Copertina
Autore Gianni Celati
Titolo Passar la vita a Diol Kadd
SottotitoloDiari 2003-2006
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2011, I Narratori , pag. 150, dvd, cop.fle., dim. 14x22x1,1 cm , Isbn 978-88-07-01866-4
LettoreLuca Vita, 2012
Classe narrativa italiana
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Indice


  9 Notizia

 11 TACCUINO NUMERO UNO

    Passar la vita, 11;
    Nel cortile di Mandiaye, 12;
    Strambe conversazioni, 13;
    Un giro in carretto nella savana, 14;
    Veduta di Diol Kadd, 15;
    Regime femminile dei cortili, 16;
    Il droghiere di N'Dureen, 17;
    La savana come luogo di prova, 18;
    Antecedenti, 19;
    Decisione di andare a Diol Kadd, 20

 22 TACCUINO NUMERO DUE

    Moussaka, 22;
    Nonno rinomato, 23;
    Moussaka diventa attore, 24;
    Teatro alla luce delle lampade a petrolio, 25;
    Andata quotidiana a Khombole, 26;
    Commedia delle savane, 27;
    Riassunto della commedia di Mandiaye, 28;
    L'idea di portare la commedia per le strade, 28;
    Situazioni da filmare, 29;
    Lettera a un'amica, 29;
    Vestiari secondo circostanze, 30;
    Nel cortile verso sera, 31

 33 TACCUINO NUMERO TRE

    Il cortile dei vicini N'Diaye, 33;
    Matrimoni tra cugini, 34;
    Thioro, Mam'Asta e Maty, 34;
    Un momento qualsiasi e un incontro, 35;
    Assenza di mitologie d'amore, 36;
    Primi momenti dell'avventura in corso, 37;
    Impressioni sull'ultimo Dakar, 38;
    Lo stradone delle savane, 39;
    Arrivo al villaggio, 40;
    Le lunghe albe di Diol, 41;
    Mam'Asta, 42;
    Mam'Asta che vuol scappare, 43;
    Il "susanello" e Mbaye Sené, 44;
    Devianze, 45

    [...]



 

 

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Pagina 11

TACCUINO NUMERO UNO



Passar la vita

Gennaio 2006. Quello che scriverò sono osservazioni sul modo di passar la vita in un piccolo villaggio africano, piantato nella grande savana che va dagli ultimi quartieri di Dakar al confine settentrionale del Senegal. Vorrei che tutto apparisse meno romanzesco possibile, perché non se ne può più di queste vite da romanzo a cui dovrebbe somigliare anche la nostra. Qui non c'è niente che possa attirare le frettolose chiacchiere dell'attualità. Giorno per giorno, passa la vita e basta. Io mi ritrovo con undici taccuini scritti in fretta, spesso illeggibili, senza nessun ordine. Sono appunti su aspetti che mi sono diventati familiari in questa parte del mondo, con elenchi di parole wolof, discorsi scritti in fretta, figure di amici con cui ho vissuto in queste terre, idee per un film sul villaggio di Diol Kadd, e frasi che non so chi le abbia dette. Scrivo in una capanna nel cortile di Mandiaye N'Diaye, dove torniamo da tre anni per fare il film sulla vita del villaggio e sulla commedia che Mandiaye ha scritto. Quest'anno sono arrivato a Diol Kadd da solo, senza la troupe, cioè senza Lamberto Borsetti e Paolo Muran, che hanno ritardato la partenza. Le riprese e il montaggio sono durati a lungo e sono finiti, questa volta veniamo per mostrare agli abitanti il film girato negli ultimi tre anni in questi paraggi. Vogliamo anche costruire un grande schermo in mezzo alla savana, dove proiettare il film quando scende la sera.


