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| << | < | > | >> |Indice5 Tanto per sbirciare nell'orribile segreto 19 Il fatale strumento 33 La geometria contro errori e orrori 51 Preistoria della macchina 61 Il medico e il boia 78 Il chirurgo e il cembalaio 89 Pecore e cadaveri: il collaudo 97 Il nome della cosa 105 Il taglio del nastro 115 La vedova allegra 132 La cerimonia del supplizio 143 Lo spettacolo delle vittime illustri 157 Terrore, sospetto e giustizia 172 L'accusatore e l'incorruttibile 182 Il sangue e l'Essere Supremo 196 Accorciare i giganti 203 Il dibattito sulla testa viva 218 Opinioni e fantasie del decapitato 230 L'inquieta tomba di Guillotin 239 La fine della gloria |
| << | < | > | >> |Pagina 5È possibile ghigliottinare un impiccato, il contrario è decisamente più difficile. (Philippe Geluk) Nella prigione parigina della Conciergerie, sulla centralissima Île de la Cité, attendeva di essere ghigliottinato, alla fine del 1835, il pluriomicida Pierre-François Lacenaire. Racchiuso in cella, egli compilò delle memorie che, salvate chissà come, hanno largamente contribuito a fondare il mito del ladro e assassino dandy. Tra le tante cose che scrisse, Lacenaire gettò su un pezzo di carta una manciata di versi, nei quali salutava la macchina che di lì a poco lo avrebbe abbracciato e giustiziato: Salute a te, mia bella fidanzata, tra le cui braccia mi devo ora abbandonare! A te il mio ultimo pensiero, io fui tuo fin dalla culla! Salute, o ghigliottina, sublime espiazione, che sottrai l'uomo all'uomo, e lo redimi dal crimine, in seno al nulla, mia speranza e mia fede! Pochi versi, di modesta levatura letteraria, ma molto eloquenti, rivelatori di come la ghigliottina in Francia fosse entrata nell'immaginario collettivo, al punto da suscitare un canto auto-ironico. Lucenaire avrebbe incontrato la sua "bella fidanzata" all'alba del 9 gennaio 1836 alla barriera di Saint-Jacques, sul perimetro meridionale della città. Pochi anni prima, alla fine del 1830, era uscito dallo stampatore parigino Levavasseur, che aveva bottega a piazza Vendôme, il Rosso e nero di Stendhal: i lettori che, stregati dal romanzo, volarono alle pagine finali, parteciparono con trasporto alla culminante decapitazione del protagonista Giuliano Sorel. Sposato con Matilde, egli aveva tentato di uccidere la sua antica amante, quella signora di Rênal che in una lettera ne aveva svelato il cinico arrivismo, ma l'aveva soltanto ferita. Nulla da eccepire per la decapitazione in seguito a un tentato omicidio, che in quegli anni era cosa normale; e infatti la narrazione si chiude sull'appassionato personaggio di Matilde che raccoglie la testa dell'amato Giuliano per darle tenera sepoltura. Eppure, noi leggiamo oggi quel finale di romanzo come una nota di colore e semmai ci chiediamo: possibile che per un ferimento – il reato di cui s'è macchiato – Giuliano sia condannato alla pena capitale? Altra sensazione può suscitarci Victor Hugo, che dopo aver assistito a parecchie esecuzioni capitali scrisse: "Si può nutrire una certa indifferenza sulla pena di morte, non pronunciarsi affatto, dire sì e no, fintanto che non si è vista coi propri occhi una ghigliottina". Credo di poter vivamente consigliare questa esperienza a ogni lettore: la ghigliottina si riesce ancora a scovare in qualche museo criminale in giro per l'Europa e nell'Est asiatico, in Vietnam ad esempio. Vista coi propri occhi si potrà capire cosa intendeva Hugo: si vivrà un turbamento singolare, l'orrore per qualcosa di profondamente osceno. Dopo, non si sarà mai più indifferenti alla pena di morte. È questo – anche questo – il segreto della terribile macchina che, abolendo la durata del supplizio, annullava però anche, in un attimo, l'umanità del condannato, lo defraudava del suo essere uomo mozzandogli la testa.
