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| << | < | > | >> |IndicePrefazione all'edizione italiana XV Ringraziamenti XXI 1 INTRODUZIONE A CONCETTI, DATI E METODI 3 1.1 Introduzione 3 1.2 Definizioni genetiche 7 1.3 Tecniche per identificare i marcatori polimorfici 10 1.4 L'evoluzione delle frequenze geniche 18 1.5 Tentativi classici di distinguere «razze» umane 28 1.6 Fallimento scientifico del concetto di razza nell'uomo 33 1.7 Identificazione delle unità di popolazione 35 1.8 Classificazione linguistica 40 1.9 Natura e fonti dei dati 43 1.10 Metodi di analisi 46 1.11 Distanze genetiche 51 1.12 Analisi di alberi filogenetici 54 1.l2.a Definizioni 54 1.l2.b Metodi per ricostruire alberi filogenetici in base ai dati di frequenze geniche 56 1.l2.c Il numero di alberi possibili 59 1.l2.d La posizione della radice 60 1.l2.e Sequenze di DNA, massima parsimonia e minima evoluzione 63 1.l2.f Errore statistico nella costruzione degli alberi filogenetici 65 1.l2.g La treeness e la scoperta delle deviazioni dal modello più semplice di evoluzione 66 1.l2.h Le ragioni delle scelte fatte 69 1.12.i Conclusioni sull'utilità degli alberi filogenetici 72 1.13 Analisi delle componenti principali (CP) e metodi derivati 74 1.14 Mappe delle frequenze geniche 80 1.14.a Scelte da compiere 81 1.14.b Metodi per adattare le superfici geografiche a dati di frequenze geniche 83 1.14.c Il metodo adottato per calcolare le superfici delle frequenze geniche 85 1.14.d Linee isogeniche (isoplete) 88 1.14.e Le superfici delle frequenze geniche: implicazioni evolutive 89 1.15 Mappe geografiche sintetiche 94 1.16 Isolamento dovuto alla distanza geografica 96 1.17 Le mescolanze: come le si stima e quale effetto hanno sulla struttura ad albero 102 2 STORIA GENETICA DELLE POPOLAZIONI DEL MONDO 113 2.1 Quadro paleoantropologico 113 2.1.a Il genere Homo 113 2.1.b La specie Homo sapiens 116 2.1.c Sostituzione totale o sostituzione parziale? 122 2.1.d Inizio della produzione di cibo 127 2.1.e Dimensioni delle popolazioni: qualche numero 129 2.2 I primi studi filogenetici quantitativi 129 2.3 Analisi dei marcatori classici in quarantadue popolazioni selezionate 138 2.3.a Aspetti tecnici 138 2.3.b L'albero delle quarantadue popolazioni 144 2.3.c Analisi di nove raggruppamenti 148 2.3.d Analisi delle coordinate principali 153 2.3.e Differenze tra marcatori genetici 154 2.3.f Breve riassunto 155 2.4 Analisi dei dati del DNA 156 2.4.a Caratterizzazione del DNA mitocondriale mediante l'analisi di restrizione 156 2.4.b Sequenziamento di mtDNA 166 2.4.c Il cromosoma Y 166 2.4.d Polimorfismi del DNA nei geni nucleari 167 2.5 Confronto con i dati archeologici 176 2.6 Confronto con classificazioni linguistiche 181 2.6.a Problemi delle classificazioni linguistiche 181 2.6.b Confronto tra albero genetico e albero linguistico186 2.6.c Perché tra l'albero linguistico e quello genetico vi è una stretta somiglianza? 191 2.6.d Sostituzioni linguistiche 193 2.6.e Possibili tempi di origine delle famiglie linguistiche 195 2.7 Importanza delle espansioni demografiche nell'evoluzione umana 199 2.7.a Le espansioni potrebbero aver punteggiato la storia dell'uomo moderno 199 2.7.b Dalla raccolta del cibo alla sua produzione 200 2.7.c Espansione demica o diffusione culturale? 204 2.7.d Il modello dell'«onda di avanzamento» 205 2.7.e Tipi di espansione 208 2.8 Misura della variabilità genetica mediante l'analisi del parametro Fst 213 2.8.a Alcune semplici proprietà del parametro Fst 213 2.8.b I valori di Fst dipendono dal livello di raggruppamento delle popolazioni 214 2.8.c La distribuzione teorica del parametro Fst e una sua applicazione ai polimorfismi del DNA 216 2.8.d Variazione del parametro Fst nei polimorfismi non DNA 222 2.8.e La media delle Fst di tutti i geni nel mondo e nelle regioni principali 225 2.8.f Possibili effetti della selezione naturale sulla costruzione degli alberi filogenetici 229 2.9 Variabilità genetica e distanza geografica 230 2.10 Mappe dei singoli geni 237 2.11 Mappe sintetiche del mondo 250 2.12 Omozigosità 258 2.13 Correlazioni con il clima 264 2.14 Aree e tempi di origine dei principali mutanti, con particolare attenzione alle emoglobine 270 2.15 Breve riassunto dell'evoluzione umana 286 3 AFRICA 293 [...] 4 ASIA 367 [...] 5 EUROPA 479 [...] 6 AMERICA 569 [...] 7 AUSTRALIA, NUOVA GUINEA E ISOLE DEL PACIFICO 645 [...] 8 EPILOGO 697 8.1 L'approccio multidisciplinare 697 8.2 Genetica e storia evolutiva dell'uomo 698 8.3 Differenti metodi di analisi genetica a confronto 700 8.4 Il futuro di questa ricerca 706 8.5 Evoluzione genetica e linguistica 713 Aggiornamento per l'edizione italiana 717 Bibliografia 723 Indice analitico 765 Tavole e mappe genetiche 793 |
