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| << | < | > | >> |IndiceIn luogo d'introduzione. Sul calcio, il comunismo e l'Inter 7 1. Le parole per dirlo 19 2. Individualismo o organizzazione? 29 3. «Un'epoca di rivoluzione sociale» 41 4. Bolscevichi rossoneri 51 5. Il lavoro del calcio 59 6. Un nuovo tipo di calciatore 69 7. Pianificare "nei dettagli" 81 8. La rivoluzione che viene 91 9. Lo spettacolo del calcio: ovvero, la negazione del collettivo 105 10. Interismo-leninismo 115 Errori arbitrali ed errori giudiziari. Nota annessa 125 Note sulle fonti 129 |
| << | < | > | >> |Pagina 7La leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza. ITALO CALVINO «Comunismo è una parola indicibile. Se fermi qualcuno per strada e gli dici: "io sono comunista", quello non ti capisce». Così si è espresso Fausto Bertinotti nell'agosto 2008, nel corso di una conversazione riportata nell'ultimo libro di Bruno Vespa. L'avesse detto Silvio Berlusconi, nessuno se ne sarebbe meravigliato. Ma detto da chi è stato per più di dieci anni il segretario del Partito della Rifondazione Comunista ha destato impressione e suscitato polemiche (e di lì a poco scissioni): è come se il Papa avesse detto che Dio non esiste. Qualche mese prima di quella conversazione, Massimo Cacciari veniva intervistato a proposito del ventesimo anniversario dello scudetto del Milan di Sacchi. Dopo aver sostenuto che Sacchi doveva ritenersi il simbolo di quella stagione e che nel suo gioco «non conta l'individuo, ma il sistema» («Contano certamente gli interpreti adeguati, ma devono sapere che non sono assolutamente dei solisti, ma parte di un'orchestra»), all'intervistatore che gli chiedeva se si trattasse di una lezione utile anche per la politica italiana ha risposto: «Ci sono teorie politiche che sostengono esattamente quello che Sacchi ha realizzato col Milan». Quali fossero queste "teorie politiche" Cacciari si è ben guardato dal dirlo, ma nel corso dell'intervista ha disseminato indizi gravi, precisi e concordanti. Che poi non abbia tirato le conclusioni può spiegarsi solo supponendo che anche per lui – come per Bertinotti – "comunismo" sia una parola indicibile. Ci sono molte buone ragioni per pensarla così e tutte si riannodano alla pesantezza e all'opacità di quel mondo che, fino al 1989, ha preteso di nominarsi con quella parola: un mondo che prima di sgretolarsi e dissolversi si era come pietrificato e ancora minaccia di pietrificare chiunque osi evocarlo, proprio come lo sguardo inesorabile della Medusa. Nelle sue Lezioni americane, Italo Calvino racconta il mito di Perseo, che per tagliare la testa alla Medusa senza lasciarsi irretire dal suo sguardo cavalca i venti e le nuvole, fino a posare lo sguardo sull'immagine della Gorgone catturata da uno specchio. Così, vedendo la Medusa senza però guardarla direttamente, Perseo riesce ad averne ragione; e la sua testa mozzata da lì in avanti porterà sempre con sé, nascosta in un sacco: arma micidiale da mostrare ai nemici che meritano di diventare la statua di se stessi. La forza di Perseo – spiega Calvino – sta nel rifiuto della visione diretta della Medusa, ma il suo rifiuto non equivale ad una fuga nel sogno e nell'irrazionale: quella realtà fatta di mostri, al contrario, egli l'assumerà a proprio perenne fardello. Piuttosto, Perseo comprende che bisogna guardare il mondo con un'altra ottica, avvalendosi di altri metodi di conoscenza e di verifica: ciò che del mondo appare terribile bisogna prima guardarlo attraverso uno specchio. Come il calcio. Del mondo umano esso riproduce anzitutto la dimensione conflittuale: il confronto e il conflitto fra i giocatori è sempre mediato dalla presenza e dal possesso di una "cosa" (la palla, che – va da sé – sta per simbolo di tutte le cose) e, pur svolgendosi secondo una logica intelligibile, è sempre incerto, "aperto" nei suoi esiti ultimi (l'ultima in classifica può battere la prima o magari strapparle un pareggio). Ma del mondo umano il calcio rispecchia anche la potenza e inesorabilità della regola (incluso l'errore di quanti son chiamati ad applicarla) e soprattutto la bellezza: quella bellezza che, come sosteneva Roland Barthes, consiste nel dare ritmo alla fatalità, nel fare di un atto difficile un gesto grazioso, nel dare alla necessità la forma della libertà. Non è dunque un caso che il calcio abbia assunto quella funzione sociale che in passato ha svolto il teatro: perché nell'uno come nell'altro caso di altro non si tratta che di riunire tutta la cittadinanza in un'esperienza comune – la conoscenza delle forme e delle passioni della propria vita. «Tutto ciò che accade al giocatore accade anche allo spettatore», concludeva perciò Barthes prima ancora che la scoperta dei "neuroni-specchio" desse una fondazione neurofisiologica alle sue parole: e in effetti, il calcio esprime, libera e brucia quelle stesse forze, quegli stessi conflitti e quelle stesse angosce che tutti noi sperimentiamo nella nostra esistenza. La partita di calcio riduce la lotta per la vita a pura forma, ma ne conserva intatto il significato; detto altrimenti, nel calcio c'è l'intero universo sociale umano. Incluso il comunismo. Lontano dalla pietrificante pesantezza del Gosplan, della burocrazia statale e del Gulag, i suoi "rapporti di produzione" ispirano la struttura dei moduli a zona che si sono affermati dopo la definitiva vittoria del "calcio totale": moduli in cui, per dirla proprio con Cacciari, «non conta l'individuo, ma il sistema» e che possono funzionare solo a patto che tutti i calciatori, in ogni momento, siano capaci di pensare allo stesso modo, cioè di interpretare la partita in base ad una visione collettiva tale per cui nessuno è indipendente dagli altri. Pianificando ex ante i loro movimenti, ma facendo attenzione a rimodularli a partita in corso per tener conto della mutevolezza e contingenza delle situazioni concrete. L'idea che sorregge queste pagine è che osservare, studiare e analizzare il modo in cui questi rapporti funzionano nel calcio possa scansare il rischio di essere immediatamente schiacciati dal peso della materia storica, politica ed economica che ne costituisce il normale contesto di riferimento. E che, sottratti a quest'ultimo, essi possano mostrare ciò che finora non hanno potuto dire. Un modulo in cui non esistono più ruoli fissi e in cui ciascun giocatore è insieme difensore, centrocampista e attaccante non presuppone soltanto organizzazione, programmazione e inquadramento, ma favorisce il massimo della libertà espressiva, nel senso che ogni giocatore acquisisce la libertà di seguire la propria ispirazione purché abbia la copertura di uno o più compagni di squadra. È un modo di giocare che è fatto di schematizzazione non meno che d'invenzione, di "gabbie" non meno che di "libertà". Come ha scritto Sandro Picchi, l'essenza del calcio a zona è che «puoi fare ciò che vuoi, ma non puoi farlo senza gli altri». Che poi la fantasia di gruppo possa diventare gruppo senza fantasia dipende dalla scarsa qualità dei suoi interpreti: pressing, possesso palla prolungato e sincronia nei movimenti collettivi richiedono non soltanto bravi