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| << | < | > | >> |Indice9 Un episodio nella vita dello scrittore Tritone 49 Il benessere arriva in casa Pucci 91 Le avventure di Cornelia |
| << | < | > | >> |Pagina 9Al liceo io frequentavo il compagno Malaguti, che aveva letto molti libri più di me ed è stato il primo a parlarmi di romanzi moderni. Quando l'accompagnavo verso casa dopo l'uscita da scuola, confabulavamo di libri letti e libri da leggere, anticipando col pensiero la nostra liberazione dai banchi scolastici. Ho in mente Malaguti come un ragazzo bello e delicato, alto come me, ma vestito molto meglio di me, che accompagnavo a casa nel quartiere Sant'Isidoro. Lui soffriva di tensioni nervose, e siccome quelle crisi mettevano in ansia i suoi genitori, era stato mandato a stare con sua nonna per non disturbare il padre che era un finanziere molto indaffarato. E dopo non ha mai più avuto tensioni nervose, che gli erano provocate dai genitori medesimi, non so se dal padre o dalla madre, oppure dai due cumulativamente. Io e Malaguti parlavamo sempre di romanzi letti, e di romanzi che dovevamo scrivere, e di romanzi che non avevamo letto ma che disprezzavamo per partito preso. Tra quelli che disprezzavamo c'erano i libri del famoso Tritone, romanziere cittadino reputatissimo e molto vantato dal nostro preside Di Cece. Un giorno era successo che il preside era venuto nella nostra classe e si era rivolto al compagno Mussetto con queste parole: «Porgi al maestro Tritone i miei saluti. Digli che il preside Di Cece legge sempre i suoi romanzi storici e lo considera la migliore penna nazionale». Così abbiamo scoperto che Mussetto conosceva personalmente lo scrittore Tritone, per il motivo che sua madre era cuoca nella casa della madre del medesimo Tritone, in località Villa Peruzzi. Non che Mussetto se ne vantasse, ma quella era diventata la sua gloria scolastica perché la notizia circolava tra i professori, e quando il preside capitava nella nostra classe gli diceva sempre: «Porgi i miei saluti al maestro, e digli che secondo il preside Di Cece lui è la migliore penna nazionale». «Signorsì», rispondeva l'altro. Mussetto era un ragazzo di campagna, figlio d'una cuoca, orfano di padre, e messo in collegio dai Salesiani. Credo che la sua improvvisa gloria nell'ambito scolastico abbia dato fastidio a Malaguti, il quale in seguito lo trattava con molto astio: «Dimmi, quanti libri hai letto in vita tua?». «Nessuno per intero», confessava onestamente Mussetto. «Dunque sei un campagnolo ignorante!» «Hai ragione», diceva l'altro. «E credi che il tuo Tritone valga qualcosa?» «Non lo so!» «Non vale un fico, te lo dico io, e se vuoi ti spiego anche perché.» «Va bene, spiegamelo» rispondeva tranquillamente Mussetto. Ed è stato così che Malaguti ha dovuto comperarsi un romanzo di Tritone e leggerne due pagine per poterlo criticare. Quelle due pagine gli sono bastate per formarsi l'idea che i nostri romanzi futuri avrebbero dovuto essere l'opposto esatto di quelli dello scrittore Tritone: i quali erano dei libri insulsi, per gente insulsa come quella del quartiere Comboni, sentenziava Malaguti giovanetto. Il quartiere Comboni era quello attraversato dal viale che portava alla stazione, e là molte ville attiravano gli occhi per gli arzigogoli dei cancelli in ferro battuto, i giardini con piante speciali, le facciate con un'atmosfera d'alta classe. Si aveva subito l'idea d'un posto dove i comandamenti della vita civilizzata erano rispettati alla lettera, con sorrisi, cagnolini e servette, a una distanza massima dagli urli e bestemmie del basso popolo. E tra le ville del quartiere Comboni quella che spiccava in assoluto per disegno e mole e vasto giardino era la villa dell'avvocato Annoiati. Si diceva che avesse vastissimi sotterranei dove potevano starci cinquecento persone, e che di notte lì si adunassero squadre di nostri concittadini che avevano l'ideale politico di riportare l'ordine nella patria. A parte questo, l'Annoiati riceveva nel suo salotto altri concittadini eminenti, come il sindaco Cagnotto, l'assessore Rovina, la marchesa Cecchi-Mammullà, il Monsignor Tal dei Tali, la signora Prosdocimi, e la signora Veratti. Spesso c'era anche l'eroe di guerra, conte Manunzio Cadrega-Vanelli, quello che faceva spavento ai gatti, dicono, con la benda nera sull'occhio e il mantello da alpino.