Nel cortile di Mandiaye

Mattina fresca, in una capanna nel cortile di Mandiaye N'Diaye che può accogliere un centinaio di persone. Qui Mandiaye fa le prove della sua commedia. La capanna è in disordine, soprattutto sul lato di Moussaka, mio compagno d'alloggio, perché sul suo letto è sparsa una piccola biblioteca che lui si porta sempre dietro. Sono opuscoli con poesie del santo Ahmadou Bamba, fondatore della confraternita dei Murid; poi un libro scritto a mano in caratteri arabi con le storie dei santi murid, che Moussaka va a cantare in giro. Poi ci sono fogli fissati a una tavoletta: quando ha un momento libero si mette a riempire quei fogli con versetti del Corano: versetti che tagliati a listelli diventano medicine, per chi ha la fede. Poi sul letto c'è il grosso volume del Corano, a fascicoli sparsi, tenuti insieme con un elastico. È il suo libro di lavoro e di meditazione, e ai piedi del letto c'è il tappeto su cui prega, con il disegno della moschea di Touba, la città santa dei Murid. Le vicine di casa vengono spesso a spiare cosa succede nella nostra capanna, con tanti libri o fascicoli, attratte dal fascino della carta stampata. Ecco il mondo di Moussaka, col quale ho condiviso i sonni e i risvegli, i suoi borbottii nel dormiveglia e la cantilena della sua preghiera nell'alba, quando s'è già alzato e lavato in cortile, e uscendo lo trovo là fuori che fa scorrere il suo rosario, accovacciato per terra, mentre io ho un gran freddo e non so cosa fare.

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Pagina 15

Veduta di Diol Kadd

Villaggio wolof di duecento abitanti, con una scuoletta dipinta d'azzurro, una moschea-casotto con molte screpolature, quattro pozzi, di cui uno chiuso. La sua pianta si riassume in tre larghe strade di sabbia da nord a sud, intersecate da due strade da est a ovest, più vari vicoli trasversali. I limiti dell'abitato sono segnati dai cortili cinti da siepi o da stuoie di canna, e in ogni cortile ci sono dalle tre alle cinque capanne (per abitare, per dormire, per gli attrezzi, per le riserve). Nelle strade circolano galline, capre, cani, tortore, uccelli locali con becco ricurvo, grosse lucertole con la pancia bianca che passando muovono il capo a scatti di qua e di là, come per tener d'occhio la situazione. La maggior parte degli uomini è a lavorare a Dakar o altrove, per cui gli incontri quotidiani sono soprattutto con donne, di solito molto cordiali. Moltissimi i bambini vagano a grossi branchi, schiamazzando e facendo capriole, impastati di sabbia. La base di sussistenza è la coltivazione del miglio e delle arachidi, lavoro che impegna per sei o sette mesi all'anno. Diol Kadd è un posto così poco considerato che non esiste su nessuna carta geografica, e gli amministratori regionali hanno perfino deviato un fiumiciattolo che gli passava accanto. Le donne o ragazze devono lavorare tutta la mattina per tirar su dai pozzi acqua sufficiente ai bisogni domestici. La corrente elettrica è arrivata al più vicino villaggio serèr, ma non a Diol Kadd. Ed è come se lo stato senegalese avesse perso memoria di questo lembo di terra, dato il suo scarso interesse economico. Ma proprio per il suo isolamento in una specie di limbo in mezzo alla savana: quí la vita scorre lenta e pacifica, con una tranquillità dovuta anche al fatto che gran parte degli uomini sono assenti, mentre le donne hanno un modo più leggero di trattar la gente – è un villaggio guidato soprattutto dalle donne.