calciatori, ma soprattutto atleti polivalenti, che sappiano correre, giocare il pallone e avere senso tattico. Si tratta di qualità che sempre più spesso vengono esaltate dai giocatori neri, in un felice connubio tra velocità e resistenza, potenza e agilità. E il fatto che molti di coloro che vestono le maglie dei club (e delle nazionali) occidentali arrivino adesso non più soltanto dal Sudamerica ma anche dall'Africa può costituire un salutare antidoto contro la xenofobia dilagante dei nostri tempi di crisi. Non lo capiscono quanti come Toni Negri — "sonnecchiano" di fronte a un calcio fatto di «22 piccoli Materazzi, 22 automi, 22 giocatori di un videogioco di media qualità», e sognano «i padri e i nonni del funambolico Maradona», che negli anni '30 ci avrebbero insegnato «"íl metodo": una difesa dura e un attacco che rilanciava sulle ali, lento e preciso come in un tango». Per non parlare di quegli altri che — come Marco Revelli — lamentano per contro che «le squadre non hanno più alcuna relazione coi luoghi che rappresentano» («sono piene di mercenari, basta pensare all'Inter che è fatta solo di latinoamericani»). Gli uni a dolersi che non c'è più métissage, gli altri a lamentare che ce n'è perfino troppo e che «la globalizzazione ha fatto perdere identità al calcio». Gli uni a sperare che si possa "involvere" tatticamente agli anni '30, gli altri a rimpiangere i "bei tempi" in cui la giocata del singolo valeva più dell'organizzazione di squadra. Non sono maestri "cattivi", ma ormai inutili. Del '68 hanno assunto fino in fondo la spinta anarchica e spontaneista e la declinazione che calcisticamente ne danno è coerente con l'antistatalismo feroce che esibiscono sul versante politico. L'una e l'altro essendo oggettivamente in ritirata, non varrebbe la pena nemmeno di menzionarli se non fosse che la loro longevità pubblica (specie nell'ambito dell'industria culturale) costituisce uno tra i principali puntelli ideologici alla crisi del capitalismo. Ma più di questo qui non possiamo dire: l'insegnamento che si può trarre dalla spiegazione materialistica del calcio a zona sta nella letteralità del racconto, non nelle glosse a margine. Max Ernst ha parlato di "spaesamento sistematico" a proposito di certi quadri di De Chirico in cui si vede un armadio moderno nel bel mezzo di un paesaggio classico, tra alberi d'ulivo e templi greci. Spiegare l'evoluzione della tattica calcistica dall'uomo alla zona ricorrendo alla concezione materialistica della storia è un azzardo che può riuscire a patto di indurre nel lettore uno straniamento del genere e proprio per ciò questo libro esibisce fin nel titolo un "binomio fantastico" dalle incerte origini (ma dal solido presente): come spiegava Gianni Rodari, una singola parola "agisce" solo quando ne incontra una seconda che la provoca, che la costringe a uscire dai binari dell'abitudine, fino a scoprirsi nuove capacità di significare. Quali significati susciti l'accostamento di due parole così distanti si vedrà nell'ultimo capitolo di questo "breve corso". Qui resta da dire che anche noi, prendendo le mosse da due milanisti come Bertinotti e Cacciari, abbiamo di fatto riprodotto il mito della fondazione dell'Inter, quel mito che finora si è fatto carico di spiegare l'inspiegabile: che cioè in cent'anni di esistenza l'Inter è sempre stata capace di alternare partite fantastiche a cadute rovinose, imprevedibili le une e le altre e sempre maturate in un brevissimo torno di tempo. La storia è nota: la sera del 9 marzo 1908, una quarantina di dissidenti del Milan, in polemica con la decisione della società di non far giocare gli stranieri, si diedero appuntamento in un ristorante milanese e fondarono un'altra squadra. «Nascerà qui, al ristorante "L'Orologio", ritrovo di artisti, e sarà per sempre una squadra di grande talento. Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l'azzurro, sullo sfondo d'oro delle stelle. Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo»: così narra il documento fondativo, e poco importa stabilire se il nero e l'azzurro furono scelti per eternare il cielo di quella magica notte o perché il pittore che disegnò lo stemma era a corto di colori. Peppino Prisco, indimenticato dirigente nerazzurro per circa mezzo secolo, soleva ironizzarci su: esser generati da una costola del Milan, diceva, era come ammettere che si veniva fuori dal nulla. Ma sul piano del mito, la cosa ha ben altre implicazioni. Da una costola (di Adamo) nacque la donna, secondo il racconto della Bibbia. E una donna nata di 9 marzo è indiscutibilmente Pesci, cioè aggiunge alla fascinosa eleganza del femminile l'instabilità e la volubilità del carattere, che connotano quel segno zodiacale. In effetti, si è detto spesso che l'Inter è una squadra "femmina", con ciò maliziosamente contrapponendola a squadre "maschie" (cioè "dominatrici") come il Milan o la Juventus. Non importa qui stabilire le origini storiche di quell'appellativo. Il punto indiscutibile è che il carattere "femminile" dell'Inter non rimanda affatto alla sposa-madre-angelo del focolare di democristiana memoria, col suo carico di frustrazioni e nevrosi piccolo-borghesi, ma piuttosto alla donna emancipata che si afferma durante la Sexual Revolution degli anni '60. Forse non è un caso che siano proprio quelli gli anni in cui nasce il mito della "Grande Inter": quel mito, infatti, rimanda ad una donna finalmente padrona della propria sessualità e del proprio corpo, che si è liberata della schiavitù dell'amore per un uomo e perciò non assicura al proprio compagno nessuna di quelle "certezze" che permeavano il dominio maschile nell'età vittoriana. L'Inter è come una compagna che ti ama e che nondimeno ti può "tradire", perché la sua capacità di amare eccede necessariamente la tua persona. Per questo l'interista è sempre, inevitabilmente, un innamorato un po' disilluso e un po' voyeur: il suo rapporto d'amore non è mai in discussione, ma lui sa sempre che la sua amata, pur amandolo, può amare e darsi a un altro. E mai con la meschinità del sotterfugio, ma sempre nella folle gioia del baccanale, della dépense. Non sappiamo se questo libro potrà offrire una spiegazione razionale della ricorrente "pazzia" dell'Inter, ma non importa molto: Horkheimer e Adorno dissero che il mito era già illuminismo e l'illuminismo sarebbe tornato dialetticamente a rovesciarsi in mitologia. Raccomandiamo solo di non indugiare ancora nelle rievocazioni del glorioso passato della "Grande Inter": non solo perché l'Inter 2009/2010 è una squadra in fieri e Mourinho ha già ricordato che l'evoluzione non procede mai nella stessa direzione («Arriva sempre un momento nel quale non si gioca bene e non si vince»: l'evoluzione «ha bisogno di errori e difficoltà»), ma soprattutto perché Marx ci ha insegnato che, se è vero che i grandi eventi si ripetono sempre due volte, la seconda, di solito, è una farsa. E dunque, compagni interisti, guardiamo al futuro (e tocchiamo ferro). | << | < | > | >> |Pagina 29In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l'analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di svolgimento. [Questi] hanno già la