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| << | < | > | >> |IndicePrologo 1 Il gatto ride? 21 Strane storie 25 Una adozione 29 Aiuto, devo partorire! 33 Traslochi 35 Erode è un gatto? 39 L'ospite è come il pesce... 43 L'ospite indiscreto 47 Orecchio fino 51 Gatti e TV 53 Le gesta di Lucy 55 Acrobata! 55 Esploratrice! 57 Dormire, sognare, e nulla più... 61 Il gatto è Peter Pan? 65 Consigli per le adozioni 67 Se non mi ami non mi meriti 71 Intermezzo con cani e cavalli 75 Cani, orologi e calendari 75 I cavalli parigini sono più intelligenti? 77 Siamo quello che mangiamo 79 Mi fido solo degli amici 83 Qualche considerazione generale sul gatto, il cane, e... il coniglio 87 Il gatto samurai 87 I benefici dell'amicizia 89 Non lo faccio più! 91 Padroni felloni 92 Lode a quel gatto! 94 Gatti, cani e diavoli 96 Appendice tra il serio e il faceto Il serio: gli animali pensano? 99 E il faceto: altruismo e mal di denti 109 E per concludere: Gattina! 111 Antologia del gatto per il lettore frettoloso 115 Il gatto melomane 117 Il gatto acrobata 118 Il gatto terapeuta 119 Il gatto magico 120 Il gatto a tavola 122 I gatti e la fame del mondo 123 Il gatto panettiere 124 Il gatto d'appartamento 125 I gatti di Le Havre 126 Il gatto intruso 127 |
| << | < | > | >> |Pagina 1PrologoIl grande naturalista romano Plinio il Vecchio, che morì nella celebre e nefasta eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, ha compilato il più monumentale inventario della scienza naturale dell'antichità. La sua opera, in più volumi, dove le notizie veritiere si mescolano ai pregiudizi più vieti del suo tempo, si occupa, per fare qualche esempio, di piccioni viaggiatori e di api, e direi che nei riguardi di questi due animali ci azzecca quasi sempre, e formula delle diagnosi che ci stupiscono per la loro modernità. L'ape, difatti, viene definita dal naturalista come una creatura né domestica, né selvatica (lui scrive fera), che l'uomo alleva, ma di cui non controlla la riproduzione. Per lo meno questo è accaduto fino ad oggi, perché l'apicoltura, divenuta scientifica, riesce attualmente a inseminare le api regine in laboratorio, un caso davvero insolito di fecondazione artificiale, o "aiutata", come si suol dire nel caso della nostra specie. Ragion per cui anche il nostro laborioso insetto sta imboccando la strada della domesticazione in senso proprio. Tuttavia, checché ne dica l'apicoltore, che dall'Ottocento in poi, in seguito all'adozione dell'arnia razionale, ha cominciato a ottenere il miele senza depredarlo, distruggendo la famiglia, le api non ci riconoscono per nulla, e non si curano di noi. Per loro l'apicoltore, anche il più amorevole, è una sagoma semovente, che provoca talora un bello sconquasso nell'arnia, portandosi via i favi stracolmi del melario e magari ricambiando il furto con una elargizione di zucchero per l'inverno. Se, poi, non sa fare il suo mestiere, muovendosi nel corso dell'operazione di esproprio con sicurezza e insieme con le necessarie cautele, può beccarsi qualche bel colpo di pungiglione, elargito senza tanti complimenti. Quando ci vuole, ci vuole! Non controllando, fino ad oggi per lo meno, come ho detto, ma si tratta ancora di alchimie da laboratorio, la sua riproduzione, l'ape non si è ammalata d'uomo, come suol dirsi, ed ha conservato la possibilità di vivere senza di noi. Perché molti degli animali, e delle piante, che l'uomo ha sedotto, e ha chiamato al suo servizio, attirandole nel circolo incantato della domesticazione, ahimè, sono diventate strettamente dipendenti da noi, e senza di noi sparirebbero dal mondo. Pensate al baco da seta, che in natura non esiste più, o al mais, che se l'uomo non liberasse i semi strettamente agganciati alla spiga, beh, non ce la farebbe più a riprodursi da solo! Invece, la nostra ape, né del tutto selvatica, né del tutto domestica, anzi più selvatica che domestica, se ne infischia se l'uomo imbocca, a causa di una tecnologia prometeica e suicida, la via dell'estinzione. In un day after catastrofico, propongo questo scenario: l'ultimo Robinson Crousué della nostra specie, ucciso dalle radiazioni di un conflitto nucleare o da una mensa degna dei Borgia, satura di pesticidi e di altre diavolerie chimiche, ha tirato le cuoia. Nel pianeta finalmente disinfestato dell'uomo, gli alveari superstiti, dato che gli insetti resistono più di noi ai raggi gamma, e dato che diventano, a poco a poco, date loro del tempo, insensibili a tutte le molecole di sintesi, non