In quel salotto si sentivano discorsi contro il
pericolo comunista, contro la musica dei negri,
contro la gioventù moderna senza ideali, e contro
molte altre cose. Circolavano vassoi con lo spumante: «La patria ha molto
sofferto», suggeriva
l'eroe di guerra con la benda sull'occhio. L'avvocato Annoiati riaffermava la
necessità di restaurare al più presto la pena di morte, per riportare
l'ordine nella patria. Spesso capitava lì anche la
gloria nazionale delle nostre lettere, lo scrittore
Virgilio Tritone, il quale consigliava sempre la
moderazione e la tolleranza, nei giudizi come
nelle parole. Tutti lo ascoltavano con rispetto,
anche perché circolava la leggenda che nel trascorso regime fosse stato un
perseguitato politico;
il che dava un fascino eroico alla sua figura di
scrittore, collocandolo assieme ad altri scrittori
che rivendicavano la stessa qualifica, come il
celeberrimo Victor Hugo, autore dei Miserabili,
famoso romanzo.
Tritone capitava nel salotto Annoiati al giovedì, perché passava sempre il giovedì in città e di sera aveva voglia di svagarsi con qualche chiacchierata. Per il resto del tempo stava in campagna, in località Villa Peruzzi, nella grande casa di sua madre, dove era nato e vissuto. Era un uomo alto e robusto, squadrato come con l'accetta; portava grossi baffi, giacche di fustagno da cacciatore, stivali di gomma per camminare nel fango. Ogni mattina faceva lunghe camminate nei dintorni di Villa Peruzzi e i villici vedendolo passare si levavano il cappello. Lui rispondeva da lontano con mosse democratiche: «No, no, non levatevi il cappello, non badate a me!». Oppure, incontrando qualche conoscenza, il dottore o il farmacista, s'intratteneva in breve ma cordiale conversazione: «Cosa sta scrivendo di bello, maestro?» (lo chiamavano tutti così). Dopo la camminata s'installava nel suo alto studio, al secondo piano della casa avita, dove rimaneva a scrivere fino a sera. Una squadra di donne, tra madre, zie, cugine, cuoche, serventi, sorvegliava i corridoi e le scale affinché nessuno disturbasse il maestro mentre scriveva. Molti parlavano di lui come d'un autore classico che sarebbe stato ricordato nei secoli, avendo egli già un posto assegnato nelle storie letterarie della nostra nazione. Aveva scritto ventisette romanzi storici; era stato premiato con sei medaglie d'oro; era rispettato per il suo passato politico; si diceva avesse combattuto alla macchia contro l'invasore tedesco; dovunque era onorato come autore nazionale tra i massimi e persona moralmente integra. Non s'era mai sposato, non aveva procreato figli, soltanto libri, ventisette libri; e avrebbe potuto passare il resto della vita in un pacifico sonno mai turbato da nessun cattivo pensiero, lassù nel suo alto studio a Villa Peruzzi da cui dominava tutta la pianura fino a ***. | << | < | > | >> |Pagina 41Circa sei mesi dopo hanno insignito Virgilio Tritone con il premio letterario «La lira d'oro», vanto della nostra città. Io e Malaguti siamo andati a vedere la premiazione nella Sala dei Commercianti, e per prima cosa abbiamo visto salire sul palco gli undici membri del Comitato di Lettura, vestiti di nero, in tocco e mantelli neri, con alla loro testa il presidente del premio, anche lui con mantello nero e il tocco sul capo. Gli undici mantellati erano tutti abbastanza bassi, e si tenevano stretti intorno a Tritone come se non volessero lasciarselo scappare. Gli arrivavano alla spalla e gli stavano così appiccicati che lui ha dovuto spingerli via per potersi mettere a sedere. La Sala dei Commercianti era stracolma di gente, e nelle prime file pullulavano i cittadini eminenti, le matrone illustri, le belle donne, gli elegantoni passeggiatori della pubblica piazza, col sindaco Cagnotto e l'assessore Rovina davanti a tutti gli altri.Il presidente del Comitato di Lettura ha preso la parola: «Assegnando il nostro ambito premio... grande