Regime femminile dei cortili

Due anni fa Mandiaye mi ha portato in visita al signor Niang, che era quasi sui cent'anni ed era malato. Ricordo la capanna spoglia ma ordinata, un vecchio letto di ferro, coperta bianca e lenzuolo, comodino, candela sul comodino. Mi dicevo che quello è l'ordine delle donne: tutto come deve essere, per lo sguardo del visitatore. Lo stesso ordine si vede nei cortili di sabbia che le donne spazzano da mattina a sera, e mi sembra l'ordine della sussistenza minima. Anche se i raccolti degli ultimi anni non sono stati buoni e il villaggio ha poche risorse, qui non si nota mai lo spettro della miseria. Al mattino le donne escono a fare la spesa o altri lavori, e il villaggio sembra spopolato: molti cortili restano vuoti, senza nessuna chiusura che sbarri l'ingresso. All'entrata ci sono questi schermi di cannella palustre, che noi chiameremmo "paraventi" e loro chiamano "para-vergogna". Ma se entri in uno di quei cortili vuoti, trovi sempre la sabbia ben spazzata tra le capanne, i catini o vasi ben disposti in un angolo. Qui si vede una vita tenuta al minimo, con una scarsa circolazione di denaro, ma le donne di Diol Kadd hanno una capacità di salvare le apparenze, col portamento, i modi cortesi. Nel regime femminile dei cortili c'è un modo di stare insieme animato da chiacchiere e da un umorismo che ora riconosco in certe signore. Come quella signora alta, dritta e distinta, con un vestito di seta damascata, molto elegante anche quando fa il bucato, in un cortile povero delle zone est. Nel primo anno il nostro Paolo Muran con la sua steady-cam portatile passava ogni mattina davanti al suo cortile per filmarla, e la salutava da lontano in modo tra il serio e il buffo: "Comment ça va la vie?". Lei si metteva in posa con aria ironica, stava immobile per qualche secondo, poi gli faceva segno che lo spettacolo era finito, congedandolo come un piazzista.


Il droghiere di N'Dureen

Qui intorno è come nelle nostre vecchie campagne, dove c'erano paesini sparsi, separati da distanze percorribili a piedi o col carretto. Diol Kadd è un villaggio wolof in un'area di villaggi serèr, il più vicino dei quali dista un chilometro e mezzo. Si chiama N'Dureen, e ci vado perché ha l'unico telefono dei dintorni. Il posto telefonico sembra un antro buio abbandonato da secoli, con una candela smozzicata per comporre il numero. E il gestore ha qualcosa di arcaico, nell'antro della sua drogheria alle soglie del villaggio. Alto, strabico, selvatico, con maglietta logora, risponde ai miei saluti senza un sorriso, e mi colpisce per come sia lontano dalle maniere cortesi di Diol Kadd. Ci ho messo del tempo per convincermi che lui è così soprattutto perché è un Serèr. I Serèr sono agricoltori animisti che mantengono vari costumi arcaici, tra cui il boschetto sacro per i riti iniziatici. In queste notti sento suoni che vengono dai loro villaggi, e nel dormiveglia ho sentito anche quel suono prodotto da una specie di tromba del "guardiano degli iniziati" per spaventare i ragazzi secondo la regola d'iniziazione. In giro, nei campi, durante questi anni, ho visto molti Serèr, e sono sempre loro a urlarci dietro perché non vogliono essere filmati. Ciò non spiega la selvatichezza del droghiere di N'Dureen, così lontana dai modi di Diol Kadd. Ma gli europei vedono le apparenze degli altri come se ognuno fosse responsabile del proprio look o carattere. In Africa, nella grande varietà di etnie, si impara a vedere negli altri prima di tutto dei tratti impersonali, aspetti distintivi di popolazioni. Si vedono segni di confraternite, modi di riconoscimento d'una casta, il berretto dei Tidjiani, il color marrone nei bubù dei Bàmbara, certe stoffe sfarzose delle donne. Vedendo le cose in questo modo si ha più il senso di muoversi in un mondo di usi e costumi, non tra individui separati. L'alterità degli altri diventa meno marcata, come alternativa rispetto a noi, e tutto appare piuttosto come una variazione su un nostro sfondo comune.