Oggi fatichiamo a comprendere come i giacobini abbiano
potuto vedere nella ghigliottina lo strumento di una giustizia democratica ed
esemplare – perché di questo si tratta. A noi sembra lo strumento di una
giustizia arcaica, lontana nel tempo, un congegno ormai aggredito dalla ruggine
che fatalmente i secoli incrostano sugli oggetti: una patina vecchia di due
secoli si è depositata sul
glaive de la liberté
(gladio della libertà), sulla
hache populaire
(ascia popolare) – come la ghigliottina era crudelmente chiamata dal popolo
quando fece la sua comparsa sulle piazze di Parigi – o sul
rasoir national
(rasoio nazionale), come fu poi altrettanto crudelmente battezzata nel periodo
napoleonico.
Ruggine? Le cose non stanno affatto così, dato che la pesante lama trapezoidale che dall'alto stramazza sulla nuca del condannato piombò per l'ultima volta in Francia (e anche nell'Unione Europea) il 10 settembre 1977: praticamente ieri. Il fatto avvenne in un oscuro cortile della prigione delle Baumettes a Marsiglia. A compiere l'esecuzione fu l'ultimo boia di Francia, Marcel Chevalier. A essere legato sull'asse orizzontale, con la testa infilata nel buco, era invece l'immigrato tunisino Hamida Djandoubi, condannato a morte per aver seviziato e assassinato una ragazzina. Si è insomma continuato a usare fino a trent'anni fa un meccanismo che non è mai stato granché modernizzato: una macchina vecchia di due secoli, ma ancora molto efficiente. Erano gli anni della presidenza di Giscard d'Estaing, durante la quale furono eseguite ventuno condanne a morte. Quattro anni dopo, nell'ottobre 1981, la Francia – fallito un tentativo parlamentare di abolirla nel 1908 (201 voti a favore, 330 contro) – abrogava la pena di morte, soprattutto grazie all'intenso lavoro di Robert Badinter , all'epoca ministro della Giustizia, che convinse il nuovo presidente François Mitterand a promulgare un decreto che trasformava le esecuzioni capitali in carcere a vita. Nel febbraio 2007 Chirac ha voluto che l'abolizione della pena di morte fosse iscritta nella Costituzione francese. La Francia è stato l'ultimo Paese della Comunità europea ad abolirla: altrove era successo prima. In Italia la storia dell'abolizione della pena di morte è tortuosa: soppressa da Pietro Leopoldo di Toscana nel 1786, fu però conservata dagli altri Stati; fu poi esclusa nel 1889 dal codice Zanardelli, ristabilita dal fascismo nel 1926 per i gravi delitti politici (teniamo presente la necessità che ne hanno i regimi totalitari per questioni politiche: servirà per capire meglio il carattere del cosiddetto Terrore francese), di nuovo soppressa dai padri costituenti nel 1948. In ogni caso, la tendenza abolizionista del secondo dopoguerra si è rapidamente affermata nel mondo. La Germania, che pure sotto il regime nazista aveva fatto rotolare centinaia di teste, abolì la pena di morte dopo la seconda guerra mondiale: la Repubblica Federale nel 1949, quella Democratica nel 1968. Storia a sé fanno alcune nazioni che ancora oggi la conservano: la Cina, gli Stati Uniti, la Russia. In Francia la ghigliottina, che inizia a lavorare nel 1792, resta dunque in auge per 185 anni, quasi due secoli di onorato ed esemplare servizio. Già qualcuno ha meditato su questa curiosa circostanza: che il Paese della grandeur, la nazione della principale rivoluzione occidentale, la culla dell'illuminismo, ci abbia messo tanto ad abolire la pena di morte. Non solo: nel momento stesso in cui la ghigliottina nasceva, la Francia dei Lumi era già in ritardo rispetto a Pietro Leopoldo di Toscana e all'Austria (che aveva abolito la pena di morte nel 1787), ma anche, incredibilmente, rispetto alla dispotica Russia di Elisabetta Petrovna, che l'aveva soppressa addirittura, con duplice decreto, nel 1753 e 1754. Ma appunto di grandeur si tratta: una grandezza che scaturisce anche da come andarono i fatti della Rivoluzione scoppiata nel 1789, sul cui percorso a un certo punto svetta l'invenzione magnifica e inquietante della ghigliottina. | << | < | > | >> |Pagina 12Che lo si voglia o meno, la ghigliottina è diventata una immagine tipica della rappresentazione storica dell'epoca. Nelle sue Riflessioni sulla Rivoluzione francese, Edmund