeguarsi a parametri di condotta internazionali, e di coordinarne quindi le azioni da intraprendere all'interno di ciascuno stato. Ma più non può fare, in particolare non può sostituirsi ai singoli apparati statali nel proteggere giorno per giorno i minori. Anche gli interventi di emergenza dell'Unicef (ad esempio, la fornitura di vaccini o di acqua potabile) non possono che essere limitati ed eccezionali. Come è eccezionale l'azione che l'Unicef svolge a Gaza, di concerto con il Centro palestinese sulla democrazia e con fondi della Commissione europea, per aiutare, attraverso il counselling di gruppo, i bambini sconvolti dalla martellante violenza di tutti i giorni. Là dove la società internazionale dei governi non riesce a far molto, subentrano, come sempre, le organizzazioni private, espressione della società civile internazionale. Sono esse che svolgono un'azione efficace. Nel campo di cui sto parlando basti ricordare Save the Children, Médecins sans frontières e Oxfam.

Ma chi protegge i minori traumatizzati da un grave lutto familiare, la morte di uno o di entrambi i genitori per fatti di guerra, gravi malattie, catastrofi? Le ferite nella mente di un bambino inferte dall'improvvisa mancanza di una delle figure parentali possono avere effetti psicologici devastanti. Se non curato psicologicamente, il dolore del fanciullo si incistisce e può scatenare angoscia, depressione o disturbi della personalità. Il sostegno psicologico è un fattore fondamentale per affrontare il lutto.

Se non aiutiamo questi bambini, i loro bisogni affettivi possono essere sfruttati e trasformati in forte aggressività verso altri. Ishmael Beah, un ex bambino soldato della Sierra Leone, ora famoso grazie al libro che ha scritto ( Memorie di un soldato bambino ), ha detto più volte che i comandanti militari che l'avevano reclutato lo avevano convinto che, uccidendo, avrebbe potuto vendicarsi di coloro che avevano massacrato la sua famiglia. Il dolore profondo di un bambino può anche essere provocato dalla improvvisa rescissione di legami affettivi. È la storia di Juman, una bambina palestinese di undici anni, che vedeva tutti i giorni a scuola, a Ramallah, la sua amichetta Zeina (questa abitava a Gerusalemme ma faceva su e giù). Dopo la seconda Intifada la creazione di checkpoint diradò gli incontri; qualche volta Juman andava a Gerusalemme a dormire a casa di Zeina, ma questa abitava accanto a un campo militare israeliano e il continuo ronzio degli elicotteri spaventava le bambine. Dopo breve gli incontri finirono; Juman soffrì moltissimo di aver "perso la sua migliore amica".

Purtroppo in questo campo si è fatto poco. Che io sappia, esiste solo un'organizzazione privata statunitense, il Dougy Center for Grieving Children and Families, specializzata nell'assistenza dei bambini scossi da lutti traumatici. Opera soprattutto attraverso la consulenza psicologica di gruppo. Qualcosa si è fatto in Mozambico per i bambini resi orfani dall'Aids, grazie agli sforzi congiunti delle autorità di Maputo, dell'Unicef e di vari enti privati. È stato fra l'altro organizzato un incontro in cui gli orfani hanno scambiato le loro esperienze. Una bambina di dodici anni ha poi detto: "Era la prima volta che mi capitava di incontrare altri orfani come me; abbiamo parlato tra noi dei nostri problemi. Vogliamo andare a scuola, avere cure sanitarie, giocare, essere amati".

La creazione a Firenze di un centro, incardinato in una struttura pubblica, per la psicoterapia di bambini cui è morto un genitore (per tumore, incidente o suicidio) è un passo pionieristico importante. Potrebbe aprire la strada ad altri enti pubblici in Italia e gradualmente espandere il suo mandato, prestando la sua consulenza anche all'estero, ad esempio in Palestina o in Africa, dove morti e lutti sono un fatto quotidiano.