scrittore... la nostra città tutta... partecipe del giubilo... occasione grata... ringrazio le autorità...». Ora lo scrittore premiato si alza in piedi, si asciuga la fronte, resta pensoso per un momento, infine dice: «Io però vorrei sapere se c'è qualcuno che ha delle critiche da fare al mio ultimo libro. Sono curioso di sentire le critiche. In uno stato democratico ognuno ha diritto di esprimere le proprie opinioni, quali che siano. Ma perché non sento mai delle critiche ai miei libri? Nessuno vuole farmi delle domande che sollevino qualche dubbio?». Malaguti ha subito alzato la mano: «Ha mai pensato che sarebbe ora di abbandonare il romanzo tradizionale e confrontarsi con la concezione del romanzo moderno che troviamo in molti autori attuali, soprattutto stranieri?». Uno del Comitato di Lettura, a sentir quelle parole strane per lui, si è impermalito, per cui scattava in piedi gridando: «Silenzio, sbarbatello! Un po' di rispetto!». E mentre Tritone diceva: «No, no, lasciatelo parlare, mi interessa!» due tipi grossi sono accorsi a prendere Malaguti per i capelli e trascinarlo via. Uno era un ex pugile chiamato Piombo, l'altro un ex pugile chiamato Pugni, e questi tiravano il mio compagno verso l'uscita dicendo: «Vuoi fare lo stronzetto intellettuale? E noi ti stacchiamo le orecchie!». Tritone dal palco: «Vi prego! Voglio sapere le critiche di quel ragazzo!». Ma Piombo stava già cacciando Malaguti fuori dalla sala con un calcio nel sedere, accompagnato dalle parole: «Te la dò io la concezione del romanzo moderno! Fila via e non farti più vedere!». Dopo la cacciata di Malaguti, il presidente del Comitato di Lettura ha borbottato qualcosa sull'incidente, poi Tritone ha preso la parola: «Ma io vorrei sapere: quali erano le critiche di quel ragazzo? Come si può vivere in questo stato d'incertezza, sapendo che molti avrebbero delle critiche da fare ma non aprono bocca? Io dico: può darsi che io abbia scritto dei libri privi d'interesse. (Rumori dal fondo: "No! No!") Non sarebbe il caso di avvicinarsi a questi scrittori moderni, come suggeriva quel ragazzo? (Voci: "No, maestro, no!") Ah, però, io ho provato a leggerli, questi autori moderni, ma non ci riesco, non ci riesco. Del resto non riesco a leggere neanche i miei libri. Anche quelli ho provato, ma non riesco a leggerli. Cosa vorrà dire? Che voglia dire che sono privi di interesse? (Voci: "No! Ma cosa dice?") Del resto noi viviamo in una catacomba, prigionieri di milioni di libri senza nessun interesse. Perché li scrivono? Perché li pubblicano? E perché li comperate? Vorrei saperlo! Di notte spesso penso che ci sia un grande mistero in queste cose. Ho idea che ci siano dei gruppi che si riuniscono di nascosto per criticare questi libri, tutti questi libri che ci seppelliscono sotto la loro massa di carta stampata. Non per denigrarli, ma per dire ad alta voce la verità! Sì, la verità sulla loro pochezza e inintelligenza! E può darsi che ci siano dei gruppi che devono riunirsi in segreto nei sotterranei della nostra città per esprimere liberamente il loro giudizio sui miei libri. Sì, ed ecco che io chiedo: ma perché nessuno mi fa delle critiche? E mi danno anche i premi! E dicono che sono un grande scrittore! Mentre i miei libri io non riesco a leggerli!». | << | < | > | >> |Pagina 49Pucci abitava in una casetta con i colori del brutto tempo, in un vicolo con in fondo un voltino dove le rondini facevano il nido. Il vicolo in autunno diventava una pozzanghera a statuto fisso, cioè tutto fango. La casetta era di quelle cresciute negli ultimi anni come funghi, basse e squadrate a forma di scatolotti, e all'interno androni tombali con scala di falso marmo e ringhiera in tondino di ferro. Nella casetta era in corso un conflitto tra i Pedrali del pianoterra e il signor Pucci del primo piano, perché quest'ultimo aveva riempito lo scantinato con le sue merci di