Burke ebbe già nel 1790 il presentimento della simbiosi tra Rivoluzione e macchina: "Nei sentieri delle loro Accademie grandeggia di lontano l'ombra del patibolo". Proprio così: la Rivoluzione, compiuta nelle accademie prima ancora che sulle piazze, si snoda su uno scenario che ha sullo sfondo, costantemente, il sinistro contorno di una macchina che, una volta introdotta, entra a far parte della coscienza collettiva.La fase storica del Terrore, avviata nel 1793, resta impressa nella memoria per questo strumento, che sembra inoltre legato inscindibilmente ad alcuni nomi: Maximilien Robespierre e Louis Saint-Just. Il primo, è noto, si fa artefice del Terrore poco dopo aver proposto l'abolizione della pena di morte. Si è parecchio ironizzato su questo, facendo anche inalberare gli storici che vedono la Rivoluzione con inossidabile simpatia. Resta il fatto che essa perse la carrozza dell'abolizionismo: poteva abolire la pena di morte e non lo fece. Le ragioni storiche di questo fallimento sono tante, certo, e tuttavia a noi osservatori moderni sembrano inammissibili. Ma tant'è, e su Robespierre si continuerà a lungo a ironizzare. Non basta: tale è il valore emblematico della macchina, da essere diventata un simbolo nazionale: quando si dice 'ghigliottina', è alla Francia che immediatamente si pensa. Di più: si pensa a Parigi e non alla provincia, dove pure lavorò a pieno ritmo. La sua storia dimostra – lo si leggerà in queste pagine – che gli uomini che vollero la ghigliottina ne rimasero in certo modo incatenati. Non solo ci persero loro stessi la testa (l'eterno ondeggiare della storia...), ma si trovarono a dare concreta applicazione tecnica a una punizione umanitaria che ripugnava all'umanità. Santa ghigliottina fu a un certo punto chiamata, e il segreto della santità è forse nel fatto che la devozione si accompagna alla repulsione: diventa santo chi ha in sé qualcosa di detestabile. Stessa cosa per la macchina: santa nella misura in cui l'entusiasmo, anche popolare, celava la ripugnanza. Molto significativa è in questo senso una dichiarazione del dottor Cullerier, uno dei collaudatori all'ospedale della Bicêtre nel 1792, quando disse che si andava a sperimentare una macchina "che l'umanità non può considerare senza raccapriccio, ma che la giustizia e il benessere della società rendono necessaria". Proprio così: la nuova società che nasceva dalla Rivoluzione non poteva fare a meno di quella macchina, ma tutti la accolsero e la guardarono "con raccapriccio", perché in essa era racchiuso un segreto di suprema crudeltà. | << | < | > | >> |Pagina 37Sulla scia di questi errori e orrori, si cominciarono ad alzare diverse voci, prime fra tutte quelle che nell'epoca dei Lumi pensavano all'abolizione della pena di morte. Tra questi soprattutto il giurista milanese Cesare Beccaria , il cui trattatello Dei delitti e delle pene, destinato a sollevare molto clamore, uscì a Livorno nell'estate del 1764: le decine di edizioni in tutta Europa sono la prova tangibile che il momento era maturo per affrontare il tema della pena e della sua dignità. In Francia, dove si era in procinto di inventare la ghigliottina, il libro fu tradotto e subito commentato nel 1766, anno in cui Beccaria si trovava a Parigi e frequentava le colazioni filosofiche che l'illuminista Claude-Adrien Helvétius e la moglie organizzavano nel loro salotto di via Sainte-Anne.Il clamore scaturiva dall'intera materia del libretto che, con stile nitido e sicuro, discuteva le tare della legislazione penale e ne invocava il mutamento. Secondo Beccaria erano necessarie alcune innovazioni: il codice che determinava le pene per ogni delitto doveva esser di massima chiarezza, senza nulla lasciare all'arbitrio di un giudice che poteva umanamente sbagliare; doveva inoltre essere ben divulgato, in modo che ogni uomo che aveva sottoscritto il "contratto sociale" conoscesse le proprie responsabilità. I Lumi dovevano accompagnare la libertà, concludeva Beccaria. Il ventaglio delle necessità penali su cui egli si tratteneva è ampio: gli indiziati non siano sottoposti a rigori carcerari prima del processo, il carcere preventivo non sia infamante, i giudizi siano pubblici per evitare diffidenze, sia