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La Corte internazionale di giustizia di fronte al muro che viola i diritti

La Corte internazionale di giustizia, l'organo giudiziario supremo delle Nazioni Unite che ha sede all'Aja, ha spesso non poco deluso l'opinione pubblica, per la sua estrema cautela e per l'ossequio eccessivo che talvolta mostra nei confronti della sovranità degli stati. Clamoroso il caso del suo parere consultivo dell'8 luglio 1996 sull'uso e la minaccia delle armi nucleari, dove la Corte, per salvare capra e cavoli, aveva finito per creare ulteriore incertezza in materia, invece di dissiparla.

Il parere consultivo con cui, il 9 luglio 2004, la Corte si è pronunciata sulla legalità della costruzione del muro in Palestina e attorno a Gerusalemme, invece, non ha deluso l'aspettativa di tutti coloro che credono alla supremazia del diritto. I giudici dell'Aja hanno anzitutto avuto il merito di respingere l'obiezione di Israele, secondo cui essi non dovevano ingerirsi in una controversia politica in corso. Anche i paesi dell'Unione europea avevano auspicato che la Corte si astenesse dall'emettere un'opinione consultiva, per non intervenire nel negoziato politico, alterando così i rapporti tra giustizia e politica. La Corte ha spazzato via questi argomenti, pur di non trascurabile importanza, ritenendo che in ultima istanza anche i negoziati politici debbano essere condotti lungo linee che tengano conto dei valori fondamentali consacrati nel diritto internazionale. In breve, il diritto non deve essere calpestato dalla forza o soccombere alla Realpolitik.

Anche nel merito della legittimità del muro, la Corte ha finalmente fatto appello ai supremi valori accettati dagli stati e sanciti in norme internazionali cogenti. Così essa ha insistito sulla necessità che tutti gli stati rispettino i principi dell'autodeterminazione dei popoli e del divieto di usare la forza, e inoltre si attengano scrupolosamente al rispetto dei diritti umani. Giustamente la Corte ha notato che la costruzione del muro rischia di portare a una annessione di fatto di parti del territorio palestinese. Giustamente la Corte si allontana dalla sentenza, pur di grande importanza e significato, della Corte suprema di Israele, che aveva cercato di bilanciare le necessità israeliane di sicurezza con le esigenze umanitarie palestinesi, ritenendo che in vari casi queste ultime erano state ingiustamente sacrificate da Israele, talché il muro andava modificato per circa trenta chilometri. La Corte dell'Aja ha invece affermato che le norme internazionali applicabili in materia di diritti umani non ammettono deroghe basate su esigenze militari o di sicurezza.

In un lodevole sforzo di enunciare tutte le implicazioni giuridiche delle sue valutazioni della illegittimità del muro, la Corte ha poi insistito giustamente sui meccanismi internazionali che possono garantire il rispetto della sua pronuncia (anche se questa giuridicamente non è vincolante per Israele). La Corte ha così voluto coinvolgere non solo, ovviamente, i due organi supremi delle Nazioni Unite, e cioè il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale, ma anche i terzi stati. In breve, la Corte ha detto che né la forza né le necessità militari dell'occupante bellico possono "pagare": esistono nella comunità internazionale valori umanitari assoluti e inderogabili.

Gli stati, compresi quelli dell'Unione europea, non hanno però prestato ascolto all'autorevole voce della più importante giurisdizione internazionale.

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L'autodeterminazione del popolo palestinese: un sogno irrealizzabile?

