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| << | < | > | >> |Pagina 30È sabato. Il sole che filtra dalle tende mi sveglia. Accendo il cellulare e vedo che ho bene approfittato della giornata di riposo: è mezzogiorno. Mi arriva un sms: "Dopo più di un mese dal vostro arrivo, è il momento del battesimo di fuoco: oggi si pranza al Sufi!". È Hans che invita me e Teresa in uno dei ristoranti di cucina afghana più famosi di Kabul, che prende il nome dai primi mistici musulmani, una corrente tutt'oggi molto in voga negli ambienti musulmani più progressisti. Il locale si trova in una traversa di Shar-e-Naw, non molto lontano dall'ambasciata. Il poco traffico del giorno di festa ci consente di arrivare in pochi minuti davanti a una cancellata di ferro dipinta di verdolino. Hans è nostro collega d'ufficio, nonché attaché economico-commerciale dell'ambasciata. È alto quasi due metri, e deve il nome alla mamma danese che nei ruggenti anni '70, in una indimenticabile vacanza sulla riviera romagnola, aveva conosciuto un aitante suonatore di piano bar che poi sarebbe diventato il padre di Hans. Così si ritrova un nome nordico, e un simpatico accento romagnolo. Se la cava bene alla guida della vecchia Toyota Corolla celeste metallizzato, nonostante di solito lasci guidare Faraydun, autista e tuttofare. Bussiamo, e ci apre un anziano con una coperta sulle spalle, ciabatte di plastica e un copricapo tondo decorato da specchietti. Saluta con un sorriso sdentato e fa segno di proseguire: un sentiero gira attorno alla costruzione, verso il giardino del ristorante. Gli alberi sono spogli, il prato è coperto dalla neve, al centro una fontanella ghiacciata e una serie di panchine di legno colorato intorno. Hans ci apre la porta da bravo gentiluomo, e veniamo investiti da un profumo di cardamomo, melanzane fritte e pane appena sfornato. Le pareti sono adornate con foto antiche, tappeti e suzani, i tradizionali arazzi dell'Asia Centrale. Possiamo scegliere dove accomodarci: il tipico soppalco di legno coperto da tappeti, al centro del quale sta un tavolino basso e tanti cuscini intorno, oppure dei più occidentali tavoli con normalissime sedie. Teresa non ha un attimo di esitazione: si leva le scarpe e si accomoda a gambe incrociate sulla pedana. È Hans a ordinare i cibi tipici. Il cameriere, vestito con un paio di pantaloni bianchi a sbuffo e un gilet ricamato di rosso e nero, annuisce senza prendere nota. Alla fine dell'elenco ci chiede se stiamo aspettando qualcun altro. Hans lo rassicura: quel cibo è tutto per noi. Arrivano le bevande: succo fresco di melograno (tipicamente afghano, dato che il frutto si trova quasi ovunque durante l'inverno) e tè verde, accompagnati da uno stuzzichino: bulani, calzoni ripieni di patate e erba cipollina. Dopo una ventina di minuti, arrivano gli altri piatti, tutti insieme: Kabuli pulau (ricetta tipica di Kabul), riso con uvetta, cardamomo, carote, mandorle e pezzetti di manzo, kofta pulau, riso basmati con polpette di agnello, prugne e zafferano; mantu, ravioli ripieni di carne macinata e cipolle, conditi con una salsa di pomodoro, yogurt e lenticchie; banjiani borani, melanzane fritte con pomodoro e yogurt acido; insalata di coriandolo con cipolla, pomodoro e cetriolo, e gli shish kebab, niente a che vedere con quello che intendiamo per kebab: sono semplici spiedini di montone alla griglia (il termine kebab in dari indica tutto ciò che è cotto alla griglia). Siamo sfiniti, ma ordiniamo anche il dolce: gelato all'acqua di rosa e budino di latte con i pistacchi. Il cardamomo regna sovrano in ogni piatto, un po' come il nostro prezzemolo. Risultato finale: Teresa è sdraiata sui cuscini, e io continuo a bere tè, nella speranza che mi aiuti a digerire. Hans guarda fuori dalla finestra: "Forse ce la facciamo ancora ad arrivare in cima con il sole". "In cima dove?" chiede Teresa. "Alla TV Hill, la collina della televisione. Si vede da tutta la città, perché sta al centro. È una delle colline più alte di Kabul, e infatti ospita le antenne della TV". Risaliamo in macchina e attraversiamo diversi quartieri. Arriviamo in una zona piena di baracchini di metallo ondulato dove sono in vendita copertoni e altri pezzi di ricambio per auto. È da qui che inizia la salita per una strada sterrata fatta di tornanti, ognuno dei quali regala la vista di Kabul da mille diverse prospettive. Ai bordi della strada ci sono casette di fango con gli infissi colorati, e persone che camminano o procedono lentamente a dorso d'asino. Qualcuno ci saluta, soprattutto i bambini, che ci inseguono per qualche metro urlando e ridendo. Arrivati a un certo punto si può proseguire solo a piedi. Da qui in poi c'è la collina brulla e una vista incredibile. Camminare dopo aver mangiato così tanto è un sollievo. Arriviamo vicino alle antenne: saremo a duecento metri, quindi a un'altitudine di 2.000 metri, considerando che Kabul è su un altopiano a 1.800 metri. Il solo pensiero mi toglie il fiato. Il panorama è bellissimo e la città si vede a tutto tondo, con i suoi diversi quartieri. Intorno le montagne altissime e innevate, una candida cornice all'agglomerato urbano color del fango. | << | < | > | >> |Pagina 33Marco mi chiama per chiedermi se voglio andare a fare un giro sulla Collina degli aquiloni. È chiaro! Non mi perderei un'uscita così per niente al mondo! Mi copro bene con un piumino che arriva alle caviglie e una sciarpa larga che fa da velo, e corro verso il gate.