se la danno per inteso. Giunto il momento, le operaie sciamano portando con sé la vecchia regina. Come di consueto le esuli, in un grosso glomere, si appendono a un ramo e le esploratrici partono in tutte le direzioni per cercare un nuovo ricovero dove insediare il nido, e se non è un'arnia confortevole, va benissimo la cavità di un albero o il solaio di una casa deserta, magari la stessa dell'apicoltore, nel frattempo scomparso senza che le sue protette si chiedano il perché, visto che non si sono mai accorte che lui esistesse per davvero. L'ape erediterebbe così il mondo e probabilmente gestirebbe il suo rapporto con la natura molto meglio di noi! Ma perché ho cominciato questo mio sproloquio evocando il popolo misterioso, e numeroso, dell'alveare? Perché io, come forse molti sanno, faccio di professione l'entomologo, e le api sono state le cavie, lo si fa per dire, di molte mie ricerche. Delle ricerche che ho sempre svolto in camice bianco, con tutti i crismi, e i carismi del metodo scientifico. Le osservo, do loro del miele, associo il miele a delle figure, pongo alle mie api delle domande formulate come offerta di cibo, e loro mi rispondono facendo qualcosa, soddisfano le mie curiosità, non con delle parole, ma con dei comportamenti. Però, quando mi tolgo il camice del professore e vado a casa, beh, l'etologo delle api si trasforma nell'etologo dei gatti. Perché da sempre, non vi dico da quando, dato che ci tengo, per un particolare capriccio, ad occultare la mia età, io vivo in compagnia di questi animali eclettici e straordinari, e per decenni non ho potuto fare a meno di osservarli, di congetturare su quello che fanno, di confrontare le loro azioni in differenti contesti, e oggi mi illudo di averli un poco capiti. | << | < | > | >> |Pagina 18Purtroppo, degli studi recenti suggeriscono che i gatti, a basse latitudini, e le Galapagos sono sulla linea dell'equatore!, manifestano una certa preferenza a predare i rettili, invece che i roditori. Per cui, se è pur vero che cacciano anche i ratti, e in tal senso sono utili, lo fanno con meno entusiasmo, ergo con meno frequenza, delle iguane e delle lucertole, per cui il bilancio costi/benefici segna in rosso. Ed è del pari vero che non solo nelle isole, ma ovunque si immettano in ambienti confinati, i gatti, lasciati liberi di riprodursi senza freno, prima o poi danno origine a delle difficoltà. Come quelle del genocidio degli uccelli, o di altri piccoli animali, se ce ne sono.Ho potuto osservare su scala ridotta il "pericolo gatto" in una piccola nicchia urbana, formata da una serie di case disposte in quadrato attorno a un insieme di giardini strettamente contigui, che si muta, così delimitato, in una sorta di isola verde. Bene, molte delle famiglie che abitano nelle case confinarie, chiamiamole così, ospitano dei gatti, ed è fatale che vengano lasciati liberi di aggirarsi tra le aiuole e gli alberi, e che si formi così una taskforce di predatori instancabilmente all'opera. I merli, che nei giardini di altre case, più aperti alla circolazione degli uomini e degli animali, sono presenti in gran numero, nella suddetta isola verde, beh, sono pressoché spariti. Ricordo un giorno che un piccione vagabondo, giunto lì dalla piazza del centro storico, ebbe la pessima idea di atterrare tra le case, emettendo un melodioso glu-glu. Cinque gatti balzarono all'unisono sullo sfortunato volatile, e il più grosso dei cacciatori lo prese in bocca, ancora starnazzante, e sparì tra i cespugli inseguito dagli altri. Del piccione non ebbi più notizie, tranne che il vento, quella sera, mi portò in volo una sua malinconica penna, e mi sembrò, e credo a ragione, che fosse l'equivalente di un epitaffio. Come contraltare della distruzione degli uccelli, devo però ricordare che nelle case poste sui confini di questo luogo di annientamento dell'avifauna non c'è più traccia di ratti, e di topi, che invece infestano le cantine e i giardini della altre abitazioni del quartiere, e spesso gli abitanti se ne lamentano e fanno petizioni perché le autorità preposte intervengano. Per cui, ogni medaglia ha il suo rovescio: lo sterminio degli uccelli deve essere iscritto a bilancio con la messa al bando dei roditori, e ciascuno giudichi se, nel caso, la partita doppia ecologica e sanitaria finisca o no per quadrare. Per concludere, se è vero che l'addomesticamento del gatto risale a circa due millenni prima della nostra era, dobbiamo tener presente che, dal punto di vista