L'uomo della strada si chiede legittimamente come mai in tanti anni l'Onu non sia stata capace d'imporre a Israele di rispettare il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione. La risposta è semplice. L'Onu non è dotata di un potere autonomo rispetto agli stati, non costituisce un supergoverno mondiale, ma ha solo poteri e ruoli che le sono delegati dagli stati. I burattinai che reggono i fili non sono però tutti gli stati membri, ma solo i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. E perciò non è lontana dal vero la battuta che circolava già molti anni fa tra i diplomatici del Palazzo di vetro (se scoppia un conflitto tra due piccoli stati, l'Onu interviene e il conflitto scompare; se si ha un conflitto tra una grande e una piccola potenza, l'Onu interviene e la piccola potenza scompare; se si ha una grave crisi tra due grandi potenze, scompare l'Onu). Ma la battuta va completata: se una grave crisi politica coinvolge uno stato, piccolo o medio, protetto da uno dei cinque glandi, l'Onu rimane paralizzata finché la superpotenza non cambia idea. Ciò è appunto quel che è successo per Israele, che è stato sempre e fattivamente protetto dagli Stati Uniti.

Dal 1948 a oggi le Nazioni Unite hanno adottato centinaia di risoluzioni contro Israele. Gli Usa si sono opposti a esse, tranne alcuni casi eccezionali, in cui si sono associati a condanne del Consiglio di sicurezza (per esempio, nel 1978 e nel 1982, riguardo all'azione di Israele nel Libano; nel 1978 per dichiarare illegittima l'annessione di Gerusalemme; nel 1979 per condannare gli insediamenti israeliani nei territori arabi occupati; nel 1981 per condannare il raid israeliano contro un impianto nucleare iracheno; nel 1988 per condannare l'espulsione di attivisti dell'Intifada). Ma anche queste condanne hanno avuto pur sempre una portata meramente verbale - e in effetti Israele le ha regolarmente disattese. A causa sostanzialmente dell'atteggiamento statunitense, l'Onu, dunque, è stata finora incapace d'imporre una soluzione adeguata.

Non esistono allora vie d'uscita? In realtà già tempo fa l'Assemblea generale dell'Onu ha indicato sia la strada per una soluzione politica accettabile, sia gli obiettivi principali. Anzitutto, l'Assemblea ha insistito sulla convocazione di una conferenza internazionale, cui partecipino i membri permanenti del Consiglio di sicurezza e tutte le parti al conflitto. Quanto agli obiettivi (enunciati nel 1989 in una risoluzione votata da quasi tutti gli stati del mondo, con il solo voto contrario di Israele, Usa e Dominica, e l'astensione del Belize), essi consistono essenzialmente nel ritiro di Israele dai territori arabi occupati, nella garanzia della sicurezza di tutti gli stati della regione e del libero accesso ai luoghi santi, e nella soluzione del problema dei rifugiati palestinesi.

A questa soluzione globale si perverrà solo quando gli Usa avranno il coraggio di cambiare radicalmente politica e imporre a Israele di accettare il negoziato internazionale.

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Srebrenica: uno smacco per il Palazzo di vetro

A livello internazionale il massacro di Srebrenica del 1995 segnò un triplice smacco: per le Nazioni Unite, per l'Olanda e per il Tribunale dell'Aja. Ma costituì anche il punto di non ritorno, dal quale cominciò il risveglio della comunità internazionale.

Iniziamo dalle Nazioni Unite. Le forze di peacekeeping per l'ex Jugoslavia, Unprofor, erano state istituite nel 1992, ma furono sempre inadeguate e mal dirette. L'embargo sulle armi, ideato per arrestare il rafforzamento delle parti in conflitto, finì per impedire ai musulmani bosniaci di armarsi per assicurare la propria difesa, mentre lasciò i serbi con la loro schiacciante superiorità. L'Onu diede anche un illusorio senso di sicurezza alle popolazioni della Bosnia. Srebrenica era una delle sei "zone di sicurezza" create dall'Onu per garantire protezione ai civili, e si rivelò un'enorme trappola. Quando apparve evidente che i serbi si apprestavano a liquidare le popolazioni musulmane a Srebrenica, Boutros Ghali e Kofi Annan (all'epoca responsabile per il peacekeeping) commisero un errore madornale: non chiesero l'intervento dell'aviazione della Nato, per ragioni politico-diplomatiche che poi ammisero (il timore che l'Onu fosse percepita come ostile ai serbi, che l'intervento sfuggisse di mano a New York e pregiudicasse la missione umanitaria dell'Unprofor, e che i serbi potessero compiere rappresaglie contro l'Onu).