solidità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di rendersi conto non già del carattere storico di queste forme, che per essi anzi sono ormai immutabili, ma del loro contenuto. KARL MARX «Osservate una partita di foot-ball: essa è un modello della società individualistica: vi si esercita l'iniziativa, ma essa è definita dalla legge; le personalità vi si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera, ma per capacità specifica; c'è il movimento, la gara, la lotta, ma esse sono regolate da una legge non scritta, che si chiama "lealtà", e viene continuamente ricordata dalla presenza dell'arbitro»: così scrive Gramsci in un articolo sull' Avanti! del 26 agosto 1918. Era ancora – specie in Italia – il periodo pionieristico del calcio, ma già gli osservatori più acuti ne avevano colto lo stretto legame con la modernizzazione capitalistica, le cui peculiarità sociopolitiche esso traslava sul versante dei neonati sport di massa. La stessa possibilità degli "sport di massa", del resto, dipendeva dal progressivo affermarsi di sistemi produttivi di tipo capitalistico. Più precisamente, la disponibilità di un "tempo libero" dal lavoro, che della pratica sportiva è ineliminabile presupposto, costituiva un sottoprodotto delle lotte sociali e politiche che avevano accompagnato lo sviluppo delle forze produttive materiali connesso all'impiego tecnologico della scienza, tramite il quale i capitalisti perseguivano (come tuttora perseguono) l'obiettivo di abbattere i costi di produzione e di massimizzare la produzione del profitto. Ed essendo l'Inghilterra patria del capitalismo industriale e della democrazia politica, era del tutto logico che gli sport moderni – e segnatamente il calcio, che ne è il più rappresentativo – ne prendessero prestito i caratteri essenziali: «Anche in queste attività marginali degli uomini si riflette la struttura economico-politica degli Stati», osservava Gramsci nell'articolo citato poc'anzi, e aggiungeva: «Lo sport è attività diffusa nelle società nelle quali l'individualismo economico del regime capitalistico ha trasformato il costume, ha suscitato accanto alla libertà economica e politica anche la libertà spirituale e la tolleranza dell'opposizione». Non è questo, però, che qui preme mettere in luce, tanto più che esiste al riguardo una letteratura consolidata, che ha fatto giustizia della pretesa di rinvenire nel calcio moderno altro che non fosse lo stigma della modernità capitalistica anglosassone. Il punto che qui interessa è un altro, ed è che l'iconografia dominante rappresenta anche il modo di produzione capitalistico come un sistema produttivo e distributivo tipicamente individualistico. | << | < | > | >> |Pagina 32Se dunque una rappresentazione ideologica è all'origine della pretesa delle società dominate dal modo di produzione capitalistico di considerarsi come pure e semplici "società di individui", in cui ciascuno è libero di fare quel che gli pare e di esprimere come meglio crede il proprio talento, potrebbe darsi che all'origine della credenza per cui, fino a poco tempo fa, il calcio sarebbe stato un gioco affidato esclusivamente all'estro individuale dei suoi protagonisti si debba trovare un analogo velo ideologico: un velo ideologico che, anche in questo caso, potrebbe mascherare sia una sovradeterminazione strutturale della presunta "libertà" di ciascun calciatore di esprimere il proprio estro a proprio piacimento, sia una qualche forma di ineguaglianza fra i calciatori stessi.Il mito della libertà assoluta del calciatore si perde in effetti nelle nebbie della preistoria del calcio, che possiamo datare fino alla prima metà dell'Ottocento: fino ad allora, infatti, una partita di calcio era fatta di estenuanti rincorse fra portatori di palla capaci solo di dribbling, un po' come è dato oggi vedere nelle partitelle fra bambini; passare la palla al compagno di squadra era invece considerato un atto disdicevole, perché implicava il sottrarsi al confronto (che spesso era proprio uno scontro) con l'avversario. Ma già fine del secolo, dopo la fondazione della Football Association durante i mitici incontri londinesi alla Freemason's Tavern (1863), alla dislocazione delle squadre su di un'unica linea si era sostituita un'organizzazione su tre linee, grosso modo corrispondente a quella fra difensori (full-back), centrocampisti (half-back) e attaccanti (forward). Era nato così lo schema 1-2-3-5, la famosa "piramide", che per circa un secolo avrebbe condizionato la numerazione delle squadre e perfino la metrica con cui venivano annunciati i nomi dei calciatori. E contemporaneamente avevano cominciato a delinearsi due fondamentali varianti di gioco, che possiamo considerare come gli archetipi della tattica calcistica: quella inglese dei lanci (long passing) e quella scozzese dei passaggi (short passing). Quando il calcio varcò la Manica e di lì, al seguito del capitalismo inglese, si diffuse nel mondo intero, questo assetto di gioco era considerato alla stregua di una regola. E con la tripartizione dei ruoli fra difensori, centrocampisti e attaccanti, la "libertà" dei calciatori era più che compromessa: se è vero che fino alla metà degli anni '20 le marcature furono alquanto sommarie e i difensori tendevano per lo più a coprire una certa zona del campo (col rischio peraltro di essere esclusi dal gioco se la manovra si sviluppava da un'altra parte), è pur vero che i manuali del tempo – come in Italia quello di Carlo M. Magni, apparso nel 1910 – già esaltavano come fondamentali le figure del centravanti e del giocatore centrale della linea mediana: il primo era considerato come colui «che deve guidare i suoi quattro compagni, [...] il perno della linea di attacco, disposta secondo un angolo ottuso di cui egli deve essere il vertice»; il secondo (detto "centromediano") doveva addirittura «regolare tutto lo svolgimento del giuoco» e, proprio per ciò, il suo ruolo avrebbe dovuto essere ricoperto «dal giocatore migliore di una squadra», il quale ne sarebbe stato di norma anche il capitano. | << | < | > | >> |Pagina 41Le ossa sono composte di calcite e di apatite per motivi adattivi, ma le ossa sono bianche anche perché la chimica di questi composti lo impone. Invisibile durante la vita, questo pennacchio della bianchezza probabilmente non influenzerà la storia evolutiva dell'organismo che lo circonda. Ma l'evoluzione può anche riservare sorprese nello stesso dominio. Prima dell'evoluzione degli occhi, chi avrebbe previsto che la trasparenza ottica di molti enzimi e proteine un giorno avrebbe potuto diventare rilevante per la loro cooptazione come cristalline della lente? STEPHEN,JAY GOULD «Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale». Per quanto paradossale possa sembrare, non c'è un viatico migliore di questo brano di Marx per illustrare la situazione del nostro calcio quando, nel 1987, Arrigo Sacchi viene ingaggiato da Silvio Berlusconi come nuovo allenatore del Milan. Il ritratto sociale dei calciatori italiani è molto cambiato rispetto a quello di trent'anni prima: sempre meno sono coloro che hanno origini rurali e altrettanto rari quelli che cercano nello sport un'occasione