Copertina
Autore Pier Luigi Celli
Titolo Breviario di cinismo ben temperato
EdizioneFazi, Roma, 2002, Le terre Scritture 42 , pag. 202, dim. 120x200x16 mm , Isbn 978-88-8112-363-6
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe sociologia , economia , politica
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Indice

    Presentazione di Domenico de Masi      7

    BREVIARIO DI CINISMO BEN TEMPERATO

    Introduzione                          21
1.  Spoils System                         25
2.  Il migrante permanente                30
3.  Elogio della vergogna                 36
4.  Il manager "fatto in casa"            40
5.  La stagione dei famigli               44
6.  Innamorarsi alla sua età              49
7.  Sul buon uso degli avversari          53
8.  Colazione con il nemico
    (C'eravamo tanto odiati)              57
9.  Fiutare, annusare e altre arti
    di sopravvivenza                      61
10. Fenomenologia del mutante             64
Il. Piccolo vademecum per scrittori
    di lettere anonime                    69
12. Il trombone                           75
13. L'aspirante infame                    79
14. Kapò                                  84
15. Alternanza e regole
    (Ora il potere logora chi ce l'ha)    87
16. Il resistente inutile                 91
17. Come passare un tempo che non si ama  96
18. Il resistente organico               102
19. Come si costruisce un'azienda        107
20. Come si uccide un'azienda            112
21. Piccolo mondo obliquo
    (La RAI delle mie trame)             116
22. La stagione delle nomine             163
23. Sull'immortalità della RAI           169
24. Cambiare punti di vista              173
25. L'organigrammista                    177
26. Nomine e dintorni                    181
27. Per una società clemente             184
28. Final trip                           187

 

 

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Pagina 21

Introduzione



Decidere è un po' morire.

Si perdono delle possibilità che non torneranno quasi mai.

Si perdono dei rapporti, talvolta anche degli amici: c'è un limite di comprensione che allontana quando è venuto il momento di scegliere e non è possibile "tenere tutti dentro".

Soprattutto, decidere è separarsi, ogni volta di più: dalla propria storia, dalla voglia di continuità, dalle sicurezze degli "stadi intermedi", dalla felice sospensione in cui tutto sta per succedere e nulla ancora è pregiudicato.

Ogni decisione, in genere, finisce per lasciarci più soli con noi stessi e dunque più esposti: al giudizio, alla condanna, talvolta all'abbandono. Quasi sempre poi la decisione innesca discussioni senza esito sulla sua necessità, sui tempi, sui modi: rimettendo così in questione la nostra capacità di valutazione.

Per tutte queste ragioni si è portati, oggi, a decidere così poco. A rimandare. O, sempre più spesso, a mettere in dubbio, nei fatti, le decisioni che già erano state prese.

E anche perché la decisione è, molto spesso, un fatto di pancia, di emozioni, almeno quanto lo è di testa e di razionalità.

Punto di condensazione terminale di mille fili, la capacità di decidere ha sempre scontato lunghe meditazioni, analisi sfibranti, accumuli di dati e di informazioni, per precipitare poi, in condizioni di stress psicofisico, di estenuazione fra pro e contro, e prendere forma in stati emozionali più liberatori che risolutori.

La rarefazione dei sentimenti e dei percorsi emotivi, peraltro, in pubblico come in privato, ha finito per rendere, paradossalmente, più difficoltosa la presa di decisioni.

[...]

La pluralità di opzioni, che le fasi di transizione sembrano offrire, in realtà mette alla prova soprattutto la tenuta psicologica delle persone e la loro capacità di orientamento.

Finisce, cioè, per confermare o meno la loro affidabilità.

È singolare e istruttivo, allora, guardare gli sbandamenti che si producono; la rapidità con cui si cambia bandiera; la penosa ricerca di riconoscimenti che mettono in campo identità proteiformi e contorcimenti sentimentali.

Una vera e propria commedia dell'arte.

Rispetto alla quale diventa quasi impercettibile il travaglio di quanti, ostinatamente, vogliono capire, senza consegnarsi inermi alla resa o, sull'altro versante, ad una ottusa resistenza.

Governare la sconfitta è persino più difficoltoso che appropriarsi della vittoria, proprio perché, diversamente, gioca un sentimento così obsoleto come quello della vergogna.

La cultura della vergogna è un valore sempre meno spendibile nel traffico confuso che la transizione propone tra scambi impropri e multiple alleanze.

È più facile espiare una colpa: rispetto alla quale, se si è disposti a riparare in eccesso, anche i nuovi vincenti saranno sempre pronti a chiudere un occhio.