| << | < | > | >> |Pagina XVSono ormai passati più di trent'anni da quando è stato compiuto il primo tentativo di ricostruire la storia della diversità umana analizzando le differenze genetiche che si osservano oggi tra le popolazioni. Per misurare tali differenze sono state impiegate le frequenze geniche, cioè le frequenze con cui il materiale ereditario (il DNA, i cui segmenti funzionali vengono chiamati geni) si distribuisce nello spazio occupato dalla nostra specie. Se sembra giustificata l'affermazione che le frequenze geniche sono stabili e piuttosto insensibili ai cambiamenti ambientali di breve periodo, è altrettanto vero che non esistono dati sulle popolazioni passate e la stabilità nel tempo viene indotta indirettamente dalla stabilità nello spazio, ovvero dall'osservazione di distribuzioni delle frequenze geniche che sono generalmente regolari, con valori che differiscono di poco anche quando si riferiscono a popolazioni che vivono in ambienti radicalmente differenti. Oggi la situazione sta cambiando molto rapidamente: i progressi della tecnologia molecolare fanno intravedere un futuro in cui sarà possibile esaminare il DNA di individui che sono vissuti in un passato anche molto lontano: risale a pochi mesi fa la notizia che il DNA mitocondriale dell'uomo di Neandertal è stato analizzato con successo (si veda l'Aggiornamento per l'edizione italiana). Per molto tempo i dati forniti dall'antropologia fisica (quali il colore della pelle, l'aspetto fisico del corpo, i tratti facciali, ecc.) sono stati gli unici a descrivere la nostra diversità. Alcuni di questi, in particolare le dimensioni delle ossa, hanno il grande vantaggio di essere misurabili anche su materiale fossile. Tuttavia i caratteri antropometrici sono quelli che più hanno manifestato un cambiamento notevole negli ultimi 200 anni: un esempio per tutti è fornito dalla statura, il cui aumento osservato in Europa può essere difficilmente attribuito a cause genetiche. I caratteri che probabilmente riflettono risposte a cambiamenti ambientali recenti sono i meno indicati per tracciare la storia dei nostri geni. Non si vuol certo negare l'importanza dell'analisi di materiale fossile per la ricostruzione delle linee evolutive del genere Homo, ma il tipo di informazione, spesso unito anche alla scarsità di esemplari proprio per i periodi temporali di maggior interesse, deve essere valutato tenendo presente questi limiti. I dati genetici sulle popolazioni attuali che abbiamo potuto usare per analizzare la geografia dei geni umani sono estremamente numerosi. I due polimorfismi genetici che sono stati scoperti per primi - i gruppi sanguigni AB0 e RH - sono molto importanti sotto il profilo clinico e per questa ragione sono stati indagati in modo particolarmente esteso. A questi si sono aggiunti molti altri marcatori genetici di minore interesse clinico ma di uguale se non maggiore valore antropologico per la loro capacità di identificare differenze genetiche tra popolazioni. Purtroppo i dati a disposizione sono assai eterogenei nel numero e nella loro distribuzione geografica: se fossero stati raccolti seguendo un progetto sperimentale più razionale e sistematico, come è accaduto per esempio nella raccolta dei dati sul polimorfismo genetico che regola l'istocompatibilità, il sistema HLA, avremmo potuto e potremmo oggi lavorare su un insieme di informazioni ben più ricco. Coltiviamo la speranza che l'esperienza acquisita induca i futuri ricercatori a meglio organizzare i loro sforzi, soprattutto nella prospettiva di una capacità di risoluzione delle differenze genetiche sempre più fine che oggi la potente tecnologia della biologia molecolare è in grado di offrire. L'idea di questo libro ha avuto origine dal desiderio di analizzare la geografia dei geni umani, i nostri geni, usando tecniche nuove da noi messe a punto allo scopo specifico di studiare le antiche migrazioni dell'uomo. Mentre procedeva il lavoro molto impegnativo di archiviare su calcolatore l'enorme mole di dati esistenti in letteratura, diventò chiara la necessità di analizzare la stessa informazione con metodi alternativi, proposti da noi e da altri, che dessero risposte a domande di interesse storico. Ma è difficile che la sfida davvero stimolante di ricostruire la storia dell'evoluzione umana possa venire lanciata con una qualche speranza di successo se ci si limita a usare le informazioni fornite dai dati genetici. Anche le documentazioni storica, linguistica, archeologica, antropologica e paleoantropologica devono essere vagliate: al fine di trarre conclusioni proponibili senza troppe riserve, le informazioni generate da queste discipline dovrebbero essere confrontate con quelle generate dall'analisi dei dati genetici. È superfluo sottolineare che ciascuna di queste fonti di informazione ha dei limiti. I dati storici pertinenti sono rari, spesso non quantitativi e perlopiù non sondano periodi sufficientemente lontani nel tempo. L'archeologia è in grado di dire molto poco sui caratteri fisici delle popolazioni che studia, ma fornisce datazioni e qualche vaga indicazione