di riscatto sociale. Il "miracolo economico" ha trasformato l'Italia in un Paese relativamente ricco, in cui i servizi pubblici (la scuola e il sistema sanitario nazionale in primis) selezionano sempre più spesso calciatori di provenienza dalla "classe media", ben lontani dall'archetipo dell'atleta con alle spalle un modestissimo (o nullo) curriculum studiorum. E, rese più sicure dal progressivo avanzare del welfare state, che con le sue provvidenze abbatte i costi di riproduzione della forza-lavoro, le famiglie italiane accedono ormai in massa ai nuovi consumi del tempo libero, mentre l'aggettivo "sportivo" assume un significato assai più ampio che in passato, venendo a designare un modo più libero di vestirsi e di comportarsi. La nuova "classe media", fatta largamente d'individui che, essendo nati durante il baby-boom degli anni '50, hanno vissuto le esperienze della socializzazione giovanile durante gli anni della contestazione studentesca, sta celebrando dunque se stessa, i propri successi e il proprio affrancamento da ogni scrupolo sociale. Ovunque, beninteso, ma non nel calcio. Sebbene già nel 1961 il grandissimo Alfredo Di Stefano avesse compreso che il calciatore del futuro avrebbe dovuto essere un giocatore «a tutto tondo» (quasi una replica sul piano calcistico dell'«essere onnilaterale» evocato da Marx come prodotto storico dell'avvento della società comunista), la ripartizione dei ruoli fra i calciatori si è fino a quel momento perpetuata in modo tale che ciascuno possiede una sfera d'attività determinata ed esclusiva, dalla quale non può sfuggire: è terzino, mediano, stopper, libero, interno, ala, centravanti e tale deve restare, se non vuol perdere i mezzi della propria sussistenza. D'altra parte, è proprio questo fissarsi del gioco di squadra in ruoli ben definiti ad aver costituito fino a quel momento uno dei motivi principali dello sviluppo storico del nostro calcio e, anzi, dello stesso formarsi di una "coscienza calcistica" nazionale: s'è già ricordato il giudizio di Gianni Brera, secondo cui «di una scuola italiana si [può] appena parlare dal 1960, cioè da quando i difensivisti sono pervenuti al potere tecnico e un centro nazionale è stato aperto a Coverciano, con l'autorizzazione a indire corsi per allenatori e a pubblicare libri e dispense per l'insegnamento e la divulgazione del gioco». Ciò nonostante, anche nel mondo del calcio lo sviluppo delle forze produttive dei calciatori si appresta a entrare in conflitto con i rapporti di produzione calcistici allora dominanti. E Arrigo Sacchi è colui che meglio può concepire le forme ideologiche adeguate a combatterlo per davvero. Le premesse, a ben vedere, ci sono tutte. L'innovazione del "libero", se ha dato alle squadre una pronunciata ispirazione difensiva, ha d'altra parte sconvolto il tradizionale dualismo tra marcatore e marcato: nonostante sia chiamato a rispondere alle disfunzioni difensive della marcatura a uomo del "WM", il libero gioca infatti a zona e dunque possiede in sé caratteristiche potenzialmente incompatibili col modulo tradizionale e idonee a farlo evolvere in qualcosa di differente. Per di più, sebbene si tratti propriamente di un difensore aggiunto, i suoi interventi in copertura possono risultare utili per innescare immediatamente il contropiede. Come dire che il libero, pur giocando da difensore, può avere (piedi permettendo) spiccate propensioni offensive. Lo ha sperimentato già negli anni '50 l'Inter con Ivano Blason: «Stando a battere alle spalle del terzino avanzato, incantava gli intenditori: le sue respinte erano maestosamente alte e lunghe, da poter subito rilanciare le punte nella parte opposta del campo», ricorda Brera. Ma non è questa l'unica innovazione di cui l'Inter è stata protagonista nel recente passato. Nel 1960, dopo aver cambiato numerosi allenatori, íl presidente Angelo Moratti ha chiamato ad allenare í nerazzurri Helenio Herrera e in pochi anni costui, personaggio come pochi ne sono apparsi sul palcoscenico del calcio, ha profondamente modificato sia le tecniche di allenamento dei calciatori che le modalità di approccio agonistico alla partita. Mai in effetti s'era visto prima d'allora un tecnico lavorare così insistentemente sulla preparazione atletica, sull'alimentazione e sulla psicologia dei calciatori. Fin dal primo ritiro (anche quest'ultimo una sua invenzione), Herrera somministra alla squadra allenamenti da marines, fatti di corse, pesi, flessioni e soprattutto esercizi tecnici, perché – come annota nei suoi appunti, scritti in una strana mescolanza di francese, spagnolo e italiano – «l'automatisme technique permet progrès tactique». Non meno maniacale a tavola, dove raccomanda di non usare pane, di bere poco vino, mette zucchero dappertutto e giunge perfino a prescrivere un cucchiaio di solfato di magnesio al lunedì, dopo ogni partita. Ma è soprattutto sul fronte della motivazione psicologica degli atleti che si guadagna l'appellativo di "Mago". Herrera non soltanto comprende l'importanza del supporto del tifo organizzato, ma sforna slogan a getto continuo. Uno con la scritta «le cose difficili richiedono tempo, quelle impossibili più tempo» campeggia sul suo letto, altri fanno presto la loro comparsa nello spogliatoio nerazzurro: «Nel calcio chi non dà tutto non dà niente», «Classe + preparazione atletica + intelligenza =scudetto». I giocatori, sottoposti alla sua "tirannia illuminata», accumulano all'inizio perplessità con dichiarabili: sanno che il Mago gode della protezione della società e si affidano. Ne verranno presto ripagati da copiosi risultati. Ma Herrera, come s'è detto, innova anche sul piano dell'approccio agonistico alla gara. Anche in questo caso è una sua celebre esortazione "meticcia" a riassumerne al meglio le idee: «Taca la bala!», dice infatti il Mago, «attacca la palla!». Pretende giocatori sempre aggressivi sul pallone, frenetici nella manovra, instancabili sul piano fisico. Sono i primi esperimenti del pressing: i calciatori non debbono aspettare che siano gli avversari ad andare verso di loro, ma piuttosto andargli incontro e anticiparne i movimenti. «Crea spazi vuoti – ripete Herrera – nel calcio, come nella vita, nella pittura, nella musica, i vuoti e i silenzi sono importanti come i pieni». E in effetti, nella "Grande Inter" di quegli anni si assiste a qualcosa di inedito: gli attaccanti rientrano (tranne Corso...), i difensori si spostano in avanti e lo spazio sul campo viene conseguentemente compresso. Proprio la ricerca degli spazi spinge Herrera ad un'ulteriore innovazione tattica. Il modulo del "catenaccio", come s'è visto, faceva sì che il libero rimanesse costantemente in appoggio alla difesa a tre (i due terzini e lo stopper). Herrera intuisce che, quando la squadra non sta difendendo, un uomo in più in avanti potrebbe scompaginare gli schemi avversari e, trovandosi in squadra un fenomeno come Giacinto Facchetti, capace di correre ottanta metri in meno di dieci secondi, lo "inventa" terzino con licenza di offendere. «Trent'anni prima dell'introduzione delle sovrapposizioni sulle alí – ha scritto John Foot – le volate di Facchetti su e giù per la