ambulante, senza lasciare spazio alle damigiane della famiglia Pedrali. I quali Pedrali per ripicca non volevano che lui parcheggiasse la sua vetturetta nel vicolo davanti alla loro finestra, e gli mettevano dei biglietti: «Parcheggiare da un'altra parte. Un po' di civiltà per favore!». L'invito alla civiltà rendeva idrofobo il gigantesco signor Pucci, che per tre volte era andato a bussare alla porta dei Pedrali al pianoterra, gridando: «Guardate che la civiltà ve la posso insegnare io a voi!». Ma per quanto bussasse quelli non gli aprivano, lasciando intendere che loro non si mettevano alla pari con un tipo zotico e prepotente come lui. L'unico inquilino con cui il padre di Pucci si intratteneva in conversazione era il tipografo Catenacci del pianoterra, che lavorava di notte in un giornale ed era considerato il libero pensatore del vicolo. Lo incontrava di primo mattino, quando il Catenacci tornava dal lavoro, sempre arzillo col sigaro in bocca e il giornale sottobraccio. Chiacchieravano sulle notizie del giorno: «Ma mi dica lei, signor Catenacci, com'è possibile non si rendano conto che un venditore indipendente come me non può pagare tutte queste tasse?». «Eh! Cosa vuole signor Pucci? Non capiscono niente!». Questa la normale conclusione del Catenacci per dare ragione all'altro senza darsi troppi pensieri. C'erano odori speciali nel vicolo, e cani che passavano di lì fiutando sui muri l'orina d'altri cani. Se il signor Catenacci li vedeva fiutare li mandava via a calci, e ancora peggio se li vedeva orinare; certe volte gridando alla moglie: «Amelia dammi il fucile che gli sparo in testa a quel cane lì!». Poi diceva al signor Pucci: «Ma è mai possibile che ogni giorno trovo il muro qui davanti bagnato di piscio d'un cane che viene sempre a orinare qui? È mai possibile che in una società civile nessuno si prenda la briga di stare attento a quando passa il cane per dargli una bella bastonata in testa?». Il tipografo Catenacci aveva una gamba rigida e una forte inclinazione per gli imperativi categorici. Grande appassionato del dibattito sulla moralità pubblica, certe sere faceva un discorso al vicolo. Non agli abitanti del vicolo, ma al muro di fronte a casa sua. Cioè parlava da solo, ma facendo dei discorsi con tutte le fioriture oratorie, tutte le frasi ipotetiche, concessive, avversative, e le domande retoriche che studiavamo nelle orazioni di Cicerone al liceo-ginnasio. Dalla sua inferriata al pianoterra perorava contro i vizi e l'ignoranza del popolo, alzando la voce quando arrivava a lanciare un'apostrofe contro chi non capisce queste cose. E si stizziva se sua moglie andava a disturbarlo: «Donna, non frastornarmi con le tue ciance!». «Tito, volevo dirti che la minestra è pronta.» Qui una pausa da uomo stanco: «Ah, tu non mi capirai mai!». Poi qualche scatarrata del Catenacci, fumatore di sigaro. Pucci era stato bocciato tante volte che non lo volevano più in nessuna scuola, ma sua madre si faceva ancora delle illusioni. Siccome lo vedeva qualche volta nella sua stanzetta con la testa china sui libri, voleva convincerlo a riprendere gli studi e prepararsi per l'esame di licenza tecnica. «Sai, Aurelio, quando uno ha la sua licenza è già qualcosa, e dopo ti trovi un lavoro, ti sposi e ti fai la tua famiglia». Dicendo queste parole lei si aspettava una risposta, ma la risposta non veniva mai. Il figlio stava lì con gli occhi fissi su di lei, finché la madre si decideva a lasciarlo in pace, tornando ai suoi lavori domestici. Il fatto è che Pucci non aveva mai imparato a leggere davvero, e nella sua carriera scolastica se doveva leggere ad alta voce bafugliava dei suoni a caso. Però gli piaceva molto stare a guardare le pagine d'un libro, notare se le righe erano tutte dritte, fare dei ghirigori sui margini, anche calcare con l'unghia qualche piega nella carta. Le parole non avevano nessuna presa su di lui. Quello