dell'evoluzione, si tratta di un'epoca recentissima. Tuttavia, se è pur vero che gli adattamenti degli organismi si manifestano in maniera tanto più rapida quanto più veloci e vistosi risultano i cambiamenti ambientali, il gatto, che da ausiliario è diventato, nei paesi del benessere, un ozioso amico, sta maturando delle singolarissime novità etologiche. Se confrontiamo, come nella favola di un Esopo moderno, il gatto dei campi e delle cantine, selvatico o rinselvatichito che sia, sterminatore di topi, con il gatto che fa ron-ron sulle ginocchia del padrone, e che dorme ai piedi del suo letto, beh, sembrerebbero due animali di specie diverse. Ed è proprio questa "pseudospecie nuova" di gatto da compagnia che sto spiando attraverso gli anni, e di cui voglio parlare in questo libro. In parole povere, ho l'ambizione di descrivere l'etologia di un'amicizia. | << | < | > | >> |Pagina 87Qualche considerazione generale sul gatto, il cane, e... il coniglioIl gatto samurai L'altro giorno una mia amica mi ha telefonato con voce piena di angoscia. Il suo gatto di nove anni, mentre faceva un po' di equilibrismo camminando sulla ringhiera del balcone, aveva messo un piedino in fallo ed era precipitato, dritto dritto come una meteora, nel giardino sottostante. Ahimè, quel balcone si trovava al quinto piano di un condominio alla periferia della città. Scesa con il cuore in gola nel giardino, la mia amica l'aveva trovato là, il micio acrobata, su di un cespo di erbacce, immobile, come colpito dalla folgore, ma, dopo tutto, a quanto sembrava, incolume. La donna l'aveva preso tra le braccia, coccolandolo teneramente ed era filata via, con lui sul sedile posteriore dell'automobile, raggiungendo dopo una pazza corsa la Clinica Veterinaria. Beh, mi diceva con un certo stupore nella voce, che aveva, a poco a poco, sostituito l'angoscia, il micione, a parte una escoriazione alla zampa posteriore destra, non mostrava alcuna frattura, e neppure una qualche compromissione agli organi interni. Insomma, era rimasto indenne malgrado il salto spettacolare. Ho rassicurato la gattofila, dicendole che degli accadimenti simili non erano affatto rari, e avevano da sempre evocato la curiosità della gente. Avvalorando, ancora una volta, l'idea che il gatto sia un animale magico, e forse in combutta con le potenze infernali. L'interesse degli scienziati non aveva tardato, tuttavia, a fare capolino. Una memoria presentata all'Accademia delle Scienze nel 1700 aveva già preso in esame il fenomeno, ma è stato soltanto alla fine del secolo scorso che, con l'aiuto dei cronoscopi, si è riusciti a filmare la caduta del gatto paracadutista, e a capirci qualcosa. È venuto fuori che il micio riesce a sfangarsela meglio se il salto è dal quinto o dal settimo piano dell'edificio, e che se precipita da luoghi meno elevati è più facile che si faccia del male. Una ricerca recente condotta da scienziati statunitensi ha accertato che dei voli dal settimo piano non comportano per il felino dei danni maggiori di quando cade da altezze più contenute: il 32% dei gatti tuffatori non ha avuto bisogno di alcuna cura medica, è bastata qualche carezza, mentre il 30% è stato ospedalizzato per qualche tempo. Tutto sommato solo per il 10% dei gatti precipitati si sono verificati degli esiti mortali. Si ricorda negli annali delle olimpiadi feline il record di un gatto sopravvissuto a un volo dal trentaduesimo piano di un grattacielo. Insomma, più alto è il trampolino di lancio – entro certi limiti, s'intende! – e più il nostro acrobata la fa franca. Come mai? La cosa si spiega se si tien conto che il gatto è un vero e proprio samurai a quattro zampe. In che senso? Vi ricorderete che i samurai, questi guerrieri dell'Antico Giappone, riuscivano a realizzare, di fronte al pericolo, una calma interiore, una sospensione delle emozioni, che non esito a definire sovrane. Lo stesso per il gatto: quando piomba nel vuoto, nel primo tratto della caduta annaspa disperatamente. Ma se gli date un po' di tempo prima che tocchi il fondo, miracolosamente si calma, e dispone il corpo nella maniera migliore per l'atterraggio. Curva il dorso, allunga le zampe, che funzioneranno come una vera e propria molla muscolare. Quando piomba sul suolo tutto il suo corpo reagisce come una palla di gomma. Non si può dire che rimbalzi, ma quasi. La calma è la virtù non solo dei forti, e dei samurai. Anche dei gatti. | << | < | > | >> |Pagina 99Appendice tra il serio e il faceto
Il serio: gli animali pensano?