estirpato il sistema delle accuse segrete, sia abolita ogni vana tortura crudele ed evitata ogni pena spietata, le pene siano rese sollecite e proporzionate ai delitti. Ma soprattutto – e qui siamo al nucleo della questione – giudicando goffo e assurdo mirare a scoraggiare l'omicidio privato ricorrendo a quello pubblico, Beccaria chiedeva la totale abolizione della pena di morte, sostituita dalla schiavitù perpetua. Come egli scrive, è più efficace la durata della pena rispetto alla sua durezza "perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento". Lo spettacolo della schiavitù perpetua è molto più potente dell'idea della morte, perché induce il cittadino a dire: "Io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti". E concludeva che non è utile la pena di morte per l'esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Fondato sulla ragione, questo nuovo approccio al concetto di penalità ricevette fervida accoglienza da parte degli illuministi. Voltaire recepì con entusiasmo il pamphlet di Beccaria e intervenne nella querelle affermando che "la morte dei criminali non è di vantaggio per nessuno, tranne che per l'esecutore". Dunque, piuttosto che la pena di morte, meglio sarebbe indirizzare i criminali al lavoro coatto, a tutto beneficio della società. Diderot, con la sua fama di ottimo e sensibile enciclopedista, acconsentì. Questo ampio movimento di opinione non fu però sufficiente: l'idea di abolire la pena di morte era prematura rispetto alla storia, che al pari della politica resta dietro al rullare delle idee. Non era tempo di poter abrogare la pena di morte e le questioni – in una Francia non ancora matura per poter accogliere una scelta così avanzata – restavano altre. In primo luogo trovare il punto di armonia tra diligenza, dolcezza ed esemplarità della pena capitale; ambire poi all'uguaglianza davanti alla pena, all'abolizione della biasimevole differenza dei mezzi di esecuzione, la spada per i nobili, la fune, il fuoco, l'orrore per gli altri. | << | < | > | >> |Pagina 46La macchina allude a tre forme fondamentali della geometria: il rettangolo svettante dei montanti, il cerchio della lucarne, il triangolo della lama (che assieme al mouton diventa un trapezio). Nella Storia della società francese durante la Rivoluzione i fratelli Goncourt procurano una descrizione molto evocativa sul piano geometrico della macchina: "Nella ghigliottina, la scienza realizza un piano orizzontale a qualche piede dal suolo sul quale sono state innalzate due perpendicolari separate da un triangolo rettangolo che cade attraverso un cerchio sopra una sfera che rimane isolata per mezzo di una secante". Nulla insomma della meticolosa e complessa laboriosità degli strumenti di tortura: qui siamo di fronte a una macchina di perfetta funzionalità e armonia formale.Ma non solo di geometria si tratta, anche di fisica naturale, dato che essa funziona mediante una delle forze semplici della natura, la gravità che accelera la caduta della lama. Nella ghigliottina sono implicite le leggi della geometria e della gravitazione, di universale validità, come lo sono le norme della massoneria, e come vollero esserlo quelle della Rivoluzione. Valide per tutti gli uomini del mondo. Anche se un dito nella piaga andrà comunque girato, ricordando come l'universalismo possa a volte assumere un volto repellente (globalizzazione docet). Resta la consolazione che la macchina sembrò a qualcuno un cavalletto per dipingere, tra i cui montanti prendeva forma un ritratto istantaneo, più una fotografia che un dipinto. L'esecutore che si collocava di fronte alla macchina, l'incaricato di collocare con esattezza la testa del condannato nell'occhiello della lunetta tirandola a sé, era indicato come 'il fotografo' – e perciò lungo il Novecento farsi condannare alla ghigliottina fu anche detto "farsi fotografare". L'attimo dell'esecuzione può infatti essere interpretato come una istantanea, che fissa nel tempo una immagine perversa. Per tornare a noi, le forme semplici della geometria alludono a norme di universale validità. Stabilendo l' egalité della pena, la geometrica ghigliottina assurse a oggetto di civiltà. Notiamo che la Dichiarazione dei diritti