fascia facevano di lui un perfetto difensore e un attaccante aggiunto; la sua prestanza fisica e la sua abilità tecnica si sposavano a meraviglia con il suo nuovo ruolo di terzino fluidificante. Presto divenne uno dei primi giocatori completi, in grado di difendere, attaccare e fare gol. In una stagione realizzò addirittura 10 reti, un bottino migliore rispetto a molti attaccanti». Era virtualmente nata quella che, anni dopo, sarebbe stata definita "zona mista" [fig. 4]. Ma soprattutto, Herrera riesce a creare un collettivo: un gruppo di atleti coscienti non solo del fatto che le regole valgono per tutti, ma soprattutto che è l'apporto di tutti a determinare il risultato. | << | < | > | >> |Pagina 59Gli uomini non notano quanto siano privi di libertà proprio là dove si sentono più liberi. THEODOR W. ADORNO «Una coda di pubblicità lasciò spazio al notiziario, che lo speaker aprì annunciando la notizia del giorno: durante un'assemblea tenuta poche ore prima alla Bolognina, il segretario del PCI, Achille Occhetto, aveva annunciato che il partito avrebbe cambiato nome cancellando l'aggettivo comunista... Il cronista della tv metteva in relazione l'annuncio di Occhetto col crollo del Muro di Berlino. Poi passò un servizio che riferiva dello sconquasso in corso nei Paesi dell'Est Europa... Un attimo dopo babbo Antonio spense il televisore e rimase con lo sguardo puntato lì, sul teleschermo buio. Passarono i minuti e i quarti d'ora, e a mezzanotte inoltrata babbo Antonio era ancora lì seduto con lo sguardo fisso sul teleschermo. E Nedo alle sue spalle, con lo sguardo fisso su di lui. Gli pareva di sentire il rumore dei pensieri di suo padre, ed era lo stesso rumore che negli ultimi mesi doveva essere stato nella testa sua. Quello era il momento di dire. Sentì che doveva alzarsi e accomodarsi di fronte a babbo Antonio. E parlare. Di quanto quel momento fosse simile per entrambi. Stava succedendo loro la stessa cosa, qualcuno aveva deciso di prendergli l'identità e la dignità e buttarle nella spazzatura... Sì che era il momento di parlargli. Ma cominciando da dove? Dalla differenza fra zona e uomo? Dell'organizzazione collettiva del lavoro calcistico come principio di deumanizzazione? E come spiegare a lui, comunista da una vita, che nel calcio il collettivismo stava ammazzando l'individualismo? Se davvero babbo Antonio fosse stato ad ascoltarlo gli avrebbe detto che era cosa buona e giusta e che l'individualismo sregolato è un male, nel calcio come ovunque. Ma poi, quando mai babbo Antonio aveva voluto sentir parlare di calcio? E come era possibile che potesse farlo giusto in quel momento che gli stavano togliendo il nome e forse il partito? Sì, va' a farglielo capire che ci sono analogie... Non aveva mai parlato a cuore aperto con suo padre, Nedo. E non lo avrebbe fatto mai più». Nella sua Psicopatologia della vita quotidiana, Freud ha spiegato che gli "atti mancati" sono spesso un indice della pertinacia con cui l'inconscio riesce a imporsi quando ha un suo motivo per impedire l'esecuzione di un nostro proposito cosciente e, soprattutto, quanto sia difficile garantirsi contro questa sua tendenza: per superare il motivo inconscio, scrive infatti Freud, «occorre qualche cosa d'altro, oltre al proposito contrario cosciente; occorre un lavoro psichico che riveli quell'ignoto alla coscienza». Qual è dunque il motivo profondo che impedisce a Nedo Ludi di affrontare la discussione con suo padre, che pure tanto desidera? È evidente che non può trattarsi soltanto dello scetticismo paterno nei confronti del pallone e nemmeno della difficoltà di spiegare a un comunista il fatto che, nel calcio, l'organizzazione collettiva del lavoro possa rappresentare una forma di "deumanizzazione": salvo i misteri della fede e le domande cui la scienza non sa ancora dare una risposta, non esistono questioni che non possano essere oggetto di una spiegazione razionale e convincente. Un indizio della motivazione sottesa all'"atto mancato" di Nedo Ludi potremmo forse cominciare a intravederlo se pensassimo che una critica del "collettivismo" affatto analoga alla sua costituisce il messaggio principale del pensiero di Hayek, il più famoso (e reazionario) pensatore liberale del Novecento, che dedicò la sua opera più celebre (La via della schiavitù, 1944) a illustrare l'«assoluta differenza che intercorre tra il carattere totale dell'atmosfera morale del collettivismo e il carattere essenzialmente individuale della civiltà occidentale». Ma non è ancora giunto il momento di occuparci ex professo della questione. Prima dobbiamo sbarazzarci di un equivoco di fondo, che deriva dall'abitudine di declinare in forma meramente negativa il concetto di "libertà individuale", intendendola cioè come "assenza di costrizioni". Come ogni attività umana, il calcio è (nel senso che è sempre stato) un lavoro: «mimesi di un lavoro», lo definiva Gianni Brera. Assistendo alla partita allo stadio o in tv tendiamo a dimenticarlo, perché i calciatori controllano il pallone con apparente semplicità e con altrettanta semplicità sono in grado di imprimergli traiettorie precise, con tocchi talora di raffinata delicatezza. Ma dietro questa capacità, così come dietro la capacità di effettuare acrobazie che sembrano ignorare la legge di gravità, ci sono lunghe prestazioni d'addestramento e monotoni esercizi preparatori, volti a rendere automatici e meccanici i movimenti del corpo: un intero capitolo degli appunti di lavoro di Herrera s'intitola «Jonglage, Malabarismo», ossia (più o meno) "numeri da giocoliere", e – come spiega il Mago nel suo linguaggio meticcio – «sirve para tocar la pelota TB justo» ("TB" sta per très bien). E anche se è vero che taluni allenamenti sono stati recentemente aperti anche agli spettatori, che possono così verificare in corpore vili le metodiche di preparazione cui si sottopongono i loro beniamini, è pur vero che questa parte della preparazione atletica, specie nei grandi calciatori, rimonta normalmente ad esperienze giovanili: da spettatori vediamo soltanto quanto il pallone sia diventato loro amico («Ballon ami», diceva appunto Herrera), ma non anche quanto essi abbiano faticato per renderselo tale. Le traiettorie della palla, del resto, obbediscono a leggi fisiche esprimibili more geometrico, per quanto l'elevato ritmo d'esecuzione delle giocate possa renderle concretamente imprevedibili, il che significa che ad esse il calciatore è assoggettato proprio come un qualunque ingegnere o architetto. Non a caso la "tecnica" individuale esprime il livello di funzionamento motorio razionale del corpo del giocatore rispetto allo scopo di calciare, stoppare e colpire di testa la palla. Non meno impegno richiede una corretta esecuzione del proprio ruolo. Un difensore è tanto più bravo quanto più le sue respinte non si limitano a spazzare l'area, ma diventano "disimpegni", capaci di innescare l'azione offensiva. Un bravo attaccante dev'essere capace di segnare sia in acrobazia, sia con tiri da fuori, sia smarcandosi con un dribbling o dopo un "triangolo" (ovviamente disegnato in astratto, da uomo e palla). Ma è soprattutto il gioco a centrocampo che — come puntualmente annotava Brera quasi quarant'anni fa — richiede «senso euclideo, cioè geometrico per eccellenza»: perché il centrocampo «è un autentico mare magno nel quale è facilissimo affogare, dopo aver corso e boccheggiato invano». | << | < | > | >> |Pagina 69Ho avuto l'impressione che la concezione tua e degli altri della tua famiglia sia troppo metafisica, cioè presupponga che nel bambino sia in potenza tutto l'uomo e che occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già contiene di latente, senza coercizioni, lasciando fare alle forze spontanee della natura o che so io. Io invece penso che l'uomo è tutta una formazione storica ottenuta con la coercizione (intesa non solo nel senso brutale e di violenza esterna) e solo questo penso: che altrimenti si cadrebbe in una forma di trascendenza o di immanenza. Ciò che si crede forza latente non è, per lo più, che il complesso informe e indistinto delle immagini e delle sensazioni dei primi giorni, dei primi mesi, dei primi anni di vita, immagini e sensazioni che non sempre sono le migliori che si vuole immaginare. Questo modo di concepire l'educazione come sgomitolamento di un filo preesistente ha avuto la sua importanza quando si contrapponeva alla scuola gesuitica, cioè quando negava una filosofia ancora peggiore, ma oggi è altrettanto superato. Rinunziare a formare il bambino significa solo permettere che la sua personalità si sviluppi accogliendo caoticamente dall'ambiente generale tutti i motivi di vita. ANTONIO GRAMSCI
Il ventennio a cavallo tra i secoli XIX e XX vede il possente affermarsi
della seconda rivoluzione industriale, e l'introduzione nel processo lavorativo
di macchinari sempre più complessi, realizzati mediante l'applicazione
tecnologica delle scoperte scientifiche dell'Ottocento (specialmente in campo
meccanico, chimico ed elettrico), rende necessaria la trasformazione della
figura tradizionale dell'operaio di fabbrica, quale si
era consolidata nell'esperienza del secolo precedente.
Frederick W. Taylor
Quando Ford introduce a Detroit la catena di montaggio, questa visione diventa realtà. Mediante il nastro trasportatore, che copre l'intera superficie dell'azienda, le singole parti dell'automobile giungono adesso davanti a "stazioni fisse", dove ciascun operaio esegue la stessa semplicissima operazione assegnatagli man mano che i pezzi gli passano davanti. E aumentando la velocità di movimento della catena di montaggio, la direzione aziendale diventa in grado di azzerare i "tempi morti" tra un'operazione e l'altra e di accelerare a proprio piacimento il ritmo di lavoro degli operai, così sottoponendoli ad un surplus di fatica potenzialmente micidiale. L'aumento della produttività per addetto è enorme, ma altrettanto considerevole è la reazione operaia: fin da quando viene introdotta la prima catena di montaggio, i lavoratori cominciano ad abbandonare in massa la Ford, alla ricerca di occupazioni meno faticose e stressanti; contemporaneamente, all'interno della Ford cominciano ad aversi le prime esperienze di sindacalizzazione operaia. La risposta di Ford a questa duplice minaccia è costituita dal clamoroso annuncio che i salari vengono raddoppiati e portati da 2,34 dollari a 5 dollari per una giornata di otto ore: immediatamente, i sindacati perdono i loro aderenti e il flusso in uscita dalla fabbrica si inverte. Ford ha vinto. Su questa vittoria, di cui intuisce il carattere di svolta epocale, Gramsci innesta un aspetto centrale delle sue riflessioni carcerarie. La taylorizzazione, la "razionalizzazione del lavoro", determina infatti «la necessità di elaborare un nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo». Non è la prima volta che la società si trova innanzi ad un problema del genere, quello della creazione di un nuovo "tipo umano": anzi, la storia dell'industrialismo è sempre stata «una continua lotta contro l'elemento "animalità" dell'uomo», un «processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi)», allo scopo di favorire quelle «nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell'industrialismo». Né si tratta, d'altra parte, di un problema specifico dell'industrializzazione: non solo perché problemi analoghi dovettero porsi anche in occasione del passaggio dal nomadismo alla vita stanziale e agricola, sebbene nessuna testimonianza ci sia ovviamente pervenuta al riguardo, ma soprattutto perché – come poi avrebbe osservato Louis Althusser – ogni esistenza umana non è in fondo che una lotta per «vivere e ingravidarsi come cultura nella cultura umana: guerra che, ad ogni istante, si ridichiara in ognuno dei suoi figli che devono, proiettati, storpiati e rigettati, percorrere ognuno per proprio conto, nella solitudine e contro la morte, la lunga marcia forzata che trasforma delle larve di mammiferi in bambini umani, in soggetti». Dimentichiamo spesso, in effetti, che gli "istinti" degli esseri umani sono qualcosa di profondamente diverso da quelli di un animale. Se è vero che l'uomo, al pari di ogni altro animale, ha degli istinti (o "pulsioni", ma meglio forse sarebbe dire: "bisogni") primari, come quello di cibarsi, bere e avere una propria sessualità, che lo spingono a porsi in relazione con l'ambiente esterno e con i propri simili, è pur vero che, a differenza degli animali, non possiede un codice genetico che gli prescriva il modo con cui stabilire questa relazione. Un'ape costruirà la propria celletta sempre allo stesso modo, come il ragno tesserà la propria tela, ma l'uomo non ha "un" modo sempre uguale con cui, ad esempio, costruire il proprio riparo; e proprio per ciò, mentre l'"organizzazione sociale" degli animali si mantiene da sempre pressoché inalterata, quella umana si trasforma continuamente, non obbedendo ad alcuno schema ereditario. (In verità, pare ormai assodato che una certa capacità d'apprendimento e di modificazione della relazione con l'ambiente è propria anche di molti animali, ma ciò può solo confermare a fortiori questo discorso.) Il fatto è piuttosto che, quando un certo modo di lavorare, di relazionarsi agli altri, di concepire i rapporti sessuali ecc., si è consolidato da più di una generazione, coloro che nascono all'interno della forma di vita data, ignorandone completamente la genesi storica, immaginano che si tratti degli unici rapporti conformi alla "natura umana": per fare solo un esempio, chi è cresciuto in un sistema sociale nel quale non esiste la schiavitù riterrà "innaturale" che esistano uomini completamente asserviti, esattamente al contrario di coloro che sono vissuti (o vivono) in realtà dove la schiavitù è un'esperienza quotidiana, per i quali, ovviamente, sarà innaturale che non ci siano schiavi. Ma quella che a noi pare la "natura umana", obietta Gramsci, non è altro che «l'insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita». Non solo, quindi, non v'è nulla (o quasi) che non sia "storico" ma, per giunta, si tratta di qualcosa che «è contraddittorio in ogni momento ed è in continuo svolgimento», via via che questi rapporti si modificano. Non si deve però pensare – ed ecco il nodo problematico essenziale – che la creazione di "un nuovo tipo