Srebrenica segnò anche una profonda umiliazione per le truppe olandesi che dovevano tutelare la popolazione. Certo, avevano solo armi leggere, mentre i serbi erano forniti di armamento pesante. Ma si resero conto che i serbi si accingevano a distruggere la popolazione civile. Non riferirono immediatamente ai vertici Onu quel che stava avvenendo e, soprattutto, non si interposero tra i civili e le forze serbe. Peccarono di grave imprevidenza e codardia. Se un generale olandese avesse detto a Mladic "Se intendete massacrare i musulmani dovrete passare sul mio corpo", i serbi forse ci avrebbero ripensato.

Srebrenica segnò anche una sconfitta, pur se passeggera, per il Tribunale penale internazionale dell'Aja. Agli inizi del 1994 i giudici internazionali avevano appreso che i generali serbi avevano espresso il timore di essere un giorno processati dal Tribunale penale internazionale. I giudici si cullavano dunque nella falsa speranza che il Tribunale potesse avere un effetto dissuasivo. Pura illusione, perché tra fine 1994 e inizio 1995 era divenuto chiaro che il Consiglio di sicurezza vedeva il Tribunale come un meccanismo creato per nascondere la propria impotenza politico-militare; il Consiglio, inoltre, centellinando i fondi necessari, impediva al Tribunale di diventare un'istituzione vitale ed efficace. Nel contempo il procuratore Goldstone, adottando la sua "strategia piramidale" secondo cui occorreva partire dalla base per poi colpire gradualmente e in futuro i vertici politici e militari, stava incriminando solo pesci piccoli. I pesci grossi si sentivano dunque al sicuro. Arrivò così il luglio 1995, e all'Aja i giudici appresero con sgomento che i massacri erano in corso, e che i leader serbi sfidavano sprezzanti l'Onu e la giustizia internazionale. Fu il momento più nero per il Tribunale, il segno tangibile delle sue inadeguatezze.

Le stragi di Srebrenica diedero però una sferzata alla comunità internazionale. Resero chiaro che era intollerabile assistere inerti a crimini così gravi. Probabilmente gli Accordi di Dayton, del novembre 1995 (firmati a Parigi il 14 dicembre dello stesso anno), non ci sarebbero stati senza tutti quei morti. Quegli accordi segnarono una svolta, predisponendo tra l'altro la massiccia presenza della Nato in Bosnia. Anche il Tribunale si riscosse. Il 25 luglio 1995 Goldstone incriminò Karadzic e Mladic, ma per crimini anteriori a Srebrenica. E il 16 novembre dello stesso anno arrivò finalmente l'atto di accusa per i fatti di Srebrenica. Peraltro, già a fine gennaio dello stesso anno i giudici, facendosi carico di tutta l'istituzione internazionale per la quale operavano, con gesto inconsueto ma eccezionalmente motivato dalle esigenze specifiche della giustizia internazionale, avevano adottato una mozione unanime che invitava il procuratore a mutare strategia penale, perseguendo coloro che presumibilmente avessero maggiori responsabilità per aver pianificato, ordinato e diretto massacri. Il procuratore, anche su richiesta di Boutros Ghali, si adeguò e cominciò a incriminare comandanti militari e dirigenti di vertice che avessero gravi responsabilità.

L'arresto e la consegna di Karadzic al Tribunale per l'ex Jugoslavia, e il processo che seguirà per Srebrenica sono un evento importante, che certo contribuirà a far luce su uno degli episodi più terribili della storia contemporanea dell'Europa.

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QUANDO È LECITA LA GUERRA?