demografica, soprattutto sulle dimensioni numeriche, importanti per predire i tassi di evoluzione genetica. Ma gli archeologi trovano spesso difficile distinguere le migrazioni di persone dalla diffusione di artefatti o della cultura materiale che li ha prodotti. I cambiamenti linguistici seguono regole in qualche misura analoghe a quelle dell'evoluzione genetica ma con la spiacevole limitazione che la loro ben maggiore velocità, simile a quella dell'infezione batterica o virale, rende particolarmente difficile la ricostruzione dei primi stadi. Inoltre le lingue possono venire sostituite da altre lingue di origine completamente diversa in un tempo relativamente breve, confondendo così parzialmente o totalmente eventuali concordanze. Si è affermato che l'antropologia fisica può essere fuorviante perché certi caratteri fisici osservati e misurati nelle ossa talvolta cambiano rapidamente al mutare delle condizioni ambientali. Va ancora sottolineato che solamente i geni, o almeno la maggior parte di essi, sono dotati della stabilità necessaria per poter discutere i processi di divisione, fusione e migrazione che le popolazioni della nostra specie hanno vissuto nella loro storia, una storia che risale ad almeno 100000 anni fa. Una frazione considerevole delle varianti genetiche che studiamo oggi è apparsa prima di allora e si è in seguito distribuita nello spazio in proporzioni radicalmente diverse, un processo che ci permette di orientarci nel riconoscere i vari percorsi evolutivi della storia delle popolazioni. Sebbene i genetisti di popolazione spesso riassumano le conoscenze archeologiche, storiche e linguistiche dei gruppi etnici che hanno studiato, non ci risulta sia stata ancora pubblicata una trattazione esauriente che tenti di disegnare un affresco globale della nostra specie in una prospettiva di storia generale di cui la genetica sia parte. Ci auguriamo che questo volume svolga adeguatamente tale funzione. Nel capitolo 1 diamo alcune informazioni storiche sugli argomenti che verranno svolti successivamente, discutiamo il concetto di razza, di cui sottolineiamo l'inconsistenza sotto il profilo biologico, e forniamo un'introduzione elementare delle tecniche di analisi che verranno maggiormente usate. Abbiamo tentato di scrivere un libro che possa esser letto da cultori e specialisti di molte discipline, dal momento che non solo i genetisti ma anche gli studiosi di archeologia, antropologia, paleontologia, storia, geografia e linguistica hanno un interesse potenziale per la materia. I maggiori ostacoli agli scambi tra discipline diverse derivano dall'uso di vocabolari specifici e solo parzialmente intercomunicanti: abbiamo tentato, per quanto ci è stato possibile, di superare tale limitazione, e ciò significa che il lettore non specialista dovrebbe essere comunque in grado di capire questo libro, purché sia sufficientemente motivato a seguire un'analisi scientifica. Inevitabilmente, le discussioni sono mantenute a un livello elementare dal punto di vista di ciascuna disciplina, e il linguaggio usato è, almeno nelle intenzioni, il più semplice possibile. I metodi statistici e le nozioni elementari della genetica di popolazioni vengono sviluppati in modo qualitativo con un uso parsimonioso di termini tecnici, che sono in ogni caso tutti definiti la prima volta che vengono introdotti. Il capitolo 2 è dedicato all'analisi dei dati a livello mondiale e intende offrire uno strumento per una comprensione generale della storia della nostra specie di Homo sapiens sapiens. Vengono ricostruiti e presentati alberi filogenetici che la descrivono dalle origini e tali alberi sono confrontati con le testimonianze paleoantropologiche e archeologiche, e con le classificazioni linguistiche. Vengono anche presentati altri tipi di analisi, con l'intento di tracciare un quadro globale della struttura genetica della nostra specie. I cinque capitoli che seguono sono dedicati alle maggiori regioni geografiche dove l'uomo si è insediato. Trattiamo inizialmente il continente in cui verosimilmente la nostra specie ha incominciato a evolversi, cioè l'Africa, dopo il quale passiamo a esaminare gli altri continenti nell'ordine in cui sono stati successivamente occupati: Asia, Europa, America e Oceania. In ciascun capitolo vengono brevemente discusse la geografia e l'ecologia della regione, poi i dati storici e la documentazione paleoantropologica e archeologica. Si è dedicata particolare attenzione ai dati demografici, quando disponibili, e a tutte le informazioni sui movimenti migratori, necessario quadro di riferimento per l'interpretazione dei processi evolutivi che via via si esaminano. Successivamente vengono trattati i dati dell'antropologia fisica e della linguistica. Segue poi l'analisi di tutti i dati genetici disponibili, riferita sia all'intero continente, sia alle sue parti più importanti o meglio documentate. L'edizione originale di questo