dell'uomo dell'agosto 1789 aveva posto, oltre al resto, il principio basilare della riforma della giustizia stabilendo l'uguaglianza di ogni uomo davanti alla legge. Quando dunque Guillotin depositò all'assemblea il suo progetto di legge, nell'ottobre 1789, era prima di tutto preoccupato di uniformare e umanizzare le pene: ben in linea con i princìpi enunciati solennemente ad agosto. Il suo progetto mirava a risparmiare al condannato la goffaggine tecnica di certi boia (umanizzazione della pena) e a far sparire la disuguaglianza sociale implicita nei diversi tipi di esecuzione di un condannato abolendo il privilegio nobiliare (uniformazione della pena capitale). La ghigliottina meccanizza la morte impedendo ogni variazione dovuta all'agente umano: vittima e macchina diventano tutt'uno, si integrano. L'effetto di uguaglianza è ottenuto ed essa si rivela pertanto un vero oggetto di civilizzazione, il prodotto concepito dalla società filosofica di fine Settecento per fare meglio e più dolcemente volare le teste. Sopprimendo torture e supplizi, la ghigliottina accorda al condannato una morte dolce, perché rapida e indolore. Il giustiziato non ha nemmeno il tempo di pensare: la sensazione che egli prova è qualcosa di assolutamente imponderabile. La sua sola angoscia è quella che si manifesta prima dell'esecuzione, forte finché si vuole, ma precedente al fatto, non legata al fatto. Il nuovo sistema punitivo era moralmente perfetto, e accreditava l'epoca che lo aveva inventato e messo in atto. Era una questione di etica, mentre dopo, quando ormai aveva agito per qualche decennio, sarebbe diventata di estetica: tutti a un certo punto lo trovarono rivoltante. Ma all'inizio le cose non stavano così, e a seguire la storia della ghigliottina ci si renderà conto che la sua invenzione fu paradossalmente guidata da sentimenti umanitari. Per ora notiamo che l' egalité della pena giunge a vette di perfezione. A un certo punto la ghigliottina accoglie ogni categoria sociale: il generale come il soldato semplice, il nobile e il villano, il credente come l'incredulo, l'accademico e l'analfabeta, il ricco e il povero, la contessa e la femme de joie. Un errore grossolano ha portato a credere che la lama abbia troncato teste blasonate e rispettato le più umili: nulla di più falso. La mannaia s'abbatté sulle une e sulle altre, facendo zampillare sangue blu e sangue rosso. La più radicale uguaglianza stabilita dalla ghigliottina fu la parità davanti al boia. | << | < | > | >> |Pagina 115Un'idea, buona o cattiva che sia, si modifica sempre quando dalla filosofia si trasferisce alla politica, mondo in cui tutto ciò che viene toccato – come capitava a re Mida – si trasforma in qualcosa di diverso. Lasciamo a ognuno la libertà di pensare se le singole trasformazioni sono in oro oppure in sterco. Qui bisogna rilevare che anche l'idea della ghigliottina, quando lo strumento scivola verso una funzione politica, si allarga e si trasforma. A partire dall'agosto 1792, e per due interi anni, essa assurge a strumento per governare, e il suo impiego sistematico erige un grande teatro macabro, fatto per rigenerare la coscienza pubblica dopo i secoli dell'assolutismo. Dopo Pelletier, la vedova cominciò a lavorare a tutto spiano, proprio come una vedova allegra. Nella primavera del 1792 fu la volta di ben nove cittadini emigrati che, catturati con le armi in pugno, furono decapitati in piazza Grève, e tutto sommato questa fu la prima esecuzione di sapore politico. Nell'agosto 1792, con la fondazione del primo tribunale rivoluzionario, cominciarono a salire sul patibolo i primi di una lunga fila, e da questo momento la macchina diventò un oggetto sinistro: quando si ergeva su una piazza di Parigi per una esecuzione capitale, la si lasciava appositamente montata. Tutto semplice, se non fosse che la ghigliottina sembra scottare, e non riesce a restare in un luogo troppo a lungo: seguirne gli spostamenti è un po' come fare un ampio giro della riva destra della Senna. E anzi: colpisce il fatto che le esecuzioni avvengano quasi sempre sulla rive droite, certamente in relazione all'esistenza su questo lato dei grandi palazzi del potere e delle grandi piazze per il concorso