Il ricorso alla guerra e le regole del gioco — Iraq (2003)

Come giudicare l'intervento militare angloamericano contro l'Iraq del 20 marzo 2003? La risposta si può trovare nelle "regole del gioco" concordate dagli stati e consacrate nel diritto internazionale. Quelle regole sono state approvate nel 1945 da Usa e Urss, con il concorso di altri stati, sotto forma di norme fondamentali della Carta dell'Onu. Sono poche e abbastanza chiare: la pace è il bene supremo della comunità internazionale; in caso di crisi, occorre sempre sforzarsi di trovare soluzioni pacifiche; nessuno deve minacciare o usare la forza contro l'indipendenza politica e l'integrità territoriale d'un altro stato; la violenza militare può esser usata solo in due casi: in legittima difesa, e cioè per difendersi da un attacco armato già sferrato (resta dunque vietata la difesa preventiva), o su autorizzazione del Consiglio di sicurezza Onu.

In più casi tali regole sono state violate (per esempio, dall'Urss in Afghanistan nel 1980, dagli Usa a Panama nel 1989 o contro Sudan e Afghanistan nel 1998). Però, chi le ha infrante non ha mai negato l'esistenza di quelle regole, affermando tuttavia che, nel caso di specie, il suo comportamento era legittimato dalla Carta dell'Onu. Gli altri stati hanno tacitamente accettato quegli strappi. A quattro anni dall'intervento Nato in Kosovo gli Usa e l'Inghilterra sono stati pronti a rompere di nuovo il Patto supremo del 1945, decidendo di ricorrere unilateralmente alla guerra anche senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza (e lo avrebbero fatto anche in caso di veto d'un altro membro permanente del Consiglio). Vi erano però importanti differenze: tra l'altro, nel 1999 (all'epoca della crisi del Kosovo) il Consiglio di sicurezza non aveva intrapreso azioni; nel caso dell'Iraq invece l'organo supremo Onu aveva adottato misure con l'invio d'ispettori e la minaccia di sanzioni. Vi era poi un impegno collettivo, sancito nella risoluzione 1441, di ritornare al Consiglio, per fargli gestire la crisi. L'intervento angloamericano ha esautorato quell'organo. E ha negato la logica della soluzione pacifica, che va seguita fino in fondo e nulla giustifica che sia accantonata prima di aver dato i suoi frutti.

Scatenando una guerra unilaterale si è ripudiato il fondamento stesso dell'Onu: la ricerca accanita della pace e il ricorso collettivo alla guerra solo come estremo rimedio. Il passo angloamericano ha sferrato un colpo durissimo al sistema istituzionale della comunità internazionale e al tacito patto politico che sottende il sistema Onu: una grande potenza può usare la violenza bellica solo con il consenso degli altri membri permanenti del Consiglio, o con la loro tacita approvazione.


Perché la guerra all'Iraq (2003) era illegittima

Nei giorni che hanno preceduto la guerra contro l'Iraq, iniziata nel marzo del 2003, si è parlato tanto di diritto e soprattutto di diritto internazionale. È vero che il diritto viene usato da molti giuristi per servire il principe, per legittimare cioè sul piano ideologico scelte politico-militari. Ma è anche vero che il diritto non è una coperta stretta che ognuno può tirare dalla sua parte. Certi principi fondamentali della Carta dell'Onu sono abbastanza netti. Esiste ancora una "segnaletica" internazionale che dice cosa è ammesso e cosa è vietato. Ed è giocoforza concludere che la scelta angloamericana della guerra era assolutamente contraria sia alla Carta dell'Onu sia alle altre norme internazionali. Usare la forza armata senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza o senza che si stia rispondendo a un'aggressione in atto costituisce una violazione flagrante del diritto.