volume era corredata dalle mappe geografiche di tutti i geni esaminati. Per ragioni di economia questa edizione in lingua italiana ne presenta un campione molto limitato. Tuttavia all'interno di ciascun capitolo è stata lasciata inalterata la loro discussione così che il lettore, con un po' di immaginazione geografica, riuscirà a coglierne il disegno essenziale. Dalle mappe geografiche di ciascun gene sono poi state elaborate mappe che abbiamo definito «sintetiche»: presentate e discusse in ciascun capitolo, esse offrono, per così dire, i «paesaggi genetici» più significativi in una geografia dei geni colta nella sua globalità. Non sempre l'informazione genetica è sufficiente a illuminare o a essere illuminata dall'informazione storica o non genetica che nel testo la precede, ma ci auguriamo che l'informazione non utilizzata stimoli ulteriori ricerche. L'ultimo capitolo riprende e discute le conclusioni di ciascun capitolo nella loro generalità, richiamando i nodi metodologici e illustrando i problemi più urgenti che questo tipo di ricerca dovrà in futuro affrontare. Oggi abbiamo gli strumenti per lavorare molto meglio sia nella fase della raccolta dei campioni sia in quella della loro analisi. Le tecnologie della biologia molecolare, che stanno esplodendo anche grazie alla loro possibilità di automazione, ci inducono a pensare che una nuova epoca si stia aprendo per lo studio genetico delle popolazioni umane, ed è un momento più che mai opportuno perché molte popolazioni (per non parlare di culture e di lingue) si stanno estinguendo, sia per le migrazioni che oggi più che mai mescolano geni, lingue e culture, sia per le dimensioni insufficienti a far valere la propria identità, sia, purtroppo, per la determinazione di alcuni popoli a far scomparire fisicamente gruppi politici, religiosi e culturali minoritari. Riteniamo che la ricchezza umana - biologica e culturale - di tutte queste popolazioni a rischio debba essere in tutti i modi salvaguardata e, ben consci che le nostre sole forze non bastano allo scopo (anzi, alcuni ci rimproverano che il nostro lavoro vada contro l'interesse delle popolazioni stesse), vorremmo contribuire al loro mantenimento nel modo in cui siamo capaci, cioè studiando e raccontando la loro identità e varietà. | << | < | > | >> |Pagina 281.5 TENTATIVI CLASSICI DI DISTINGUERE «RAZZE» UMANELo studio delle «razze» umane è molto antico. Ai primi viaggiatori su lunghe distanze dovevano essere familiari le vistose differenze tra esseri umani di diversa origine geografica. Il greco Erodoto (V secolo a.C.) descrisse il nome, la posizione geografica, i costumi e l'aspetto fisico di un gran numero di popoli, soprattutto dell'area mediterranea: egli è il padre non solo della storia, ma anche dell'antropologia (Myres, 1953). A volte le sue informazioni derivano da leggende o si confondono con favole e superstizioni; ma altre volte egli ha ricevuto ragione dagli archeologi moderni. Quando elenca i gruppi etnici incontrati dal viaggiatore greco Aristea agli estremi delle steppe dell'Asia centrale, si è tentati di riconoscere in alcuni di essi dei nomadi protorientali. Gli antichi Egizi e i Fenici conoscevano certamente l'esistenza delle popolazioni africane e subsahariane; l'Impero romano era in contatto con gli africani, gli indiani e indirettamente, attraverso il commercio, con le popolazioni dell'Asia orientale. Il naturalista Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) diede una spiegazione ingenua delle differenze fisiche tra gli africani e gli europei, pensando che fossero una conseguenza diretta del clima. Il poeta Lucrezio (I secolo a.C.) ebbe un'intuizione più acuta dell'evoluzione, che anticipava l'idea della selezione naturale; secondo Plinio, invece, gli africani sono «bruciati dal calore del corpo celeste che è loro vicino, e nascono con un aspetto bruciacchiato, con capelli e barba riccioluti», mentre nelle regioni settentrionali, essendo lontane dal sole, «le razze hanno pelle bianca come la neve, con capelli gialli che cadono dritti» (Rackham, 1979). Il concetto e gli esempi, biologici e non, di classificazioni tassonomiche si possono far risalire perlopiù fino ad Aristotele (IV secolo a.c.), ma i tentativi seri di classificare le razze umane hanno dovuto attendere che si accumulassero sufficienti conoscenze geografiche. Ciò avvenne solo nel Settecento, quando già era fiorente l'interesse per la classificazione di animali e piante. Il naturalista inglese John Ray (1627-1705) diede una definizione di specie che è, fondamentalmente, la stessa che noi adottiamo: un gruppo di individui mutuamente fertili. Uno dei primi naturalisti che descrissero la variabilità umana, il francese George Leclerc conte di Buffon (1707-1788), è stato un pioniere dell'evoluzionismo, e si dice che il suo lavoro abbia influenzato Lamarck. Buffon diede una definizione di specie molto simile a quella di