Li trovo tutti pronti, con l'auto blindata, bardati come
Robocop. Occhiali scuri, anfibi, qualcuno ha il giubbotto
anti-proiettile e la pistola attaccata alla coscia. Sono quattro
degli otto carabinieri Tuscania, gli angeli custodi dell'ambasciatore. Oggi si
concedono un'uscita di svago, senza rinunciare al loro stile inconfondibile.
La Collina degli aquiloni si trova non lontano dall'ambasciata. Per arrivarci passiamo davanti allo stadio, quello in cui, durante il regime dei talebani, si tenevano le esecuzioni e le lapidazioni. Di fronte allo stadio si trova il cimitero degli aeroplani, un deposito di rottami dei velivoli che, negli anni, sono arrivati qui da Gran Bretagna, Russia, Iran, così come di quelli dell'aviazione afghana e dell'Ariana, ex-compagnia di bandiera, oramai bandita dai cieli d'Europa. Saliamo su per il pendio, tra gli alberelli piantati di recente grazie alle donazioni dei governi stranieri per rinverdire zone in passato estremamente rigogliose, ma selvaggiamente disboscate durante la guerra. Già da lontano si vedono alcuni aquiloni colorati, e quando arriviamo capisco perché questa è la Collina degli aquiloni: si trova abbastanza in alto per essere esposta al vento, non c'è vegetazione ed è in pratica un grandissimo piazzale su cui poter correre in lungo e largo: il luogo ideale per far volare gli aquiloni. Sembra quasi un grande balcone che offre una vista su Kabul da una prospettiva particolare. Non per niente, grazie alla sua posizione strategica, la collina è stata dal 1979 al 1989, nel periodo della lotta contro l'invasione sovietica, il quartier-generale dei Mujaheddin. Da qui, con le loro armi, anche loro hanno contribuito alla distruzione della città. All'estremità sinistra dello spiazzo c'è una costruzione quadrata con una cupola azzurra, rivestita da piastrelle. È il mausoleo di re Nadir Sha, dove riposano i resti degli ultimi regnanti della famiglia reale afghana.
Essendo sabato, con un bel sole alto e un vento che spazza
tutto, la collina è affollatissima di persone, principalmente papà con i loro
bambini. Come al solito tutti maschi. Ci
sono anche i venditori di aquiloni (venduti separatamente
dal filo). Un ragazzino con uno
shalwar-kamiz
nero (il vestito tradizionale afghano, formato da una casacca lunga e ampi
pantaloni dello stesso colore) e un gilet marrone
si trascina dietro un carretto pieno di aquiloni colorati. Ci
individua subito, stranieri e senza aquilone, e inizia a esporci la merce,
spiegando le differenze di prezzo e di fattura.
Alla fine tira fuori un aquilone di un bel rosso vivo con delle decorazioni
gialle, dicendoci che è quello giusto per noi
principianti. Naturalmente è il più costoso. Il filo lo scegliamo verde. Nel
frattempo si è creata una piccola folla di
bambini. Siamo un po' maldestri e loro ci guardano tutti
ridendo. Un ragazzino con gli occhi verdi e i capelli ingelatinati, un po' più
coraggioso degli altri, si fa avanti per
mostrarci come far volare la nostra aquila del cielo. Attacca il filo alla coda,
prende in mano la matassina e si mette
a correre per far alzare in aria l'aquilone. Dopo un attimo
è già in alto, il filo è tesissimo, e Abbas (così si chiama il
piccolo maestro) me lo cede, insegnandomi a direzionarlo.