popolare. La prima esecuzione è dunque del 25 aprile 1792 a piazza Grève, chiamata così fin dal Medioevo, cioè piazza del Greto, essendo parallela alla Senna. Oggi è la piazza dell'Hótel-de-Ville. Chiunque va a Parigi è difficile che non faccia una capatina in questa luminosa piazza del quartiere del Marais, su cui si affaccia il municipio storico della capitale: è da questo palazzo che, il 10 agosto 1792, la Comune appena costituita dai sanculotti lanciò l'ordine d'insurrezione; lo stesso palazzo in cui, il 27 luglio 1794, fu catturato e ferito Robespierre. Il nome della Grève ha segnato ogni sommossa popolare parigina: quando il popolo si riuniva in quella piazza era per "la grève", da cui è poi sorta l'accezione di grève come 'sciopero'. Fin dal Trecento fu la sede delle esecuzioni capitali, di cui celebre quella del brigante Cartouche. Quando i rivoluzionari decisero di impiantare qui la ghigliottina, la scelta sembrò la più idonea. Ma evidentemente le cose non stavano così, e già pochi mesi dopo il rasoio cambiò sede e, nell'agosto 1792, fu montato, a sorpresa, a piazza del Carrousel. Una volta il vecchio palazzo del Louvre e il castello delle Tuileries erano separati, e tra le due costruzioni sorgeva un quartiere di impianto medievale, fatto di vicoli e stradine tortuose, tra cui si allargava appunto la piazza. È qui, in questo dedalo di viuzze, che si consumò la "seconda rivoluzione francese", quella del 10 agosto 1792. Gli insorti attaccarono il palazzo delle Tuileries, ma il labirinto delle stradine fu una gola di strangolamento per una folla eccitata giunta da ogni angolo di Parigi. A difesa del monarca c'era un reggimento di 750 guardie svizzere con le uniformi rosse. Le guardie fecero avanzare la massa di popolo fin nel cuore della piazza e poi aprirono il fuoco; il concorso di popolo dei sobborghi ebbe però la meglio sulle guardie, che si difesero fino alla fine, con una coscienza professionale cieca e disperata, e furono infine sopraffatte. Sul selciato, nei giardini, sulle terrazze di fianco alla Senna, restarono centinaia di corpi, quasi quattrocento insorti e seicento guardie (le altre centocinquanta furono rinchiuse nel carcere dell'Abbazia e lì massacrate il 2 settembre). Napoleone era al Carrousel: come tutti i parigini era venuto per assistere alla prevedibile caduta della monarchia, e trasse da quella sanguinosa scena di violenza una lezione perenne, il suo istintivo disprezzo per la folla. In ogni caso, fu in quel giorno che la monarchia cadde: la famiglia reale fu internata nella Torre del Tempio (demolita nel 1808 da Napoleone perché diventata meta di pellegrinaggio monarchico) e, sotto la pressione delle masse, l'assemblea votò la sospensione del re e convocò nuove elezioni a suffragio universale: la nuova assemblea che si andò poco dopo a insediare fu la celebre Convenzione Nazionale, sotto la quale gli eventi abbracciarono il loro successivo, tragico destino. Ecco perché il 10 agosto ha un valore essenziale nella storia della Rivoluzione: è la data cui, di fatto, nacque la Repubblica. | << | < | > | >> |Pagina 218Ciò che accadde dopo la fase rovente della polemica potrebbe agilmente essere assegnato a quel dominio dell'osservazione umana che Oscar Wilde indica con uno dei suoi detti fulminei: "La vita imita l'arte ben più di quanto l'arte imiti la vita". Pura arte è infatti la serie di esperimenti condotti realmente sulla testa di alcuni ghigliottinati: come definire diversamente il sublime scandalo di medici che si mettono a parlare con teste mozze? Alcuni esperimenti risalgono a quegli anni. Nel 1796 uscì a Parigi un curioso libretto del signor Auberive, Aneddoti sui decapitati, in cui l'autore, facendosi forte del celebre episodio di Maria Stuarda la cui testa mozzata pare avesse detto qualcosa, riportava numerosi casi di teste che, una volta decollate, avevano spiccicato qualche parola. Un esperimento — tentato per capire se è possibile trattenere l'anima per qualche secondo dopo il colpo della mannaia — è meritevole di attenzione: Il soggetto era un giovane uomo condannato, per un delitto, a essere decapitato. Appena giustiziato, i chirurghi arrestarono con astringenti il sangue che zampillava dal