Molti hanno invocato la risoluzione 1441 (2002) del Consiglio di sicurezza per giustificare la guerra. È stato un tentativo maldestro, per varie ragioni. La risoluzione prevedeva ispezioni rigorose in Iraq, e stabiliva che, una volta ricevuti i rapporti degli ispettori, il Consiglio avrebbe dovuto riunirsi immediatamente per decidere come assicurare la pace e la sicurezza; dopo di che la risoluzione ammoniva l'Iraq che, in caso di continua violazione dei suoi obblighi, poteva subire "serie conseguenze". Quelle "conseguenze" potevano però essere decise solo dal Consiglio. Ciò è confermato dal fatto che, dopo l'adozione della risoluzione tutti i membri permanenti del Consiglio, compresi gli Usa, concordarono che essa non prevedeva un ricorso "automatico" alla forza, come invece hanno sostenuto gli Usa e l'Inghilterra nei giorni precedenti l'attacco, quando hanno cercato invano di ottenere una risoluzione legittimante.

Un altro argomento è più generale. L'uso della forza è una misura eccezionale e come tale deve essere previsto espressamente e appositamente, per essere legittimo. Non bastano due paroline generiche in una risoluzione, per scatenare una guerra. Ancora più arbitrario è invocare la risoluzione 687 del 1991, che pose fine alla Guerra del Golfo. Essa era una specie di trattato di pace imposto all'Iraq: prevedeva numerosi obblighi per quello stato, aggiungendo che non appena Baghdad li avesse accettati sarebbe entrato in vigore il cessate il fuoco. Il dittatore di Baghdad si piegò, così scattò la pace e terminò il ciclo aperto con l'invasione irachena del Kuwait e la reazione armata collettiva legittimata dall'Onu. Era perciò assurdo dire, dopo dodici anni, che se Saddam non ottemperava a quegli obblighi, la pace terminava e i belligeranti di un tempo si riprendevano il diritto (allora legittimo, purché autorizzato dall'Onu) di muovere guerra.

Certo, l'attacco all'Iraq non è stato il primo caso in cui grandi potenze hanno violato la Carta dell'Onu. Ciò è avvenuto in tante occasioni, ad esempio in risposta alla crisi del Kosovo. Ma, nel caso dell'attacco all'Iraq, la situazione è stata molto più grave. La spaccatura della comunità internazionale e la crisi dell'Onu hanno costituito un drammatico passo indietro. Prova ne sia che è stato usato un concetto, quello di ultimatum, che era diventato obsoleto. L'ultimatum era un atto unilaterale di uno stato a un altro, una dichiarazione di guerra "condizionata", che scattava cioè se certe condizioni non venivano osservate. Nel 1945 l'Onu ha cancellato il diritto di far guerra. Ora è solo legittimo difendersi da un'aggressione in atto. Perciò non ha senso ricorrere a un ultimatum e poi usare militarmente la forza. Se si agisce poi su autorizzazione del Consiglio di sicurezza, sarà quest'organo collettivo a emettere avvertimenti o messe in mora.

Che si sia finito per ricorrere a istituzioni del passato costituisce l'amara prova dell'imbarbarimento verso cui si sta avviando la comunità internazionale, a causa del terrorismo e di taluni spietati dittatori, da un lato, e dell'abnorme reazione di stati, pur democratici come gli Usa e l'Inghilterra, dall'altro.

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Requiem per un processo

Il processo e l'impiccagione di Saddam Hussein sono emblematici dell'approssimazione e dell'abborracciamento con cui americani e iracheni hanno gestito il dopoguerra in Iraq. Questi due governi non hanno scelto e poi coerentemente seguito una linea di condotta ben meditata, ma hanno ondeggiato tra varie alternative, finendo quasi sempre per impantanarsi in soluzioni contraddittorie. Basti pensare che prima hanno smantellato tutto l'apparato repressivo e amministrativo iracheno, e poi si sono resi conto che non c'erano né amministratori per far funzionare l'anagrafe, riscuotere le tasse, assumere e pagare insegnanti, né poliziotti per mantenere l'ordine pubblico né vigili urbani per sorvegliare il traffico. L'impiccagione dell'ex dittatore è stata il coronamento della generale inavvedutezza e del pressappochismo.