che lui capiva meglio erano le fisionomie delle facce, degli oggetti, dei segni, oppure gli odori nell'aria secondo i posti. Nelle case vedeva sempre una fisionomia: la porta era una bocca, un balcone il naso, due finestre laterali gli occhi, il tetto un cappello. Nelle lettere dell'alfabeto vedeva dei corpi panciuti, oppure corpi magri con la testa storta come la sua. Per quello non riusciva a leggere un libro, ma neanche una sola riga, dato che cadeva incantato a guardare le fisionomie delle lettere. Poi gli piaceva ascoltare i rumori, i suoni delle cose che cadono, le scampanellate delle bici, anche gli urli dei capifamiglia che echeggiavano per le scale, sia quelli del signor Pedrali e sia le bestemmie rabbiose di suo padre. Le sere scendevano tranquille nella sua stanzetta, dopo tranquilli pomeriggi in contemplazione d'una copertina dove le lettere gli sembravano più panciute e simpatiche delle altre. Lo attiravano anche i bollini col prezzo, soprattutto quando ce n'era uno incollato sopra l'altro, segno che il prezzo del libro era aumentato. In questi casi diventava curioso di sapere il prezzo originale e lavorava di unghie. Al pomeriggio si addormentava con la testa su un libro, poi si svegliava di notte perché non aveva più sonno; allora ascoltava i rumori nel buio, automobili in distanza, fruscii di pipistrelli, miagolii di gatti, gocce di pioggia sulla grondaia, passi misteriosi nel vicolo. E ascoltava il silenzio, che era come un altro rumore misterioso là fuori, col suono delicato dei momenti vuoti. Tutte cose che ricordava una a una quando è andato al manicomio e aveva molto tempo per pensare ai fatti suoi. | << | < | > | >> |Pagina 91Appena fuori dal nostro vicolo c'era una strada con case signorili e begli androni che davano su giardini interni, strada larga con l'acciottolato dove si ammiravano i palazzi più nobili e antichi. Quei palazzi facevano effetto soprattutto di sera, quando s'illuminavano le loro alte finestre, mentre per le strade passavano cani randagi in cerca d'un posto da irrorare col loro piscio. Rispetto a noi del vicolo, era tutta un'altra sfera di vita, con stemmi aristocratici e delizie per noi sconosciute, e porte intarsiate, labirintici corridoi, scale di servizio, salotti con poltronaggio che risaliva alle bisnonne, quadri da cui affioravano bui antenati, cucine dove grasse serventi spennavano polli o fagiani. Là c'è il vero abitare, tra personaggi come il conte Lupo Baciocchi che aveva un cane da tartufi premiato 12 volte ai concorsi nazionali, e la vedova contessa Tinti-Altoforni che coltivava i cetrioli per darli alle opere di carità dei poveri mutilatini; senza dire del conte Manunzio Cadrega-Vanelli, l'eroe di guerra con la benda sull'occhio, e della marchesa Cecchi-Mammullà, lontana parente del papa. Un altro fiore di quella razza era il nobiluomo Vigo Prosdocimi, nel suo palazzo avito, con scritta in latino sopra il portone: PRIUS CIVILIOR SUMUS etc. Prosdocimi era direttore dell'ispettorato all'agricoltura e bonifica delle zone depresse. Ricordo la sua aria da insulso quando andava per strada sbandando di qua e di là, ma dritto sul suo cammino di nobiluomo, e con molta gente che lo salutava levandosi il cappello o facendo inchini. Sua moglie era sempre sull'orlo d'un collasso nervoso, e lui, esposto a quelle ventate nevrasteniche, non curava più la propria persona. Andava in ufficio con la barba non fatta di tre giorni. Il che dava al suo volto un complessivo color grigioferro, intonato col cranio bigio a forma di cucuzza, nonché col naso quasi sesquipedale e cinereo. Senza dire dei completi sempre grigi come i suoi calzini. Magro e bislungo, aveva però una bella pancetta che gli dava un'aria da buontempone.
Il nome della figlia dei Prosdocimi era Cornelia, e devo tenerlo in mente
perché in seguito questa ragazza compirà delle imprese che voglio raccontare.