Ecco, dunque, perché il problema alla fine non è da che parte stare, con una decisione che sarà sempre opinabile; ma piuttosto quale dignità salvaguardare.

Di molte dignità decadenti si rende conto nei capitoli che seguiranno.

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Pagina 36

3
Elogio della vergogna



La cultura della vergogna è propria delle società molto intrecciate, ricche di valori condivisi, ed è una barriera potente a comportamenti incoerenti.

Forse per questo è così poco di moda nel nostro paese.

Assistiamo, sempre più indifferenti, a manifestazioni disinvolte, in altri tempi inconcepibili almeno nella loro espressione pubblica, che denotano con evidenza un'assoluta mancanza di sentimenti di vergogna.

Politici che non hanno alcun problema a contraddire impegni e alleanze, né a perdere la faccia in scambi impropri; dirigenti d'azienda (o amministratori) che subordinano all'immagine gli interessi reali dell'impresa, vendendo agli altri ricette che non applicano in proprio; giornalisti più attenti alle aspettative dei padroni di turno che alla verità delle notizie, pronti comunque a scandalizzarsi se qualcuno ha l'ardire di far notare che "il re è nudo"; uomini di spettacolo per i quali comunque la vergogna è un lusso a fronte dei vantaggi di un narcisismo senza freni e autoassolutorio.

Potremmo anche parlare di certe incoerenze sapientemente smorzate - di uomini di chiesa, o dei mille ricatti quotidiani cui è sottoposto il cittadino comune, quello senza potere e senza appartenenza.

Perché dunque meravigliarsi se, sulla scia dei cosiddetti "testimoni privilegiati" che fanno tendenza e avvallano comportamenti socialmente sfrontati, si è diffuso nel paese questo disinteresse per la rettitudine dei comportamenti, un quasi disprezzo per coloro che si fanno ancora problemi di coerenza, tentando di connettere interessi privati e aspettative sociali più generali?

Fare l'elogio della vergogna, come virtù sociale e criterio - seppure debole - di valutazione della dignità delle persone può sembrare paradossale, e forse anche imbarazzante.

Una patetica perorazione fuori tempo.

Eppure senza vergogna, privi di quel sentimento imbarazzato che fa da ponte tra la colpa e l'orgoglio, una società decade rapidamente nei suoi legami di solidarietà, si disfa in un individualismo sempre più solitario e selvaggio, si corrompe.

La cultura della vergogna è la cultura della diversità e della distinzione: il terreno in cui sopravvivono le "virtù penultime": il rispetto, la tolleranza, la saggezza, e in cui le emozioni sociali hanno ancora un senso e svolgono un loro ruolo. Ed è anche il solo ambito di senso in cui si possa parlare di un termine fuori moda come quello di reputazione.

La paura di perdere la reputazione era un deterrente potente rispetto alla tentazione di violare le regole, quando sulla reputazione veniva costruita una vita, oltre che la carriera.

Ma se la sanzione sociale non ha più sensibilità per apprezzare le differenze, perché meravigliarsi se alla vergogna subentra la supponenza e si fa strada la convinzione che a vincere sia il più svelto, quello che ha imparato presto a farsi meno problemi?

Abituati alle "emozioni grosse" e alla dispersione di valori sempre più modesti che la civiltà mediatica sanziona in quelli che sono gli unici comportamenti collettivi (la tendenza imitativa nei linguaggi e negli stili di vita), succede che i sentimenti di nicchia perdono peso e riconoscibilità.

Si va verso un pensiero unico: consolatorio, progressivo, entusiasta e individualista. E che, soprattutto, non tollera smentite.

In una condizione in cui se si è tutti ugualmente colpevoli allora è vero che si è tutti innocenti.

Perché dunque attardarsi a farsi dei problemi, e talvolta a provare vergogna?

Eppure la vergogna è una forza educatrice potente, proprio in questo contesto.

Aiuta a distinguere, a farsi carico. Provare vergogna, ancora, è soprattutto un atto di coraggio. Una passione sociale in contesti in cui la sanzione possibile regola i modelli di vita e i comportamenti.

Senza vergogna non c'è necessità alcuna di lavare via "l'onta", dando prova di sé, e diviene irrilevante quello che gli altri pensano di noi. Vanno in fumo i criteri di valutazione che dicono ciò che è bene e ciò che è male. Tutto diviene relativo.

Le contraddizioni non pesano a chi non ha il senso della vergogna, e così ha scarso significato parlare di vizi e di virtù in un contesto in cui i vizi privati trovano spesso il modo di essere esaltati come meriti pubblici.