umano" avvenga senza scosse, quasi linearmente: la realtà è ben diversa. Trasformazioni del genere sono sempre frutto dell'imposizione coercitiva di una parte della società sull'altra e Gramsci non manca di sottolinearlo financo a proposito del problema dell'educazione dei figli: l'obiettivo di creare il nuovo tipo umano, che si reputa più adatto ai nuovi metodi produttivi o comunque al nuovo contesto sociale, reca di norma con sé la necessità di spezzare molte abitudini, che a causa del tempo trascorso dalla loro instaurazione hanno appunto assunto la solidità di forme "naturali". Se si vuole, è la storia dei nostri giorni. Ciò che fino a ieri era il normale modo di vivere – lo studio nell'adolescenza, il lavoro "fisso" a tempo pieno e indeterminato nell'età adulta, la pensione nella senescenza – non va più bene. Tanto meno l'aspettativa che si abbia "diritto" all'istruzione, alla sanità, a che siano preveduti mezzi sufficienti alle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, disoccupazione involontaria, invalidità e vecchiaia: travolto dalle (presunte) esigenze di riequilibrio dei conti pubblici, il welfare state retrocede sempre più e sostituisce all'universalismo delle prestazioni forme selettive di "tutela dei poveri", in una riedizione di quella "carità cristiana applicata alla politica" tanto cara a Tocqueville. Siamo tutti disorientati: ci si richiede un diverso atteggiamento, una diversa disposizione d'animo, un diverso modo d'agire; continuamente veniamo rimproverati perché non riusciremmo ad adeguarci a quanto di nuovo da noi si esige. Viviamo una nuova "età dell'ansia". E un'ansia affatto analoga, a ben guardare, dovettero vivere quei calciatori che, formatisi sotto il dominio dei rapporti di produzione del catenaccio e della zona mista, impattarono con la "rivoluzione collettivistica" della zona. | << | < | > | >> |Pagina 76[...] Ciò che è davvero irrimediabile è la ricorrente assimilazione di spettacolo e (molti) gol, come se il calcio fosse bello solo quando le segnature abbondano. «Nulla di più falso», ribatteva già Brera: «Il calcio è bello quando viene giocato bene, seguendo schemi il più possibile definiti ma di volta in volta variati secondo abilità e fantasia. Se le segnature sono numerose, evidentemente non giocano bene i difensori, e ne terrà conto nel suo giudizio lo spettatore informato e competente». Non abbiamo nulla da aggiungere, salvo precisare che, quando le segnature abbondano giocando a zona, è segno che l'intera squadra (e non solo il reparto difensivo) sta giocando male.Che una partita di calcio sia bella o brutta, insomma, non dipende dal gioco a zona, così come non dipende dal catenaccio o dal "WM" o dal "metodo". L'unico "spettacolo" che la zona di per sé può garantire è il primato del collettivo, della squadra, ovvero – specularmente – il fatto che ogni calciatore, purché in possesso di una buona tecnica di base e dei concetti-chiave dell'organizzazione della squadra, può essere tendenzialmente utilizzato in qualunque reparto e in qualunque ruolo. Una constatazione realista, di un "realismo socialista" che lascerà certo insoddisfatti i sostenitori a tutti i costi dello "spettacolo", ma – per dirla con l'allenatore tanto detestato da Nedo Ludi – «chi continua a parlare di spettacolo senza dire cosa voglia intendere sta soltanto vendendo fumo». Non è ancora tempo di chiedersi il motivo per cui i Robespierre (o meglio, i Lenin) della zona – da Sacchi a Maifredi, da Orrico a Zeman – non hanno avuto nel nostro Paese vita facile e anzi hanno finito per essere travolti dalla rivoluzione che essi stessi avevano innescato (come Robespierre, appunto). Vale qui invece rimarcare che è proprio la consacrazione del primato del collettivo la principale novità che ci è stata consegnata dagli ultimi Europei di calcio. | << | < | > | >> |Pagina 105Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell'irrealismo della società reale. [...] Ma la critica che raggiunge la verità dello spettacolo lo scopre come la negazione visibile della vita; come una negazione della vita che è divenuta visibile. GUY DEBORD Nel quinto capitolo, abbiamo sottoposto a critica l'idea che il calcio non abbia nulla a che fare con il "lavoro" e, per farlo, abbiamo considerato la serietà e la tensione fisica ed emotiva che normalmente si associano al calcio in quanto gioco. Dobbiamo adesso riprendere la questione, allo scopo di rispondere ai quesiti che fin qui abbiamo lasciato in sospeso e che, globalmente considerati, concernono il (basso o nullo) grado di consapevolezza sociale della rivoluzione collettivistica avutasi con l'avvento del gioco a zona. Partiamo da due domande preliminari. Perché fin da bambini tutti amiamo giocare con la palla e quasi tutti i maschietti, in specie, amiamo giocare a calcio? E perché, da adulti, siamo quasi sempre pronti a sobbarcarci la "fatica" di una partita (se da protagonisti o spettatori, come abbiamo visto, non importa) anche dopo una dura giornata di lavoro? È una constatazione banale, ma il fascino della palla prende tutti, fin da piccolissimi: «la palla rotola, salta, rimbalza, esprime indubitabile magia», scriveva Gianni Brera. E quando il bambino comincia a reggersi sulle proprie gambe, si accorge di avere dei piedi e comprende di poter guidare i movimenti della palla anche con quelli, si rende conto di poter agire quella magia, di poter essere mago egli stesso: «la palla male maneggiata o colpita – aggiungeva Brera – irride a lui fino a umiliarne l'orgoglio», ma la palla finalmente padroneggiata «gli dà ineffabile gioia». Sociologi, psicologi e psicoanalisti hanno peraltro da tempo svelato il simbolismo profondo associato al calcio, un simbolismo di cui lo stesso Brera era convinto e che si riannoda sia all'istinto di difendere la propria donna dagli attacchi di un "rivale" che a quello di conquistare con l'astuzia o con la forza la donna altrui. Del resto, la "fase fallica", che contraddistingue quel momento della crescita in cui il bambino sviluppa il conflitto con il padre (nel quale vede un temibilissimo rivale nell'amore per la madre), è dominata nei maschietti da fantasie "intrusive", come l'attacco fisico ad una persona o una cosa, l'occupazione decisa dello spazio o l'aggressività verbale; e si tratta all'evidenza di fantasie che vengono esaltate nel gioco del calcio, dai duelli per la conquista della palla all'incursione nell'area di rigore avversaria, nello sforzo essenziale di segnare un gol. Non è questo, però, che qui al momento importa: importa piuttosto quel giocare in quanto tale. Com'è noto, il gioco dei bambini è tutt'altro che diletto o passatempo: è piuttosto il modo in cui essi rielaborano i traumi dovuti al mondo "grande e terribile" che gli si erge di fronte, un mondo che essi non riescono ancora a comprendere fino in fondo. Giocando, infatti, i bambini riproducono attivamente e liberamente le situazioni che prima sono stati costretti a sopportare passivamente e, così facendo, imparano a dominarle e controllarle, esorcizzando la paura che hanno sperimentato vivendole la "prima volta". (Di qui la loro costante richiesta di ripetere il