Ragazza spigliata, viso fresco, un cappottino azzurro e in testa un cappello da
collegiale di lusso con cupola cinta da un nastro rosso; la ricordo così, se non
mi sbaglio di persona. Aveva due amiche, l'Emma dei Mignani e la nostra compagna
Veratti, tutte e tre appassionate lettrici di
romanzi russi e francesi. Verso sera andavano a
passeggiare insieme sulla piazza centrale, sempre
allegre, in mezzo a quegli altri fantasmi senza luce.
Anche Cornelia era riverita dalla plebe del quartiere con inchini o scappellate;
ma lei scappava via davanti a quelle manifestazioni di sudditanza, e
certe volte sgridava qualcuno: «Ma la faccia finita con questi inchini!». Per
dire che tipo era.
In quel periodo infuriava la polemica sui cani randagi. Lunga storia che dico in breve. Dopo la delibera firmata dal sindaco Cagnotto per l'assunzione di sei accalappiacani supplementari, la municipalità non poteva procedere all'assunzione in mancanza d'un nullaosta governativo. Ma intanto i cani randagi prolificavano, si accoppiavano per strada senza ritegno, andavano a pisciare perfino in chiesa. Il consiglio comunale ha dovuto risolversi a inviare qualcuno nella capitale, per sollecitare un'autorizzazione prefettizia ad assumere i sei accalappiacani richiesti. Ma chi spedire? Tutti i consiglieri dichiaravano di non potersi assentare dai loro gravosi impegni. Nell'aula del consiglio comunale s'era fatto un grande silenzio. Poi, assessori e consiglieri tutti hanno preso a volgere gli sguardi all'indietro, verso il consigliere Prosdocimi. Infine è risuonata la voce del sindaco, e l'allampanato gentiluomo ha dovuto alzarsi: «Sono qui, signor sindaco». Aveva già capito quale tegola stava per arrivargli in testa. Era cosa nota che, come direttore dell'ispettorato all'agricoltura e bonifica delle zone depresse, lui non avesse mai niente da fare. Sia perché le zone depresse erano state bonificate da mezzo secolo, e sia perché le ispezioni ai prodotti agricoli le facevano altri in grado di capirci qualcosa, mentre lui era digiuno d'ogni pur vaga cognizione di cose materiali. Lui era il nobiluomo Prosdocimi, socio del circolo della caccia, membro della giuria del concorso letterario «La lira d'oro», vice presidente della società gastronomica etc. Uomo importante, cittadino emerito, e basta. Nel suo ufficio di direttore d'un ispettorato provinciale, trascorreva le giornate leggendo il quotidiano cittadino e risolvendo i cruciverba d'un settimanale di enigmistica intitolato Quiz. Ma aveva anche una famiglia a cui pensare, con la moglie sull'orlo del collasso nervoso, la figlia che non voleva più andare a scuola e faceva la ribelle. Ogni ritorno a casa lo rendeva stordito, ed ecco perché aveva quell'aria da insulso quando andava per strada. Poi, con tutte quelle cariche onorifiche, i suoi impegni erano molteplici e gravosi. Unico svago: andare a caccia assieme al direttore delle opere di carità Gaspare Finelli, col quale si concedeva anche pranzi settimanali in un ristorante cittadino, essendo tra l'altro un rinomato gastronomo.
L'idea di mettersi in viaggio verso la capitale
onde sollecitare un nullaosta per l'assunzione di
sei accalappiacani municipali affliggeva il nostro
uomo per vari motivi. Innanzi tutto perché era il
periodo migliore per la caccia alle quaglie; poi
perché avrebbe dovuto saltare molti pranzi con il
direttore delle opere di carità e rinunciare così al
voto per la classifica dei migliori ristoranti cittadini. Ma soprattutto perché
durante la trasferta non avrebbe potuto recarsi dal proprio giornalaio di
fiducia a comprare il suo settimanale d'enigmistica preferito. E se da un lato
non se la sentiva di rinunciare a risolvere i cruciverba per tutto
il periodo della trasferta, dall'altro niente lo assicurava che nella capitale
avrebbe trovato dei giornalai solerti, in grado di procuragli quello
specifico settimanale di cruciverba e rebus, intitolato
Quiz.
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