Ray, ma probabilmente la formulò in modo indipendente, affermando con chiarezza la convinzione che gli esseri umani costituiscono un'unica specie e «... dopo essersi moltiplicati e diffusi sull'intera superficie terrestre, essi andarono incontro a diversi cambiamenti dovuti all'influenza del clima, del cibo, dei modi di vita, delle malattie epidemiche e della mescolanza continua tra individui più o meno simili. All'inizio questi cambiamenti non erano così marcati, e determinavano soltanto varianti individuali; in seguito queste varianti divennero varianti della specie, perché l'azione continua di queste stesse cause le rese più generali, più marcate e più permanenti. Tali varianti si trasmettono di generazione in generazione, come le deformità e le malattie vengono trasmesse da padri e madri ai loro figli». Questa citazione e le altre riportate in questo paragrafo sono tratte da Count (1950). Elenchi di razze, o varietà - come venivano chiamate da Linneo (1707-1778) -, comparvero nel Settecento a opera dello stesso Linneo e di Kant (1724-1804), il quale formulò anche varie ipotesi sul loro meccanismo di origine; oggi le ipotesi di Kant non risultano convincenti, ma lo stesso filosofo ne riconobbe la superficialità, data la mancanza di conoscenze adeguate. Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840), che è considerato il padre dell'antropologia fisica, esercitò grande influenza con la sua tesi di laurea in medicina conseguita all'Università di Göttingen (Blumenbach, 1775). Egli affermò che la specie umana è una sola, suddivisa in cinque varietà: caucasica (fu forse il primo a usare questo termine), mongolica, etiopica (comprendente tutti gli africani), americana e malese (abitanti delle isole del Sudest asiatico e della parte di Oceania allora conosciuta). La caratteristica umana più appariscente, il colore della pelle, aveva già a quei tempi il ruolo dominante che ancora oggi detiene nella mente dell'uomo comune. Egli definì caucasici quelli che oggi noi definiamo caucasoidi, comprendendo cioè gli europei, gli africani settentrionali, le popolazioni del Medio Oriente e dell'India, ma non i Lapponi e i Finlandesi, che incluse tra i mongoli. Blumenbach affermò di avere scelto il nome di quella varietà ispirandosi al sistema montuoso del Caucaso, in base a una motivazione che si potrebbe definire poetica: secondo una credenza largamente diffusa, quella regione ospiterebbe le genti più belle, come i Georgiani che vivono nella parte meridionale del Caucaso. Inoltre egli era convinto che con maggiore probabilità l'uomo moderno avesse avuto origine proprio in quell'area. Anch'egli, come Buffon, riteneva che il colore originario della specie umana fosse il bianco. L'anatomista svedese Anders Retzius (1796-1860), cercando di discostarsi dal solito - e insoddisfacente - criterio del colore della pelle, mostrò che era possibile arrivare a una classificazione delle razze umane usando criteri craniometrici: introdusse così l' indice cefalico, il rapporto tra la larghezza e la lunghezza del cranio. Questa misura ebbe un enorme successo nell'antropologia fisica e fu usata per circa un secolo, fino a dopo la seconda guerra mondiale; quando comparvero l'analisi statistica multivariata e i marcatori genetici. La sua popolarità era dovuta alla semplicità delle misurazioni, in individui viventi e non (i crani fossili), e alla precisione che sembrava avere: il concetto di biometria veniva introdotto proprio in quel periodo dallo scienziato belga Lambert-Adolphe-Jacques Quételet (1796-1874). Nel secondo dopoguerra l'interesse per l'indice cefalico venne meno, perché furono riconosciute la sua bassa ereditarietà e la sua sensibilità agli effetti ambientali a breve termine. All'inizio dell'Ottocento, furono suggeriti altri sistemi per distinguere le razze umane, e alcuni studiosi misero in discussione la completa interfertilità entro la nostra specie, mettendo in dubbio l'idea di una specie umana unica. La sintesi del problema che Charles Darwin (1809-1882) offre nel libro L'origine dell'uomo e la scelta in rapporto al sesso (Darwin, 1871) è particolarmente chiarificatrice: egli enumerò le argomentazioni pro e contro un'interfertilità completa tra gli esseri umani (oggi non ci sono dubbi sull'assenza totale di limitazioni all'interfertilità umana). Sfidando le testimonianze contrarie del suo tempo, Darwin concluse che la specie umana è probabilmente una sola, dal momento che «ogni razza confluisce gradualmente nell'altra»; inoltre «le razze umane non sono abbastanza distinte tra loro da abitare la stessa regione senza fondersi; e l'assenza di fusione offre la prova usuale e migliore della distinzione tra specie». Egli affermò poi che le differenze tra le razze, anche se vistose, sono perlopiù irrilevanti, mentre vi è una grande uniformità nelle caratteristiche veramente importanti, comprese quelle mentali: nonostante le differenze