Comincerò con un esempio che alcuni potranno giudicare, dal punto di vista dell'osservazione etologica, un poco stravagante, e forse non troppo rigoroso, ma mi conforta, nella mia decisione, quanto scrive George Schaller, il prestigioso ricercatore che è vissuto con i gorilla e con i leoni, nella sua introduzione al libro di Shirley C. Strum. L'intelligenza degli animali, afferma senza tanti mezzi termini, "può essere descritta meglio dal padrone affettuoso di un cane che dagli studiosi di laboratorio". Dal canto mio, vivo da anni non con un cane, con dei gatti, ma penso che la differenza di specie non pregiudichi nulla in merito. Tralascio, allora, per tornarci in seguito, le api, che sono l'oggetto, da parte mia, di esperienze di etologia vera e propria, e mi trasformo in "etologo da camera", nell'intento di suffragare l'ipotesi che gli animali non sono dotati soltanto di pulsioni, come si è disposti quasi sempre a concedere, ma di cognizioni. Attingendo ancora dallo scritto di Schaller, cito: "Si è detto perfino che gli animali sono privi di consapevolezza, che non avendo linguaggio non sono in grado di pensare". Schaller non è d'accordo, e io con lui. Con buona pace, si capisce, di Whorf e di Hall, crediamo che esista una logica concreta che si manifesta "prima delle parole" e che non è affatto vero che "in principio era il verbo". In principio, e tutte le strategie di sopravvivenza esibite dagli animali lo dimostrano ampiamente, non era il verbo, ma l'azione. Poste queste pregiudiziali di minima, che potrebbero somigliare ad una excusatio non petita, ma che hanno l'intenzione di mettere subito le carte in tavola, passo a descrivere la peripezia cognitiva del mio gatto. Una mia amica, che si diletta di problemi parapsicologici, aveva sostenuto un giorno che il suo soriano, di notevole stazza corporea, era dotato di poteri telepatici, e che se lei lo "chiamava con la mente", lui non mancava mai all'appello e lo si vedeva arrivare. Ahimè, alcune prove fatte insieme all'amica dimostrarono che si trattava di millantato credito, e mi confermarono nella convinzione che i padroni degli animali sono spesso proclivi a fantasticare meraviglie sui loro protetti. Tuttavia, il miraggio della aspirante parapsicologa, mi aveva, per dir così, reso sensibile, e rientrando a casa – era d'estate e vedremo in seguito perché questa precisazione stagionale abbia importanza – notai che quando aprivo la porta, il gatto era già lì, in attesa, come se avesse percepito con qualche anticipo il mio ritorno. Mi resi conto che il "comportamento d'accoglienza" si verificava puntualmente e mi chiesi, tra il serio e il faceto, se il diabolico micio non possedesse davvero delle facoltà precognitive. Ma ahimè, non potevo proprio concedergliele, perché avrebbe equivalso per me a una vera e propria abdicazione scientifica. Decisi di prendere in esame la questione, e diedi la stura alle congetture. Era l'ascensore che avvertiva il micio del mio rientro? Quando ero in casa, il gatto non dava alcun segno d'attenzione al ronzio dell'ascensore. Ma forse era perché io ero lì, accanto a lui. E se fossi stato fuori? Salii per ben tre volte le scale a piedi, con le scarpe in mano per minimizzare ogni possibile rumore d'avvertimento, e niente da fare: il gatto mi aspettava dietro la porta. La cosa diventò per me una specie di ossessione, ci pensavo e ci ripensavo senza riuscire a formulare uno straccio di ipotesi. A un certo punto mi colpì il fatto che, nei giorni di pioggia, l'animale sembrava perdere i suoi poteri di veggenza, e rientrando lo sorprendevo disteso sul letto, o mi veniva incontro, sopraggiungendo dal cuore dell'appartamento, per festeggiare, ma questa volta non con il solito tempismo, il ritorno del "padron prodigo". La mia parapsicologa aveva commentato la cosa voltandola a suo favore: era l'elettricità dell'aria, così intensa durante i temporali, da disturbare l'organo telepatico del gatto. Dal canto mio, non ero disposto a cedere, e continuavo a pensare che, pioggia o no, la trasmissione del pensiero era fuori causa. Singolare cecità: avevo la soluzione a portata di mano, se