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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 3 Parte prima La scomparsa della civiltà contadina Rievocazione sentimentale di un mondo perduto, con i suoi aspetti da rimpiangere o da dimenticare 9 Parte seconda La devastazione del paesaggio e dell'ambiente 146 Emerografia 201 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Parte primaLa scomparsa della civiltà contadina
Rievocazione sentimentale di un mondo perduto, con i suoi aspetti da
rimpiangere o da dimenticare
La vecchia Maremma - con tutto l'enorme patrimonio culturale a cui l'aggettivo «vecchia» si riferisce - è da includere nel novero dei cari estinti: morta e sepolta. [...] Basta addentrarsi nelle piane dell'Ombrone per incontrare, qua e là, butteri agghindati, artificiali, privi di genealogia professionale, addirittura con tanto di laurea, oltre che con diplomi di scuola superiore. Tot ore di servizio e poi in libertà, come qualunque altro impiegato. Pseudo-butteri, a detta di Beppe Guerrini, lindi e pinti, con la loro brava divisa, le loro facce gentili, senza i solchi della fatica, del disagio, dell'abbrutimento da overdose di strapazzo e di vita trascinata fra ogni genere di vicissitudini esistenziali, come accadeva ai butteri di una volta, quelli veri: una razza che si è estinta da decenni con la meccanizzazione dell'agricoltura e la scomparsa degli allevamenti bradi, alla quale Tolomeo Faccendi e il già nominato principe Francesco Ruspoli, entrambi scultori, hanno dedicato un monumento: il primo davanti all'edificio della stazione ferroviaria di Grosseto; il secondo a Campo di Mare, sul litorale romano, non lontano da Ladispoli. Per capire com'erano fatti, quei mitici abitatori della malarica prateria, bisogna andarli a cercare o nelle foto dell'Azzolino o nei quadri che Giovanni Fattori dipinse alla Marsiliana d'Albegna, dove più volte fu ospite del Principe Tommaso Corsini: là, in quella specie di Far West nostrano che non c'è più; sconfinato mare di pascoli fra boscaglia e riviera, niente alberi, niente case e neppure capanne; staccionate a delimitare la sconnessa, polverosa via "Maremmana"; centinaia di capi di bestiame a brucare e a mugghiare o nitrire; grandi tori neri come la notte a guatar con sospetto ogni presenza umana; cani pastori, bianchi e irrequieti, a vigilar greggi; gheppi a rotear nel cielo - alti - e a gridare nell'azzurro, per poi buttarsi a precipizio sulle prede. E lui, il buttero, vestito di rozzo fustagno invecchiato e logorato dall'usura, i cosciali di pelle caprina - per difendersi dalla guazza, dalla marruca e dallo "stracciabrache" della macchia - la faccia irta di peli incolti, cotta e invecchiata anzitempo dalle canicole; lui, piantato in sella al suo indocile cavallo, a caracollare intorno alle mandrie in quell'eterno esilio dalla società urbanizzata, in quella sorta di condanna che rappresentava il suo solo rapporto con la scontrosità della bestia foresta, con i suoi rari compagni di mestiere e con il fattore - il "ministro" - al quale lo legava esclusivamente un severo rapporto di subordinazione, di sudditanza, di distacco. Andate a vedere - in qualunque monografia dedicata al caposcuola dei Macchiaioli - il dipinto Mandrie maremmane, nella sua solare atmosfera così selvatica e rude, lievemente addolcita da un'azzurra pennellata di mare; oppure quello intitolato Butteri e mandrie in Maremma, dove vibra la possente e sfrenata dinamicità dei cavalli, degli uomini, dei buoi, sotto un cielo che si rabbuia per l'imminente temporale; oppure - ancora - quello in cui è raffigurata La marcatura dei torelli, che vive e freme di un'intensa animazione collettiva attorno ai riluttanti animali. Andateli a vedere, questi superbi dipinti che hanno imprigionato un'epoca, un costume rurale, una dimensione esistenziale, una vicenda sociale per certi versi mitica, favolosa. E vi accorgerete come sia difficile - per non dire impossibile - sostenere che quanto vi si ammira è ancora attuale. Perfino in molte foto del Denci, benché non eseguite a sorpresa, ma scattate su soggetti anticipatamente consapevoli di dover posare per l'obiettivo - e quindi piuttosto composti nell'abbigliamento e nell'aspetto - la distanza fra il passato e il presente è documentata in maniera netta, indiscutibile. Per tagliare la testa al toro basterà ammirare, nel volume L'occhio e la storia (Alinari, 1986), le splendide immagini di Piero Azzolino sulla "merca". I butteri erano quelli che - distanti, per mentalità e condizioni esistenziali, anni luce da quel modello di professione e di vita - si affannano a creare il mito del cow-boy di Maremma, nonostante la disapprovazione dei critici insorti a stigmatizzare la loro volontà di fare del teatro, di «ridurre tutto a sceneggiata». Erano quelli che il grande pittore livornese conobbe da vicino alla Marsiliana, dove soggiornò più volte, fra il 1880 e il 1885, raccogliendo gli elementi - il paesaggio, l'ambiente e i riti connessi con l'allevamento del bestiame brado - per eseguire una serie di capolavori che fanno rivivere la Maremma dei mandriani e dei pastori, del latifondo e della sua popolazione proletaria condannata a vivere fra la macchia e la prateria, in una dimensione esistenziale di quotidiano disagio. | << | < | > | >> |Pagina 73Il fatto che le campagne siano rimaste completamente prive di animali ha portato poi anche un'altra conseguenza. Chi cura più le siepi, che una volta si tenevano in ordine per impedire al bestiame di sconfinare, di invadere i campi coltivati? Nessuno. Di più: le siepi, anzi le grandi siepi, - i "siepali" - hanno subìto una riduzione che ha del vergognoso. Chiunque abbia voluto farlo, le ha impunemente tagliate o date in preda alle fiamme, sostituendole con recinzioni a rete o a filo spinato. Occorreva che lo scempio fosse impedito dalle autorità civili. Bisognava che le siepi - come oggi si comincia a fare con le piante monumentali - fossero poste sotto rigida tutela. Chi ha un minimo d'intelligenza e di saggezza capisce benissimo perché. E non ignora che le siepi costituiscono un habitat formidabile per la microflora e la microfauna. Se oggi, infatti, i piccoli insetti sono enormemente diminuiti di numero, la colpa è dell'insensatezza compiuta.Per quanto riguarda la flora, un esempio eloquente: nelle migliaia e migliaia di metri quadrati di siepi che sono state condannate al rogo cresceva una miriade di ciclamini (Cyclamen europaeum) chiamati volgarmente "comparucci" - i quali a primavera spandevano un profumo acuto, penetrante, delizioso. In gran parte, non solo la pasoliniana civiltà delle lucciole è scomparsa, ma anche quelle dei ciclamini e delle rondini, per sintetizzare nella smisurata riduzione numerica di queste specie del mondo animale e vegetale la scomparsa del sistema di vita e di cultura della società contadina. Noi siamo buoni testimoni di questo mutamento perché lo viviamo dopo aver vissuto, per oltre un quarto di secolo, la Maremma di prima. Possiamo fare quindi un paragone assolutamente oggettivo fra il prima e il dopo di questa terra; il quale non può che suffragare la nostra opinione, secondo cui non solo qualcosa, ma moltissime cose sono cambiate, le più emblematiche, le più caratterizzanti. Si osservino i vicinati di molti paesi, di quelli specialmente dove il denaro corre di più. Sono diventati quasi spettrali. Per le antiche strade non si muovono più che rari passanti, perché gli abitatori di un tempo, vendute le vecchie case al forestiero, sono andati a cercare miglior agio nelle ville o nei condomini sorti come funghi nelle periferie dei borghi. Nei vicinati sono morti gl'incontri, le veglie, i giochi dei ragazzi, le faccende dei campagnoli, gli esercizi dei negozianti, le cantine dei vignaioli, le botteghe degli artigiani, i canti delle donne, le bestemmie degli uomini, i ragli degli asini, il miagolare dei gatti, il girovagare indolente dei cani, le chiamate delle fornaie, gli annunci dei banditori. È morta la vita. La vita del borgo: un grumo di umanità che pulsava di buoni sentimenti e di valori, fondamentalmente virtuoso, anche se povero, perché non era stato corrotto dal denaro, né condizionato, nella sua quotidianità, da quel mostro che si chiama televisione. Viene voglia di rimpiangere i borghi maremmani della nostra infanzia, nei quali non si sentiva gracchiare nemmeno la radio; e in cui gli unici suoni echeggianti nei vicinati erano quelli emessi dagli strumenti a fiato che i musicanti della banda paesana dovevano spesso staccare dal chiodo per tenersi in esercizio. In quei borghi, il Natale non era una festa pagana come accade oggi; in occasione della quale d'altro non si parla che di regali da fare e da ricevere, di panettoni e di spumanti, di "pranzoni" e di cenoni consumati al ristorante, dopo aver abbandonato in massa le case. La festa religiosa più importante dell'anno si viveva in famiglia, dopo aver