La storia mostra che la reazione alla caduta violenta dei dittatori può essere duplice. Talvolta si procede all'esecuzione sommaria del leader, come è avvenuto per Mussolini. Si vuole così chiudere drammaticamente un capitolo della storia e sbarazzarsi di un politico che, vivo, potrebbe ancora esercitare un forte ascendente sulla popolazione. In altri casi si sottopone a processo i leader deposti, come è avvenuto per i dirigenti nazisti e giapponesi, nel 1945-1946. Questa seconda opzione persegue più scopi. Sì vuole permettere alle vittime sopravvissute di raccontare in pubblico le proprie tragedie, con effetto catartico. Si vuole poi documentare e mostrare al mondo i misfatti del dittatore sconfitto. Si intende infine lanciare un messaggio ad altri despoti: anch'essi potranno essere trascinati davanti a un giudice, per rispondere penalmente dei propri crimini, come un qualunque cittadino.

Nel caso di Saddam, si è avuta un'opinabile commistione delle due opzioni. Non è stato giustiziato subito; si è voluto invece celebrare un processo. Ma questo processo è stato viziato da gravissime storture: i giudici, nominati e licenziati dall'esecutivo, non sono stati imparziali; i diritti della difesa sono stati ripetutamente violati. Soprattutto, la messa a giudizio di Saddam è stata parziale e lacunosa: si è troncato un altro procedimento in corso (per l'uso di armi chimiche ad al-Anfal, contro cittadini iracheni di origine curda) e si è impedita la tenuta di ulteriori processi, per imputazioni ancora più gravi. Perché, una volta imboccata la strada che gli americani avevano giustamente propugnato nel 1945, contro i grandi criminali tedeschi e giapponesi, si è poi frettolosamente chiuso la vicenda, finendo sostanzialmente per ricadere nell'alternativa dell'esecuzione sommaria? Chi aveva paura delle possibili rivelazioni di Saddam in altri processi, più importanti di quello che si è concluso con un'impiccagione?

Chiederete: ma che altro si sarebbe potuto fare? La scelta più limpida sarebbe stata quella sostenuta con forza, negli anni novanta, proprio dagli americani, ma riguardo ad altri imputati: creare un tribunale internazionale indipendente, come quelli per l'ex Jugoslavia e per il Ruanda. Oppure istituire una corte mista, composta da giudici iracheni e internazionali, questi ultimi con lo scopo precipuo di garantire indipendenza e imparzialità. È ancora una volta una soluzione caldeggiata dagli americani, quando hanno sostenuto, nel 2002, la creazione della Corte speciale per la Sierra Leone (che sta processando adesso un ex presidente, il liberiano Charles Taylor). Perché dunque gli americani non hanno applicato in Iraq modelli processuali che essi stessi avevano promosso in altre circostanze? L'unica risposta possibile è che, se l'avessero fatto, non avrebbero potuto più "controllare" il tribunale contro Saddam, né avrebbero potuto far condannare a morte l'imputato.

Il processo di Baghdad è stato equiparato da molti a quello tenuto il 25 dicembre 1989 dai rivoltosi rumeni contro i coniugi Ceausescu. Quello però fu peggiore: durò meno di un'ora e fu molto più farsesco, come risulta dalla trascrizione del procedimento, che mostra come l'avvocato della difesa addirittura rincarasse la dose contro i due coniugi. È tuttavia certo che il mediocrissimo processo contro Saddam non potrà né soddisfare le vittime dell'ex dittatore, né documentare i suoi crimini, né lanciare messaggi ad altri dittatori al potere.

Con l'impiccagione di Saddam, si è posto violentemente termine alla vita di un despota sanguinario, chiudendo un capitolo della storia. Ma è stato un giorno di lutto per la giustizia: è stata eseguita la pena capitale - una pena intollerabile per la civiltà moderna - e ciò per giunta al termine di un processo non equo.

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