La savana come luogo di prova

Stamattina ho sentito rumori di scoppio dalla parte dove ci sono le terre rosse, e nel dormiveglia mi è tornata la fantasia d'una astronave che atterri da queste parti come in un pianeta da conquistare. La prima cosa che gli invasori farebbero sarebbe costruire strade asfaltate, cingere di reticolati le loro basi militari, con baracche, altoparlanti, posti di blocco, marines che guardano la savana trovandola troppo vuota, sterile e monotona. Perché è un paesaggio indefinito, senza una chiara linea d'orizzonte, che di solito disorienta perché tutto è sparso in modo indeterminato. Sono fughe di cime d'alberi, o quinte di collinette sabbiose, a produrre quella visione indeterminata, senza un preciso orizzonte. Di fatto, la savana, o brousse, o bush, o niaye (in wolof), sono parole generiche, che coprono molti aspetti di questi terreni. Solo nel tragitto di dieci chilometri tra Diol e Khombole ci sono dei tratti tipo steppa con ciuffi d'alberi – il kadd, il tamarindo, il nyme – e radure lontane con sparsi palmizi, dune da deserto sabbioso, zone di prato con erbe nane, euforbie, piccoli cactus, valloncelli di cespugli vari, e miracolosi residui di antiche foreste di baobab. Certe mattine, andando a Khombole, io e Mandiaye ci diciamo che quel panorama è un incanto e niente potrebbe attirarci di più. Il termine wolof, niaye, più che descrivere un terreno indica una dimensione di vita. Hampâté Bâ vede della savana un codice d'esistenza, tramandato dal suo popolo, i Peul. Il niaye è il luogo di prova per uomini o piante che debbono adattarsi alla penuria del deserto. È dalla sabbia che qui cavano i loro raccolti, sarchiando all'infinito, perché ogni giorno ci sono erbe infestanti sempre pronte ad attecchire. Nella desertificazione incombente, la denudazione dei terreni produce effetti secondari, forme di vita impreviste. La varietà di piante che attecchiscono farebbe concorrenza ai più grandi giardini botanici del mondo. Isolato in una pianura che va dai sobborghi di Dakar ai confini della Mauritania, Diol Kadd è l'esempio più chiaro di un lungo tentativo d'adattarsi al deserto che avanza.

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TACCUINO NUMERO QUATTRO



Matrimonio africano

Bambini che scorrazzano a branchi e altri che ogni giorno escono dall'utero materno come nuovi abitanti nel villaggio, fanno pensare a una produzione fitta come le pianticelle di miglio. Oggi con una telecamera palmare mi hanno messo a filmare Maty e Awa, che hanno partorito due neonati quasi negli stessi giorni, figli dello stesso padre, Car rapide. Con Maty e Awa si vede la gioia delle effusioni amorose, gli sguardi d'orgoglio per i nuovi nati, i baci e gli abbracci continui alla nuova creatura. Ma tutto passa svelto. Dopo un anno quei bambini avranno già imparato a far la cacca dietro un albero e a pulirsi il sedere con quel che trovano. A cinque anni porteranno le bestie al pascolo, a sei o sette trasporteranno sacchi di miglio o altri pesi in testa. A otto o dieci sapranno già dissodare i campi, sarchiare le zolle piene di erbe selvatiche. Poi arriverà il tempo di sposarsi e qui si vedrà che non esiste "coppia", c'è piuttosto una solidarietà del lavoro, come nei lavori agricoli dove si vedono famiglie compatte all'opera. Benché gli adultèri non manchino, l'innamoramento come miraggio di beatitudine qui non ha senso. In questi anni ho imparato poco sull'intimità coniugale africana. So però che i matrimoni sono decisi dai capi-famiglia anziani e gli sposalizi spesso uniscono giovanetti che non si sono mai visti. Questo fa capire che il matrimonio per loro è qualcosa di profondamente diverso da come lo intendiamo noi. Mandiaye ha dato una risposta secca: "Voi vi sposate per amore, noi ci sposiamo per fare bambini".


Gruppi d'opinione a Diol Kadd

Mandiaye mi ha raccontato che a Diol Kadd ci sono due gruppi d'opinione: quello dei tradizionalisti e quello dei modernisti. I tradizionalisti vogliono sempre aspettare la stagione delle piogge che feconda i campi, per cui se ci sono buone piogge si fanno buoni raccolti. Ora nel 2002 i modernisti avevano deciso di non aspettare più la stagione delle piogge perché c'erano state varie annate di siccità, e proponevano di irrigare artificialmente i campi. Questo contrasto è il contrasto tra la vita africana di pura sussistenza e l'attesa d'un benessere sempre più espanso su cui si basa tutta la vita in Occidente. Ma è un contrasto equivoco, e sempre più equivoco man mano che le società africane si sfaldano. Perché, se è vero che l'irrigazione porterebbe dei vantaggi, porterebbe anche mutazioni nelle abitudini: probabilmente distruggendo modi di vita comunitaria che possono essere considerati una forma di ricchezza. Questo è lo sfondo della commedia di Mandiaye.