esteriori tra aborigeni americani, neri africani ed europei egli era «continuamente colpito ... dai tanti piccoli aspetti del carattere che dimostrano quanto le loro menti siano simili alle nostre». Riguardo ai problemi di classificazione, Darwin citava dodici autori nessuno dei quali concordava sul numero di razze esistenti (da 2 a 63): questo disaccordo era una prova ulteriore del fatto che «è difficile scoprire caratteri distintivi chiari» tra le razze, poiché esse «confluiscono gradualmente l'una nell'altra». Per quanto riguarda l'origine della variabilità, Darwin credeva che «non si possono spiegare in modo soddisfacente le differenze dei caratteri esteriori tra le razze umane imputandole all'azione diretta delle condizioni di vita; le differenze tra le razze umane come il colore della pelle, la pelosità, la fisionomia, ecc., sono di tipo tale che ci si sarebbe potuto aspettare sopravvenissero per influenza della selezione sessuale». Purtroppo la ricerca sulle conseguenze evolutive delle scelte matrimoniali nella specie umana è stata molto limitata. L'antropologo americano Franz Boas (1858-1942) è stato tra i primi a mettere in dubbio la stabilità evolutiva delle variazioni fenotipiche quantitative come la statura, le misure somatiche e in generale la maggior parte dei caratteri antropometrici. In un lavoro famoso (Boas, 1940) in cui venivano confrontate le caratteristiche fisiche dei figli degli immigrati negli Stati Uniti con quelle dei parenti rimasti nelle zone d'origine, egli mostrò l'importanza degli effetti ambientali a breve termine. Tuttavia il suo lavoro, come era inevitabile che fosse a quel tempo, era statisticamente debole; in ogni caso la fiducia nell'antropometria rimase inalterata ancora per molto tempo, e negli ambienti più conservatori lo è forse ancora oggi. L'ampiezza degli effetti ambientali a breve termine è ben documentata; vi sono anche cambiamenti ambientali lenti, i cui effetti fisiologici sono difficili da studiare, ma che mettono in forse le interpretazioni genetiche di fenomeni come la tendenza all'aumento della statura caratteristica di questo secolo in Europa e in altre parti del mondo. Di recente ha ricevuto grande attenzione lo studio della variazione non metrica delle ossa, ma non ci sono ancora prove sufficienti che essa sia determinata dal genotipo e che sia insensibile ai cambiamenti ambientali a breve termine. Noi siamo convinti che l'introduzione dei marcatori genetici sia stata la svolta più rilevante nello studio della variabilità umana. I marcatori genetici si trasmettono per via ereditaria e non sono soggetti a cambiamenti a breve termine indotti dall'ambiente; è improbabile, però, che essi dimostrino una completa stabilità nel tempo, altrimenti non ci sarebbe alcuna evoluzione. Sono ben note la natura e la dinamica delle forze evolutive di maggior peso che influenzano le frequenze geniche dei marcatori genetici: la selezione naturale (compresa la selezione sessuale), la mutazione, la migrazione e il caso. Quest'ultimo agisce efficacemente in due modi: 1) siccome le mutazioni sono rare e casuali, il verificarsi di una mutazione specifica in un punto particolare del tempo e dello spazio si può considerare un evento soggetto a leggi probabilistiche; 2) la deriva genetica casuale è un altro processo strettamente non deterministico. | << | < | > | >> |Pagina 331.6 FALLIMENTO SCIENTIFICO DEL CONCETTO DI RAZZA NELL'UOMOCome era già chiaro a Darwin, il tentativo di classificare la specie umana in razze è stato in realtà uno sforzo futile: le razze umane sono entità ancora molto instabili nelle mani dei tassonomisti moderni, che ne definiscono da 3 a 60 o più, diverse (Garn, 1971). Questa differenza di valutazione dipende in qualche modo dalla preferenza personale dei tassonomisti, che possono decidere di essere più o meno restrittivi, riunendo (i cosiddetti lumper) o suddividendo (gli splitter) gruppi etnici diversi: non c'è dubbio che la specie umana sia una sola, ma non ci sono ragioni obiettive per arrestare a un particolare livello la suddivisione tassonomica. Infatti l'analisi evolutiva delle popolazioni umane (esposta nel cap. 2) mostra che è totalmente arbitrario fermarsi, nella classificazione, a un livello piuttosto che a un altro. Le spiegazioni sono di natura statistica, geografica e storica. Dal punto di vista statistico la variazione genetica all'interno di uno stesso gruppo è mediamente maggiore di quella tra gruppi diversi (Lewontin, 1972; Nei e Roychoudhury, 1974). Se consideriamo geni singoli, tutte le popolazioni o i gruppi di popolazioni si sovrappongono, dal momento che tutti i geni sono presenti in quasi tutte le popolazioni, anche se in proporzioni diverse; perciò nessun gene singolo è sufficiente per classificare le popolazioni umane in categorie sistematiche. A mano a mano che si scende lungo la scala tassonomica, i confini genetici tra i gruppi