partecipato alle novene che vedevano sempre sul pulpito un predicatore venuto da lontano: un gran conferenziere che riempiva la chiesa di parole e teneva ferma sul suo volto infervorato l'attenzione degli astanti. Nei giorni che precedevano la ricorrenza della Natività venivano dall'Abruzzo gli zampognari (i suonatori di zampogna o cornamusa o "pifferazzana", come noi chiamavamo il loro rustico strumento) e la nenia che diffondevano, fatta di note acute e ruvide, graffiava il silenzio del borgo, facendo immaginare scenari di presepi. | << | < | > | >> |Pagina 119Chi rammenta più l"'albero del maggio" che un po' in ogni località del Grossetano la gente piantava in piazza il primo giorno del mese (calendimaggio), ornandolo sulla cima con rami fioriti, per tramandare una tradizione antichissima, secondo la quale la vegetazione in genere e l'albero in particolare erano festeggiati perché ritenuti centri di forza sacra, benefica e rigeneratrice? E la tradizione dell'omaggio floreale che gl'innamorati deponevano davanti alle porte di casa delle ragazze amate c'è qualcuno che la conserva nella memoria? Erano manifestazioni popolari d'indubbio valore romantico e poetico che esaltavano il sentimento e la gentilezza di coloro che le perpetuavano, attenuando la fama di popolo rude attribuita ai vecchi maremmani. Pure queste usanze sono state decimate dall'incalzare della modernità. Nel nostro paese, per pochi anni - dopo l'ultimo conflitto mondiale - si celebrò la festa dei lavoratori, raggiungendo in corteo bandiere al vento e corpo bandistico in testa - la "Quercia di San Giovanni", all'ombra della quale si tenevano le orazioni di circostanza. Poi, anche questa consuetudine fu abbandonata: che sia stata la distanza a scoraggiarla, dato che oggi si è sempre meno propensi a camminare?Noi, invece, da ragazzi, non si aveva altra scelta che quella del cavallo di San Francesco o dell'asino di casa, quando si trattava di andare in qualche luogo, lontano o vicino che fosse, perché la bicicletta era una cosa sognata, ma mai ottenuta; e poiché l'asino era troppo ingombrante e impegnativo per un adolescente di gambe svelte e tanta voglia di scarpinare, a queste ci si affidava per coprire qualunque tipo di tragitto. Il giorno dell'Ascensione, sul far dell'alba, provvisti di due grossi piatti avvolti in un fazzoletto a quadri che nostra madre ci consegnava per la bisogna, andavamo al Monte da nonno Lorenzo a prendere la giuncata o raveggiolo. La solennità che correva era anche la festa del latte; e, per rispettare la tradizione, si doveva consumare questo prodotto, naturale o lavorato, così come il giorno di Pasqua avevamo consumato le uova benedette. Molti genitori della Maremma - e dell'Amiata - mandavano i loro figli a ricevere il dono della giuncata da questo o da quel contadino, il quale non si sarebbe mai sognato di opporre un rifiuto, per non trasgredire un'inveterata consuetudine religiosa.
Per giuncata s'intende il latte cagliato
che si pone in un cestello di giunchi - da cui il nome - per fargli perdere la
parte liquida (siero); ma per giungere alla "cagliata" bisognava compiere alcune
semplici operazioni. Nonno Lorenzo e nonna Bita colavano in una caldaia -
mediante un telo di bucato - il latte tiepido, appena munto, per liberarlo da
ogni impurità. Appendevano poi il recipiente alla catena del camino e
aggiungevano al fuoco qualche ramo secco per alimentare una vivace fiamma.
Appena il latte aveva raggiunto una temperatura corrispondente a quella del
corpo umano, che stabilivano immergendovi un dito, diluivano una piccola
quantità di "caglio" in un po' di latte tiepido e versavano il miscuglio nella
caldaia. Con lo spino - una sorta di bastoncello munito di diversi pioli infissi
a croce in uno dei suoi lati - rimestavano il latte per consentire al
"caglio" di diffondersi uniformemente in tutta la massa liquida. A questo punto,
coprivano con un panno la caldaia e attendevano qualche minuto affinché la
"cagliata" prendesse la giusta consistenza. La giuncata era pronta. Prendevano
un mestolo forato e ce ne riempivano uno dei piatti, sui quali avevamo messo
alcune foglie di felce per mantenerla fresca. Con l'altro si copriva e, avvolto
il tutto nel fazzoletto a quadri, si riprendeva la strada del paese per essere a
casa verso le nove o le dieci, quando ci si metteva a tavola per consumare
insieme alla famiglia la ghiotta colazione.
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