Mandiaye spiega come ha scritto la sua commedia

Ho degli appunti [2004], presi una mattina mentre attraversavamo in macchina la savana, e Mandiaye ha scansato un gregge di pecore che ci stava venendo addosso, poi s'è messo tranquillamente a parlare della sua commedia. Ecco gli appunti che ho preso: "Mandiaye dice che a un certo punto si è messo ad avere delle visioni, ma prima di servirsi del testo di Aristofane. Dice che quel testo per lui è come se fosse stato scritto per il suo villaggio. Riscriverlo in lingua wolof è stato come farlo rinascere, perché parla d'un posto di campagna simile a Diol Kadd, quasi con gli stessi problemi. L'anno scorso, dice Mandiaye, ha assistito al contrasto fra i tradizionalisti e i modernisti, ed è questo che gli ha suscitato le visioni. Perché i tradizionalisti volevano fare la semina al momento giusto, basandosi su una fedeltà alla stagione delle piogge, che viene in un certo periodo ed è come un essere sovrannaturale chiamato Nawett. E qui si è accorto che il testo di Aristofane parlava d'una eguale fedeltà alle tradizioni del villaggio, cioè al ciclo delle stagioni. Invece la fazione dei modernisti voleva irrigare i campi subito, senza aspettare la pioggia dal cielo. La sua commedia, dice Mandiaye, è un dibattito tra un povero e un ricco, sulla povertà e la ricchezza; ma anche un dialogo tra un essere che chiamiamo, per intenderci, dio della Ricchezza, e un dio della Povertà. E quando si parla di queste figure, dice Mandiaye, si parla soprattutto della fedeltà dei contadini a quell'essere che possiamo chiamare dio della Povertà. Perché il contadino si è sempre aggrappato alla povertà, e in questo sta la sua fedeltà al passato. Ma se si parla dei politici, vediamo personaggi che i contadini considerano ricchi e potenti, ma che non hanno fedeltà a niente. Il suo testo, dice Mandiaye, politicamente parla dei politici e dei contadini che sono lasciati al loro destino...".

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Pagina 82

Sul fondatore di Diol Kadd

C'è un argomento che gli anziani trattano con cautela, ed è la memoria della fondazione di Diol Kadd, che risale a circa tre secoli fa. Il fondatore è stato un certo Ibra N'Diaye, che sarebbe l'antenato di Mandiaye e della maggior parte degli abitanti attuali di Diol. Per saperne di più Mandiaye è andato a trovare un altro anziano, il signor Niang, enciclopedia vivente del passato locale. Secondo la prodigiosa memoria del signor Niang, il fondatore di Diol era un personaggio originario della regione di Kajor (Thiès), che verso la metà del Settecento ha abbandonato la famiglia per creare una piccola Daara (scuola di studio coranico). E come san Francesco ha abbandonato la famiglia per predicare un altro modo di vita, così Ibra ha deciso di entrare nel cuore del territorio serèr per predicare l'Islam in nome dello sheikh Ahanad Tidjiani (diffusore dello studio coranico con forti tendenze sufi). Quello studio si è sparso in modo nuovo nel Settecento, dal Marocco all'Algeria, per sbarcare tra le colonie fulbe (ossia peul), nell'alto Senegal. A quell'epoca la zona dove adesso sorge il villaggio di Diol Kadd era abitata da Serèr – e i Serèr erano l'unica etnia in tutto il centro del Senegal che non si fosse convertita all'Islam, mantenendo stretti legami con l'animismo.