tronco, altri che sostenevano la testa la rimisero al suo posto con tutta l'esattezza e la destrezza possibili, vertebra su vertebra, nervo su nervo, arterie sopra arterie; l'incisione fu avvolta nel suo contorno in compresse fissate con un apparecchio; infine furono avvicinati alle narici del paziente liquori spiritosi e volatili. La testa allora sembrò rianimarsi. Si scorse un movimento sensibile nei muscoli del viso e ammiccamento rapido delle palpebre. Un grido di sorpresa e di ammirazione si fece sentire; si alzò il giovane uomo con precauzione, lo si portò molto dolcemente nella casa vicina dove, dopo aver dato qualche leggero segno di vita, egli spirò. Nel 1803 altro esperimento a Breslavia, attuato dal dottor Wendt e colleghi sulla testa del condannato Troer. La relazione descrive come gli aiutanti sollevassero la testa, il cui sembiante aveva una placida espressione, gli occhi spalancati, la bocca chiusa. Wendt puntò un dito verso gli occhi e vide che la testa tentava di chiuderli. La testa fu voltata verso il sole e gli occhi si chiusero davvero. Il medico urlò forte in un orecchio il nome di Troer: "Dopo ogni richiamo gli occhi, che si stavano chiudendo, si aprirono e si voltarono lentamente dalla parte da cui proveniva la voce e la bocca si aprì più volte". Gli sperimentatori credettero di poter cogliere in alcuni movimenti lo sforzo della testa di parlare, di dire qualcosa. L'esperimento durò in tutto un minuto e mezzo. Con la fine della Rivoluzione l'interesse si spostò però altrove. Michel Vovelle lo spiega in modo semplice nell'aureo libretto La Rivoluzione francese spiegata a mia nipote, quando racconta che cosa capitò dopo la caduta di Robespierre: "La borghesia che aveva fatto la Rivoluzione traendone grande profitto, si sentì minacciata e un suo rappresentante si espresse così: Ho bisogno di un re, perché sono un proprietario. Vale a dire per proteggere i miei beni, i miei vantaggi, soprattutto quelli che mi ha procurato la Rivoluzione. Ma allora, visto che il re è morto da cinque anni ed è escluso il ritorno all' ancien régime, dove trovare questo re?". Ecco dunque il Bonaparte salvatore della borghesia arricchitasi mediante la Rivoluzione. La ghigliottina continuò a funzionare, anche al seguito delle truppe francesi che si disseminavano ovunque, ma a chi poteva interessare la questione della testa viva? La storia fece il suo corso, sorse e tramontò l'astro di Napoleone, furono restaurate le monarchie, ci furono le guerre di indipendenza e quant'altro. E solo dopo, a fine Ottocento, mentre ancora si ghigliottinava (anche se non più per motivi politici ma meramente penali), la questione si rinfocolò, e ancora una volta mediante la classe medica. Furono infatti tre medici a condurre un interessante esperimento subito dopo la decapitazione, il 13 novembre 1879, di Theotime Prunier, condannato a morte per aver ammazzato una vecchia, averne violentato il cadavere, averlo buttato in un fiume e poi ripescato per violentarlo ancora, in una sorta di possessione criminale che sembra comica se non fosse vera. Prunier era un robusto contadino ventitreenne: corpo ideale su cui condurre l'esperimento, naturalmente col permesso delle autorità competenti. Ghigliottinato alle sette del mattino, i medici ne raccolsero la testa cinque minuti dopo e ne osservarono i caratteri. Il viso era pallido, di espressione ottusa e un po' smarrita; le palpebre era chiuse: le alzarono e apparvero due occhi fissi, con pupille molto dilatate. Fu eseguita una serie di test – chiamare per nome la vittima, darle un pizzicotto, avvicinare al naso una pezza intrisa di ammoniaca, accostare una candela accesa agli occhi – nulla da fare: nessuna reazione, nessuna contrazione. Esperimento fallito, dimostrativo che la morte era avvenuta in tempi brevi.
La cronaca mise un po' in subbuglio il mondo scientifico che, interrogatosi
sulla sua validità, concluse che il tempo trascorso tra decapitazione e test
scientifico era stato troppo lungo. Bisognava sperimentare quando ancora era
in atto l'emorragia. E ciò fu possibile a partire dal momento in cui
l'esecuzione cessò di essere pubblica, a fine Ottocento.
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