Nel suo inglese stentato mi dice di fare attenzione alle mani
perché il filo, nel momento in cui l'aquilone prende quota, inizia a srotolarsi
a grande velocità, col rischio di tagliare i palmi. Per avvalorare la
raccomandazione mi mostra serio l'interno delle mani graffiate.
Di ritorno dalla collina, passiamo accanto a una nutrita folla di uomini. Marco, che è alla guida, rallenta, e Francesco si sporge dal finestrino per vedere. "C'è il buskashi! fermiamoci". Il buskashi è lo sport nazionale afghano, una specie di polo, ma al posto della palla di legno i cavalieri si contendono a mani nude una capra decapitata, con lo scopo di portarla al centro del campo, in un cerchio disegnato a terra col gesso bianco. La prima impressione è di uno sport un po' confusionario: non riesco a capire bene come siano formate le squadre, né dove inizi e finisca il campo da gioco. Anzi, se non si fa attenzione, si rischia di essere travolti da un'orda di venti cavalli al galoppo. Devo però riconoscere che i cavalieri sono bellissimi da guardare, gli sguardi agguerriti, i turbanti sapientemente annodati e le vesti colorate. Cerchiamo di farci un po' di spazio tra gli uomini accalcati al bordo del campo, e finalmente riesco a vedere qualcosa. Mentre allungo il collo per capire dove sia la capra, getto uno sguardo intorno, e con sgomento mi rendo conto che gli spettatori non stanno più guardando i cavalieri, ma si sono voltati verso di me e mi osservano come un animale raro. Credo di essere l'unica donna nel raggio di qualche chilometro, e nonostante sia coperta dalla testa ai piedi con un ammasso informe di vestiti, intuisco di esser diventata l'attrazione principale. Mi volto verso Marco e Francesco, piegati in due dalle risate. A malincuore capisco che è il momento di montare in macchina. Mi tiro il velo sulla fronte, ma non oso più alzare lo sguardo. Chissà se la capra ha raggiunto il cerchio bianco... | << | < | > | >> |Pagina 107L'ospedale di Anabah, nella Valle del Panjshir, è uno dei tre centri di Emergency nel Paese. Il secondo si trova nella capitale, mentre l'ultimo è a Lashkargah, al sud, nelle vicinanze di Kandahar, la zona maggiormente a rischio per la presenza dei talebani. Quando avevo conosciuto Marco, il logista dell'organizzazione che si occupa dei rapporti con l'ambasciata, lo avevo tempestato di domande, confessandogli che da molti anni seguivo a distanza le attività dell'organizzazione in Afghanistan. Vedendo il mio interesse, mi aveva promesso di portarmi con sé a visitare il presidio del Panjshir alla prima occasione. Mi trovo così a risalire il fiume che scava la valle per la seconda volta. Non posso fare a meno di meravigliarmi di quanta tranquillità e bellezza regnino qui, e di quanto sia forte il contrasto con la città. Il pulmino bianco con la scritta rossa procede sulla strada libera, a eccezione di qualche bambino a dorso d'asino. Sono in compagnia di Marco e di due infermiere che trascorreranno ad Anabah i prossimi tre mesi per formare il personale appena assunto. L'ospedale appare da dietro una collina: sul fianco del monte, immerso nei prati verdi, sembra una clinica svizzera tra le montagne. Alessio, responsabile del centro, ci accoglie al cancello e insieme percorriamo la strada verso i tre edifici bianchi col tetto rosso. Gli altri conoscono già il centro, quindi Alessio si dedica totalmente a me. Mi spiega che negli ultimi sei mesi, oltre all'ospedale, Emergency ha creato dei piccoli centri di primo soccorso sparsi per la valle. Sono sette in tutto e prestano le prime cure, mentre solo per i casi più gravi fanno riferimento alla clinica di Anabah. In questo modo l'attività ospedaliera prosegue più speditamente. Poi facciamo il giro dei reparti, il più importante dei quali è la maternità. Il personale, a parte qualche occidentale, è quasi tutto composto da donne del posto, che seguono corsi di formazione e professionalizzazione. Ovunque regna pulizia e precisione, i macchinari sembrano moderni, le sale parto sono attrezzatissime e non mancano le incubatrici con i loro piccolissimi ospiti. Le infermiere sorridono, le mamme con i loro bambini sonnecchiano nei letti, circondati dai pupazzi colorati dipinti alle pareti. I servizi igienici sono puliti e funzionanti. In un Paese dove tutto è polveroso e sporco, dove il bagno è un buco puzzolente nel terreno, ma soprattutto dove non è possibile ricevere cure di qualità a costo zero, ciò che vedo sembra un miracolo. E soprattutto non mi sembra vero di trovarmi nel posto di cui ho letto tante volte sui notiziari di Emergency. È come chiudere il cerchio. | << | < | > | >> |Pagina 178David è un ingegnere svizzero che lavora per la Croce Rossa Internazionale di Kabul. Passa a prendermi alle dieci, per portarmi nel posto che da tanto desidero visitare: il Centro Ortopedico della Croce Rossa, il cui fondatore e direttore è dal 1989 Alberto Cairo, un avvocato-fisioterapista di Mondovì.