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Pagina 96

17
Come passare un tempo che non si ama



Supponiamo che vi troviate in una di quelle condizioni disagevoli che prevedono molto tempo "vuoto" davanti, nessuna speranza di cambiare - a breve - un destino già segnato, molti eventi che non sopporterete e tanta gente che non avreste mai previsto di dover frequentare.

Cosa vi resta da fare?

Cerchiamo di capire un po' meglio.

Dunque, voi siete affranti: non immaginavate, infatti, di dover buttare qualche anno della vostra vita a causa di contingenze esterne che vi rendono insopportabile il clima che si è venuto creando nel paese.

Avete inoltre il sospetto (fondato) di dover modificare le vostre abitudini, rivedere la vostra rete di rapporti e - Dio non voglia - la stessa libertà di espressione che vi è tanto cara.

In una parola, il mondo intorno a voi è diventato improvvisamente estraneo e l'orizzonte buio. E per di più, non avendo esperienze precedenti, non sapere proprio come comportarvi.

Che fare?

Be', ad essere sinceri, non si può dire che vi restino molte chance.

Escludendo il suicidio, l'emigrazione (che pure vi tenterà) o la prospettiva di un ritiro in convento, le alternative praticabili si riducono drasticamente.

Eppure, non disperate.

Provate a seguire alcuni suggerimenti in grado di alleviarvi le pene.

Tra le cose da fare il sesso occuperà una posizione di rilievo.

[...]

Ma la vera ancora di salvataggio per i tempi grami che vi aspettano è fornita soprattutto dalla lettura.

È qui che potrete disporre delle cose a vostro piacimento col gusto sottile di sottrarre le scelte alle mode emergenti, come pure ai dettami e alle agende delle nuove forze di occupazione.

Per sentirvi al sicuro, non sbagliate gli inizi: niente più quotidiani né settimanali, al massimo quelli sportivi e le riviste di moda e di viaggio. In un primo tempo vi mancherà l'aria, come ai fumatori incalliti. Ma ben presto non ne sentirete più alcun bisogno: leggeri come il vento. E disintossicati.

Quanto ai libri poi, la scelta è talmente vasta che potrete spaziare a piacimento.

Se ci permettiamo qualche titolo è solo per indicare alcuni filoni simbolici: senza pretese, badate bene.

Noi cominceremmo con Chandler. Il grande sonno e Il lungo addio sono un buon viatico per intraprendere il viaggio iniziatico in questo nuovo deserto dello spirito. La loro assimilazione vi suggerirà poi su quali filoni incamminarvi e, soprattutto, servirà di allenamento per compiti di lettura più impegnativi.

Ad esempio potrete tentare un assaggio di classici ricorrendo alle Anime morte di Gogol' e, per Dostoevskij, alle Memorie del sottosuolo. Se reggerete l'urto potrete continuare sul genere e magari affrontare Dickens, iniziando da Tempi difficili, e poi concedervi quella deliziosa metafora di Francis de Quevedo che risponde al titolo de Il trafficone.

A questo punto avrete bisogno di disintossicarvi con qualcosa di più leggero e Soriano (Osvaldo) farà al caso vostro, proponendovi Triste solitario y final e poi Mai più pene né oblio, La resa del leone e il vagamente allusivo Un'ombra ben presto sarai.

Con qualche punta di rimorso per questa vaga aura di disimpegno vi porrete ora il problema di un recupero, almeno parziale, delle ragioni ideologiche della vostra solitudine, alle quali bisognerà pure dare una risposta.

Vorremmo dunque proporvi qualcosa di quasi classico, così, come spunto. La vostra intraprendenza farà il resto.

E per cominciare La peste di Camus va sempre bene, non sarà una novità, ma aiuta a inquadrare la situazione.

I sudamericani vanno bene tutti, se non altro per l'aria di sconfitta che li permea quasi integralmente; se forniamo un titolo di Marquez (L'amore al tempo del colera) è solo perché, non essendo il suo capolavoro, e trattando di amori tardivi, vi metterà nella giusta disposizione d'animo per cambiare genere.

Non prima di essere passati per un classico dell'impegno quale quello rappresentato da Opinioni di un clown di Heinrich Bóll. La lista potrebbe qui allungarsi all'infinito e a questo provvederete direttamente.

Noi vorremmo congedarci dal filone "lettura" con tre suggestioni finali che ci riscattino dal nostro provincialismo; e allora via con le Memorie di Adriano della Yourcenar, con Cuore di tenebra di Conrad e con quel prodigioso romanzo di Saramago, Memoriale del convento.

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