divengono sempre meno chiari. In termini evolutivi la spiegazione è semplice: c'è una grande variabilità genetica in tutte le popolazioni umane, anche in quelle piccole, e queste variazioni individuali si sono accumulate in tempi molto lunghi. Infatti, la maggior parte dei polimorfismi osservati nell'uomo è anteriore alla separazione dei continenti e forse anche all'origine della specie umana (meno di 500000 anni fa). Popolazioni diverse presentano gli stessi polimorfismi, ma con frequenze che variano dall'una all'altra: infatti la differenziazione geografica dell'uomo moderno è recente, avendo richiesto circa un terzo dell'esistenza della specie umana, e quindi non c'è stato abbastanza tempo per accumulare una divergenza sostanziale. Le differenze tra i gruppi maggiori sono perciò modeste se paragonate a quelle entro gli stessi gruppi e perfino all'interno di popolazioni singole; inoltre sia la nostra specie sia la sua antenata più vicina, Homo erectus, testimoniano un'attività migratoria notevole in tutte le direzioni, e in alcuni casi probabilmente si verificarono mescolanze tra gruppi che si erano separati molto tempo prima. A causa della grande mobilità umana, a livello sia degli individui sia delle popolazioni, probabilmente non ci furono mai confini genetici netti o, se ce ne furono, vennero sfumati da movimenti successivi. In alcune regioni possono ancora esistere confini genetici non chiaramente definiti, ma questo significa solo che l'esistenza di certe barriere ha causato meno mescolanza locale: per esempio Barbujani e Sokal (1990; Sokal e coll., 1988) hanno identificato un certo numero di confini genetici in Europa, legati a differenze geografiche, ecologiche e linguistiche (si veda il cap. 5). Il concetto di razza nella specie umana non ha ottenuto alcun consenso dal punto di vista scientifico, e non è probabilmente destinato ad averne, poiché la variazione esistente nella specie umana è graduale. Si potrebbe obiettare che gli stereotipi razziali hanno una certa consistenza, tale da permettere anche all'uomo comune di classificare gli individui. Tuttavia gli stereo tipi più diffusi, tutti basati sul colore della pelle, sul colore e l'aspetto dei capelli e sui tratti facciali, riflettono differenze superficiali che non sono confermate da analisi più appropriate fatte su caratteri genetici (molto più attendibili); l'origine di tali differenze è relativamente recente ed è dovuta soprattutto all'effetto del clima e forse della selezione sessuale. Un'analisi statistica multivariata - che richiede attenzione e competenza - permette di identificare «raggruppamenti» di popolazioni e ordinarli secondo una gerarchia che crediamo possa rappresentare la storia delle fissioni durante l'espansione in tutto il mondo dell'uomo anatomicamente moderno. A nessun livello si possono identificare questi raggruppamenti con le razze, dal momento che ogni livello di raggruppamento riflette una fissione diversa e non c'è alcuna ragione biologica per preferirne una in particolare. I livelli successivi di raggruppamento si dispongono in una sequenza regolare e nessuna discontinuità può indurci a considerare un certo livello piuttosto che un altro come una soglia ragionevole, anche se arbitraria, per distinguere «razze». Minimi cambiamenti nei geni studiati o nei metodi di analisi fanno spostare alcune popolazioni da un raggruppamento all'altro; solo le popolazioni «storiche», cioè quelle selezionate per il loro lungo insediamento e il loro basso grado di mescolanza, conferiscono maggiore compattezza ai raggruppamenti e maggiore stabilità all'albero filogenetico. Sebbene vi siano ben poche speranze di ottenere una buona classificazione tassonomica delle popolazioni umane (ma ciò non è molto rilevante dal punto di vista scientifico), abbiamo buone possibilità di ricostruirne la storia evolutiva, con il vantaggio che le ipotesi possono essere saggiate sulla base di altre fonti indipendenti di dati. L'accordo ottenuto dal confronto con le testimonianze derivate da fonti esterne può rafforzare le conclusioni ottenute molto più che non la semplice analisi dei dati. In molte parti del mondo e in alcuni ceti sociali la parola «razza» è associata a pregiudizi, incomprensioni e problemi sociali: la xenofobia, gli interessi politici e un insieme di motivi totalmente estranei alla scienza sono alla base del razzismo, la convinzione che alcune razze siano biologicamente superiori alle altre e abbiano quindi un diritto innato al predominio. Il razzismo esiste da moltissimo tempo, ma soltanto nel diciannovesimo secolo si tentò di giustificarlo sulla base di argomenti scientifici: il darwinismo sociale, teorizzato principalmente dal filosofo inglese Herbert Spencer (1820-1903), fu uno dei tentativi non riusciti di giustificare la competizione sociale incontrollata, la stratificazione in classi e anche l'imperialismo anglosassone. Non sorprende il fatto