David ha seguito un progetto di innalzamento dello standard qualitativo
delle varie componenti delle protesi, così
come di stampelle, sedie a rotelle e quanto è necessario a chi,
per varie ragioni, perde gli arti. Questi pazienti non sono
solo vittime di mine, ma anche diabetici che subiscono
amputazioni, vittime di incidenti, oppure persone nate con
malformazioni. Qui vengono inoltre curati casi di idrocefalia, paraplegici, ma
anche disagi minori, come i piedi piatti,
che se non diagnosticati in tempo possono causare problemi in età adulta.
Insomma, tutto ciò che riguarda le ossa e i movimenti.
La cosa più bella di questo centro è che si occupa dei pazienti dal momento
dell'arrivo (con vari tipi di cure, operazioni
e poi la riabilitazione) fino alla completa guarigione e anche
successivamente, perché le protesi periodicamente vanno
sostituite, oppure le persone necessitano di altre cure. Inoltre al paziente
viene insegnato anche come prendersi cura della protesi e come utilizzarla al
meglio. Tutto in modo gratuito.
Ciò che è stupefacente è che il centro è autonomo e autosufficiente, e tutto viene fabbricato "in casa": componenti delle protesi di plastica e di metallo, gambe, braccia, piedi, carrozzine, stampelle di vario tipo e perfino i cuscini per le sedie a rotelle. David mi porta in giro per i vari laboratori, illustrandomi una suddivisione del lavoro efficientissima. Per quanto riguarda le protesi, viene fabbricato il calco della gamba (il negativo), quindi realizzato 'il positivo' in legno e su questo viene creata la protesi con un materiale leggero e resistente composto da resina e plastica attraverso la sovrapposizione di vari fogli dei due materiali fusi in forni ad alte temperature e poi lavorati. Circa duecentocinquanta persone sono all'opera tra meccanici, falegnami, sarti: c'è chi cuce i cuscini, chi dipinge il metallo delle carrozzelle, chi ne assembla le varie parti. Una catena di montaggio funzionale! Ed è affascinante pensare che, con strumenti e passaggi semplici, si restituisce a questa gente la possibilità di avere una vita normale: camminare, pedalare, lavorare. Ma la cosa rivoluzionaria è che tutti i lavoratori sono stati a loro volta pazienti e poi sono stati inseriti nello staff del centro. È un'ottima soluzione, per due motivi: 1) difficilmente una persona con protesi viene assunta per un lavoro; 2) chi è passato dallo status di paziente mette molta più passione e impegno in ciò che fa, perché sa che sta lavorando per migliorare la vita di qualcuno. Per questo motivo, esiste perfino un centro di formazione per giovani che vogliono lavorare nel centro.
Di conseguenza, qui il personale è quasi tutto di nazionalità
afghana, così come lo staff medico: a parte qualche eccezione, come David, gli
infermieri, i dottori e i fisioterapisti sono afghani.
Verso la fine del nostro giro passiamo dal reparto dove sono
ospitati i bimbi idrocefali. Su un letto c'è una mamma che tiene in braccio il
suo bambino dalla testa enorme. David mi
spiega che purtroppo è allo stadio terminale della malattia.
Vengono da Bamiyan, la valle dei Buddha distrutti dai talebani, una provincia
lontana e poverissima, dove non ci sono
ospedali. Sono arrivati a Kabul da qualche settimana, dopo un
lungo viaggio. Normalmente la patologia, se diagnosticata in
tempo, può essere curata grazie a una serie di operazioni, ma
ormai per questo piccolo paziente non si può più fare nulla.
La mamma sembra giovanissima, e ha il viso più bello e dolce che abbia mai
visto. La saluto, e lei risponde con un sorriso stanco. Nei suoi occhi si legge
tristezza, ma non disperazione. Forse queste persone sono abituate ad affrontare
il dolore diversamente. Oppure hanno perso la speranza.
Esco dal reparto e torno nel piazzale da dove è iniziato il tour,
scaldato dal tiepido sole di dicembre. Oggi ho incontrato
tante persone sorridenti e innamorate del proprio lavoro,
grate di avere la possibilità di tornare a vivere una vita quasi normale.
Persone che la società rifiuterebbe perché inutili, possono riacquistare un
ruolo e sperare in un futuro migliore grazie a una gamba o un braccio nuovi.
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