Sviluppo d'una nuova cultura

Secondo il signor Niang, il suddetto Ibra N'Diaye doveva essere un capo spirituale islamico, ma doveva essere allo stesso tempo anche un capo spirituale animista che aveva legami di stregoneria con il Djaraaf (rappresentante del governo) dei Serèr. Pare che il suo compito fosse quello di salvaguardare il potere del Djaraaf, proteggendolo dai malefici. Per questo gli fu concesso uno spazio dove abitare e coltivare la terra e fondare le prime scuole coraniche della zona che poi si chiamerà Diol Kadd. Queste scuole debbono essere state il corrispettivo di quell'apertura mentale che nella stessa epoca in Europa si è chiamata Illuminismo.

Invece dell'enciclopedia e del pensiero di Rousseau qui c'era il Corano da studiare, con influenze sufi: ma si trattava di un'educazione che portava circa allo stesso risultato. Portava alla nascita d'una nuova cultura, dove la tolleranza e la fratellanza tra gli uomini diventano criteri fondamentali d'un modo di vivere, sganciato dalle culture arcaiche o tribali. Mandiaye dice che gli abitanti di Diol sono Serèr convertiti alle nuove tendenze, gente che ha dimenticato la propria origine e imparato a leggere il Corano, abbandonando rituali ancora praticati a cinque chilometri da qui (come il rito iniziatico ancora praticato dai Serèr). Altra cosa: l'educazione nelle scuole coraniche nella nuova cultura andava assieme a un'iniziazione all'agricoltura, con le colture del miglio e dell'arachide, che restano ancora i due generi di coltivazioni praticati a Diol Kadd. Sulla trasmissione del potere In un'altra visita al signor Niang, Mandiaye ha appreso che Ibra N'Diaye doveva essere un meticcio peul-mauritano, come si capisce dai suoi legami con i Mauri di St-Louis (luo- go di arrivo delle nuove dottrine di origine sufi e di fioritura delle scuole coraniche). Dal suo cognome si sente l'origine di Daara Djolof dei Fulbe del Nord. La sua prima moglie era una Serèr, che gli era stata concessa dal governatore serèr quando Ibra aveva quarant'anni. Da questa moglie serèr di- scende la linea dei cosiddetti tradizionalisti di cui fa parte an- che Mandiaye. All'età di cinquant'anni Ibra ha sposato una seconda moglie, questa proveniente dalle sue zone d'origine, nell'area di Kadjor; e da lei discendono tutti i cosiddetti pro- gressisti del villaggio, che ereditano il potere del capo. Il po- tere va nelle mani del capo del villaggio, come quello attuale, lievemente panciuto. In conclusione, gli abitanti di Diol han- no lo stesso antenato ma sono divisi in due gruppi, uno di discendenza paterna e uno di discendenza materna: gruppi che hanno convissuto pacificamente. E se il potere è del capo progressista, le decisioni sono prese dai due gruppi insieme. Per tradizione il villaggio appartiene a tutti i suoi abitanti. Studiare il Corano e imparare la coltivazione Nelle scuole coraniche, insieme alla lettura che si faceva e si fa adesso, gli alunni erano avviati a imparare la coltivazio- ne, con i loro prodotti classici (miglio e arachidi) tutt'ora i prodotti classici degli abitanti di Diol Kadd. Ma nel corso del tempo, quelle due coltivazioni hanno largamente contribuito a un impoverimento del terreno nelle zone savanicole, dis- seccando parte delle zone coltivate, con il risultato che nel gi- ro di tre decenni tutto il panorama dei dintorni si è trasfor- mato e spesso inaridito vertiginosamente. Sentieri sabbiosi, arbustivi. Di qui sono nate queste colture della savana, in par- te zone di riserva, altre come punti che gli abitanti curano con una accanita dedizione per gran parte dell'anno. Visite ai posti prima di partire [Agosto 2004] Prima di tornare in Europa, poco conten- to dei risultati, deluso dalla scarsa riuscita nelle prove di re- cita all'aperto, ero preso dalla smania di esplorare i dintorni. Mandiaye ci accompagnava con la sua macchina nei posti da visitare. Durante uno di questi giri, nell'alba ci fermiamo a fil- mare una zona con quel che resta di un antico bosco di bao- bab. Mam'Asta è venuta con noi e adesso sta attraversando il bosco nella penombra. Vediamo solo la sua silhouette. Mi pia- ce il suo passo. Durante uno di questi giri filmiamo. Questa è una zona meravigliosa e magica, dove i grossi tronchi dei baobab bloccano i raggi di sole, per cui ci si trova nel semi- buio fin quando il sole non è alto allo zenit. Più avanti inizia una zona popolata da alberi kadd, da cui viene il nome di Diol Kadd e d'altri villaggi. I kadd sono alberi con un legno mol- to duro, e crescono senza rami intermedi, concentrati sulla chioma aerea che sembra cambiar colore con le ore del gior- no. Di lì si sbuca in una vasta conca erbosa dove si portano le bestie al pascolo, e che Muran ha saputo filmare con una lunga e bellissima panoramica. Altro giorno, primi d'agosto, non fa troppo caldo. Ci fer- 84 85 T miamo sul bordo di quella conca erbosa. È la stagione più bella, che conserva il ricordo di un'epoca in cui questa zona era un'unica grande foresta, da qui fino a Thiès e fino ai din- torni di Saint-Louis, in quei boschi che ancora adesso co- steggiano il grande fiume Senegal (dove siamo stati nel '97 con Jean Talon e ne sento la nostalgia). Mandiaye ci spiega che venticinque anni fa tutto quello che vediamo in questa conca, nel villaggio e nella regione, era un intrico di sentieri tra gli alberi, pieno di animali scomparsi: scimmie, serpenti, iene, lupi. Poi la desertificazione ha cancellato le tracce di tutto questo, ha seccato dovunque l'humus dei terreni, e ades- so il miglio e l'arachide si coltivano nella sabbia. In una let- tera che mi ha spedito nel 2004, Mandiaye rievocava molti animali che popolavano i dintorni di Diol Kadd, ai tempi in cui questa regione era un'unica grande foresta e lui aveva sui cinque anni.