solo avessi pensato alla motocicletta! Già, proprio così: io mi sposto, durante la buona stagione, su di una Guzzi di media cilindrata, e quando rientro la sera, discendo lungo la rampa che porta al garage. La motocicletta produce, allora, uno strano rumore, un "clan-clan" inconfondibile, e percepibile intorno. Le circostanze lavoravano per me: il figlio di un mio vicino di casa acquistò, un bel giorno, una motocicletta e si mise a parcheggiarla in un garage attiguo al mio. Dunque, percorreva la rampa e produceva il "clan-clan" caratteristico. Una sera, stavo sul divano a godermi la TV, quando il rumore suddetto giunge da sotto – il vicino rientrava in moto – e il gatto, che sonnecchiava sul pavimento, si alza sulle zampe di colpo, e si dirige rapido verso la porta di casa. Ahilui!, passando vicino al divano mi vede: il suo passo rallenta, si ferma, si volta a fissarmi ed emette un miagolio straziante. Che cosa succedeva? Ero là, ero qua, stavo per giungere ed ero già arrivato. Capii tutto di colpo: il "clan-clan" avvertiva l'amicone del mio ritorno. Ecco perché nei giorni di pioggia, il gatto sciamano perdeva ogni facoltà: lasciavo la Guzzi in garage! Il seguito fu molto istruttivo. Scoperto che il "clan-clan" era inaffidabile, l'animale si comportò di conseguenza. Lo trovavo qualche volta sì e qualche volta no dietro la porta. Passato dall'universo di Newton a quello di Heisenberg, dalla certezza alla probabilità, il mio amico si era convinto che "Dio gioca ai dadi", e che anch'io faccio lo stesso. Insomma, questa storiella da appartamento, che non è, dopo tutto, il risultato delle osservazioni di un "padrone affettuoso", ma di un ricercatore di professione, dimostra come la mente degli animali sia abilitata a compiere delle operazioni piuttosto complesse: l'accertamento della costanza tra un certo segnale sonoro, e la mia quasi immediata comparsa, e l'istituzione di un nesso causale tra i due fenomeni. Una legge naturale, insomma, prima confortata, poi smentita dai fatti. Possiamo o no parlare di cognizioni? Direi proprio di sì. Un gatto-robot si comporterebbe di sicuro in maniera infinitamente meno versatile. Oggi, il grande biologo Donald R. Griffin ha deciso di rompere il fronte dell'ortodossia, e di parlare apertis verbis della necessità di una etologia cognitiva. D'altra parte, molte esperienze recenti, messe in opera secondo l'ipotesi che gli animali pensino, sembrano dimostrare ampiamente il punto di vista di Griffin, e mio, se mi consentite di entrare a far parte del coro. Le suddette esperienze, peraltro simili a quella, più casalinga, che ho riportato, suffragano questa rivoluzione etologica e rimettono in causa il pensiero animale e le sue implicazioni. Prima tra tutte la possibilità di dare un fondamento al problema dei diritti di questi nostri "compagni di strada" sul pianeta. Se in qualche misura, anche per loro si può affermare che "pensano, dunque sono" non è più così difficile evocare il fantasma di una identificazione giuridica che li tuteli, o per lo meno, che tenga conto che esistono. | << | < | > | >> |Pagina 108Non è più possibile trascurare, per paura di cadere in balia dell'antropomorfismo o del mentalismo, la concezione che gli animali siano dotati di un pensiero senza parole, di una intelligenza pratica, come diceva Bergson, e di un certo grado di consapevolezza di se medesimi. Altrimenti, si resta al "come", a inventariare etogrammi, e non si riesce a rispondere a nessun "perché". Molti epistemologi ci faranno notare, a questo proposito, che il "come" è affare di scienza, e il "perché" di metafisica. Ma anche qui non sono d'accordo. Mi difenderò citando Mayr, che nella sua opera sulla storia del pensiero biologico sostiene il contrario, e afferma che la teoria dell'evoluzione tende proprio a rispondere a molti "perché". Per esempio, al "perché il codice genetico è lo stesso per tutti gli organismi", o al perché "l'uomo è così simile dal punto di vista biochimico allo scimpanzé".
È diventato, dunque, scientificamente ragionevole pensare
che gli animali... siano ragionevoli.
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