che il razzismo sia spesso associato a pregiudizi di casta e sia stato invocato come motivazione per assolvere la schiavitù e persino il genocidio. Non ha basi scientifiche una supposta «superiorità» genetica di una popolazione rispetto a un'altra: nessuno dei geni che consideriamo possiede una qualche connessione accettata con caratteristiche comportamentali, la cui determinazione genetica è comunque molto difficile da studiare e al momento non è basata su fatti rigorosamente provati. Nessuna delle nostre ricerche conferma che la rivendicazione della superiorità di una popolazione nei confronti di un'altra abbia basi genetiche: la superiorità è un concetto politico e socioeconomico, legato agli eventi della recente storia politica, militare ed economica e alle tradizioni culturali di determinate nazioni o gruppi sociali. La storia insegna che questa superiorità è del tutto transitoria, mentre il genotipo cambia molto lentamente. Tuttavia il pregiudizio razziale ha una tradizione con radici lontane nel tempo e non è facile da sradicare. | << | < | > | >> |Pagina 1132.1 QUADRO PALEOANTROPOLOGICO 2.1.a Il genere «Homo» Poiché le scoperte più recenti e interessanti di fossili della linea evolutiva umana hanno avuto luogo in Africa, fino a quando nuovi ritrovamenti non modificheranno il quadro l'Africa rimane il luogo di origine dei più antichi esseri viventi che i paleoantropologi concordano nel chiamare Homo. Secondo gli studi più comunemente accettati, l'antenato più vicino dal quale il genere Homo si separò sarebbe stato l' Australopithecus afarensis, di cui sono stati rinvenuti reperti (compresa la notissima Lucy), datati fra 3 e 4 milioni di anni fa, in diverse località dell'Africa orientale. Dall' A. afarensis discesero altre quattro specie di australopitecine ( A. africanus e A. robustus nell'Africa meridionale, A. aethiopicus e A. boisei nell'Africa orientale), così come il genere Homo. L'esemplare più antico attualmente conosciuto del genere Homo è H. habilis, seguito da H. erectus e da H. sapiens: quest'ultima è la sola specie vivente oggi. Tutte le australopitecine delle linee collaterali sono estinte. La storia del genere Homo ha inizio circa 2,5 milioni di anni fa, ma il tempo di separazione degli uomini anatomicamente moderni potrebbe essere di soli 100000 anni, anche se diversi paleoantropologi propendono per date più antiche. | << | < | > | >> |Pagina 1162.1.b La specie «Homo sapiens»I più antichi esemplari di Homo sapiens (definiti primitivi o arcaici) sono più robusti degli uomini moderni, avendo le ossa del cranio più spesse e rilievi ossei in genere assenti nell'uomo moderno. Probabilmente l'evoluzione da erectus a sapiens differì nelle varie parti del mondo, e in Oriente fu più tardiva. Durante il periodo che precedette l'origine dell' uomo anatomicamente moderno (u.a.m.), apparve per la prima volta una sottospecie di H. sapiens risalente a 150000-200000 anni fa, H. s. neanderthalensis. Più robusto degli uomini moderni, si è evoluto in Europa a partire dal progenitore arcaico, rappresentando per lungo tempo l'unico tipo umano in Europa e in alcune aree del Vicino Oriente, fino alla comparsa dell'uomo moderno. L'espansione dei Neandertal nel Vicino Oriente potrebbe essere stata secondaria, essendo forse avvenuta fra 100000 e 50000 anni fa. La figura 2.1.2 mostra la distribuzione geografica dei Neandertal nel momento della loro massima espansione. La quasi simultanea scomparsa dei Neandertal in varie parti d'Europa coincise approssimativamente con la prima apparizione degli uomini moderni, fra 40000 e 30000 anni fa. Il cervello dei Neandertal era leggermente più grande di quello di H. sapiens arcaico, e anche del nostro. Benché non vi siano chiare testimonianze archeologiche di sostanziali progressi di comportamento, gli utensili sviluppati dai Neandertal, chiamati musteriani, erano leggermente più avanzati di quelli acheuleani (H. erectus e H. sapiens arcaico). Sono documentati riti funebri con sepolture intenzionali.
La sotto specie a cui appartengono tutti gli u.a.m. è chiamata
H. s. sapiens;
secondo parecchi paleoantropologi, le sue origini più remote risalgono a poco
prima di 100000 anni fa, nell'Africa orientale e meridionale. Essa presenta
differenze assai nette da tutti i precedenti esseri umani, incluso il loro
ultimo rappresentante estinto, il Neandertal. Negli uomini moderni, ad esempio,
l'angolo facciale (l'angolo formato dall'asse del cranio e quello della faccia)
si avvicina ai 90 gradi, mentre nei Neandertall'angolo è minore e la volta del
cranio è relativamente bassa rispetto alla faccia; nei Neandertal le arcate
sopraccigliari sono prominenti, il mento è sfuggente e l'occipitale è più
flesso. Queste e altre differenze permettono, in genere, di classificare i crani
quasi senza ambiguità, assegnandoli all'uno o all'altro tipo umano.
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