gioco "ancora una volta".) Qualcosa del genere, a ben vedere, connota anche la matrice delle rappresentazioni sacre. Le "divinità" dei primordi dell'umanità non sono altro che la personificazione di eventi, per lo più naturali, di cui non si sa offrire alcun'altra spiegazione: il fulmine, la pioggia, il sole, la fecondità, la morte. E se consideriamo che ogni gioco ha come suoi caratteri tipici uno "spazio d'azione" rigidamente delimitato, l'assoluta "serietà" del comportamento di chi vi partecipa e, al contempo, la piena consapevolezza che quella che si sta mettendo in scena è una "riproduzione della realtà" (e non la realtà stessa), non sarà difficile concludere che ogni rappresentazione sacra ricade entro l'ambito del gioco: e ciò nonostante che l'aborigeno possa legittimamente credere che, durante la danza magica, lui "è" un canguro, così come i cattolici credono che, dopo l'elevazione, l'ostia "è" il corpo del Cristo. Johan Huizinga, com'è noto, ne trasse la conclusione che la cultura stessa sorge sub specie ludi. Portando alle estreme conseguenze quell'impostazione, potremmo concludere che, proprio come accade per i bambini, attraverso i giochi la collettività rielabora il proprio vissuto, cioè si dà immagini adeguate a comprendere le strutture che governano la propria vita. Più esattamente, attraverso determinati giochi: il che, a sua volta, consentirebbe di spiegare perché alcuni giochi siano stati prevalentemente giocati in determinate epoche e non in altre. E in particolare, potrebbe dar conto della straordinaria popolarità che, nel breve arco di un secolo e mezzo, il calcio ha assunto a livello planetario: cosa di meglio di un gioco collettivo di carattere antitetico per spiegare quella vecchia verità della storia umana che l'avvento del modo di produzione capitalistico ha permesso finalmente di enunciare, che cioè «la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi»? | << | < | > | >> |Pagina 115Nel "binomio fantastico" le parole non sono prese nel loro significato quotidiano, ma liberate dalle catene verbali di cui fanno parte quotidianamente. Esse sono "estraniate", "spaesate", gettate l'una contro l'altra in un cielo mai visto prima. Allora si trovano nelle condizioni migliori per generare una storia. GIANNI RODARI Chi scrive è uomo di parte: non certo nel senso che assume come cardine del pensiero e della pratica l'unicità della propria esperienza del mondo (come invece nel tipico adagio postmoderno secondo cui, ad esempio, "solo un uomo nero e omosessuale può dire cosa davvero significhi essere un uomo-nero-omosessuale"), ma nel senso che ritiene – esattamente come Lenin – che "verità" e "presa di partito" siano condizione di possibilità l'una dell'altra, ovvero che la verità universale possa essere enunciata solo a partire da una posizione profondamente partigiana. La verità, del resto, è sempre situata da una parte. "Da una parte" perché il calcio, non meno che la filosofia, divide. E divide proprio come divide la filosofia, nel senso cioè che le interminabili discussioni sul gioco del calcio non portano apparentemente da nessuna parte: si tratta semplicemente di ripetizioni (e talvolta rimasticature) del conflitto di fondo che lo dilania – il conflitto fra "individualismo" e "collettivismo" o, se si preferisce, fra l'importanza da attribuire al talento del singolo piuttosto che all'organizzazione della squadra e viceversa. Un conflitto che in quanto tale è "innominabile" e che però sostiene quell'eterno rovesciamento di posizioni di cui le discussioni tra esperti, cultori e appassionati di calcio sono teatro verboso. Al punto da dar vita ora ad una "tendenza", ora a quella opposta, semplicemente grazie all'ordine gerarchico di dominanza che, di volta in volta, viene istituito fra i due termini della coppia categoriale. È precisamente ciò che Lenin osservava a proposito di quel rovesciamento fra materialismo e idealismo in cui si risolve la (storia della) filosofia: «un istante di riflessione potrebbe far capire a questa gente che non si possono, in sostanza, definire i due concetti ultimi della gnoseologia se non si indica quale dei due si considera primordiale». Lo stesso vale per il calcio: non si può discutere di Maradona o della "Grande Inter" se non a partire da un'esplicita collocazione — una presa di partito, appunto — rispetto alla dicotomia fondamentale individualismo/organizzazione, perché si tratta a ben vedere dei due "concetti ultimi" della gnoseologia del pallone. Si potrebbe caso mai osservare che, così come Lenin constatava l'esistenza di una tendenza "spontaneamente" materialista negli scienziati (s'intende, quando fanno gli scienziati e non anche quando riflettono su ciò che fanno da scienziati: cioè quando "fanno filosofia"), un'analoga tendenza "spontanea" è dato riscontrare in coloro che praticano il calcio, calciatori e allenatori in primis: è indubbio che costoro tendono materialisticamente ad attribuire rilievo decisivo all'organizzazione collettiva piuttosto che all'estro o al talento del singolo. Ma il punto nodale è in realtà un altro, e concerne le refluenze che una presa di posizione in tal senso può riverberare su quell'istanza così profondamente legata al calcio che è la politica. Se infatti è vero ciò che abbiamo constatato nel capitolo precedente, che cioè l'attuale predominio del modo di produzione capitalistico ha finito per dissimulare la potenza del collettivo dietro una rappresentazione "spettacolare" del calcio che celebra ancora e sempre "gli individui", nulla vieta di percorrere il cammino inverso e utilizzare lo spettacolo del collettivo per svelare l'inconsistenza e l'erroneità di quell'immaginario individualista che puntella ideologicamente le ormai fragili fondamenta del dominio del capitalismo. È in questo senso che qui si parla di "interismo-leninismo". Piaccia o no, negli ultimi vent'anni — e specialmente dal 1995 in qua — poche squadre hanno sperimentato come l'Inter l'insufficienza (e talora perfino la dannosità) del "talento individuale" in assenza di una coerente organizzazione collettiva. Nell'Inter hanno militato campioni del calibro di Ronaldo, Roberto Baggio, Christian Vieri, Alvaro Recoba e Roberto Carlos, per tacere di professionisti magari meno appariscenti ma non meno efficaci come Paul Ince, Youri Djorkaeff, Ivan Zamorano, Diego Simeone, Andrea Pirlo o Clarence Seedorf: ebbene, nessuno di loro è riuscito a fregiarsi di trofei significativi come uno scudetto o una vittoria in Champions League e tutti, al contrario, sono stati mortificati dall'incapacità dei dirigenti tecnici e degli allenatori (numerosissimi) che si sono succeduti in panchina di assemblare delle rose di atleti che fossero funzionali a precisi progetti tattici.
Specularmente, si deve alla riuscita sperimentazione di
un modulo tattico adeguato alla rosa disponibile la strepitosa
performance
dell'Inter allenata da Roberto Mancini nel
campionato 2006/2007 — un totale di 97 punti sui 114 disponibili, con la seconda
classificata (la Roma) a 22 punti di
distacco, e una striscia record di 17 vittorie consecutive.
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