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Pagina 86

Mandiaye mi scrive una lettera di notte

Tutto questo andrebbe riscritto meglio, perché sembra un eden pre-coloniale. Ma la bellezza delle storie di Mandiaye sta nel suo modo di raccontarle: e se togli di mezzo quel parlare che va verso uno sfondo lontano, tutto diventa una ridicola fantasia. Nell'aprile 2002 avevo scritto a Mandiaye di raccontarmi tutte le storie che ricordava sulla sua famiglia, sul suo villaggio, sulla sua infanzia a Diol Kadd, e sulla sua vita da ragazzo a Dakar. Mandiaye dice che dopo aver letto la mia lettera ha passato il resto della notte con la testa piena di visioni. E ha sognato a lungo, poi si è alzato dal letto per descrivermi le visioni avute. Nella lettera che mi ha mandato dice: "Davanti agli occhi mi passavano moltissime immagini del villaggio, e ho visto le capanne, e gli animali, gli anziani, e tanti bambini che correvano di qua e di là. Ho visto i campi di arachidi e i campi di miglio, ho visto i giganteschi baobab della savana, e gli alberi del tamarindo. Poi ho visto me stesso nella mia infanzia, come se facessi una discesa verso i miei antenati. Ho visto tante facce che conoscevo e altre che non conoscevo, in particolare mi sono incantato su una faccia che conoscevo ma non ho mai visto – cioè la faccia di mio nonno Seleman, padre di mio padre, che non ho mai conosciuto di persona...". Nella lettera rievoca la sua scomparsa, secondo i racconti di sua nonna Nogaye, moglie di Seleman. Questa gli raccontava che Seleman era scomparso volando in aria, e che un giorno o l'altro sarebbe tornato. Comunque, sono passati gli anni e s'è visto che Seleman non tornava. Parenti e anziani sollecitavano Nogaye a prendersi un altro marito, ma lei non voleva saperne. Così infine s'è sposata con un albero kadd, secondo la tradizione animista.

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