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| << | < | > | >> |IndiceLA MANUTENZIONE DEI RICORDI Prologo. Preparativi di partenza Rischioso evocare le ombre 17 C'è sempre una segretaria a tirare le fila 27 Lorenzo Giudici, detto Lollo e per gli amici «Mangiapolenta» 35 Parlare di poesia a Tor Bella Monaca 46 Difficile fare pace con i pregiudizi 56 Pietro ragiona con le ombre 69 Anche Angelo ha bisogno di collocarsi da qualche parte e ci ragiona 77 Alla stazione in attesa del treno per passare il confine 87 Romolo evoca storie complicate 96 Il tempo in cui ogni stimolo era un'occasione e la curiosità non sempre portava a dama 101 A Piediluco non è tutto oro e qualcosa si ingarbuglia 111 Torna in scena Teresa, la segretaria che non perdona 124 La confessione di Luigi 132 Lo strano sogno dell'ingegner Massimi 141 [...] Una nottata che nessuno si aspetta 362 L'ultimo pranzo all'Africano 379 La notte pacificata 394 Memorie postume 407 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Quartiere Africano, Roma Nord, giugno del 1968. Erano in sei, amici inseparabili, sempre alla ricerca di qualcosa per cui valesse la pena evadere dall'inutilità di giorni che si consumavano uguali nell'attesa, mentre tutto intorno sembrava prendere fuoco. A dire il vero c'era anche un settimo nel gruppo, Riccardo, ma lui era più della religione che del mondo, anche se viveva con la fidanzata, e gli altri avevano persino smesso di chiedersi il perché, tanto era grande la confusione sotto il sole. Così lo vedevano ogni tanto, più che altro ci andavano in montagna insieme. Certo erano tempi strani, l'aria non prometteva nulla di normale e tutto portava a credere che dovesse trovare solo una ragione meno precaria per decidersi a cambiare. Un innesco, magari un incidente come quello che era costato la vita a Paolo Rossi due anni prima, sulla scalinata di Lettere, e che aveva smosso le acque che ora avevano preso a incresparsi sul serio. In giro c'era comunque del movimento, si stavano addensando troppe nuvole per non prepararsi a qualcosa di serio, e Romolo, che era l'avanguardia politica della compagnia, non si stancava di ripeterlo. «Non la sentite anche voi l'insofferenza che pizzica sotto la pelle e ci rende tutti inquieti? Dobbiamo essere pronti, compagni; poche seghe e prepariamoci alla lotta.» Era da lì che poi gli amici l'avevano battezzato «Setteseghe», appellativo che di volta in volta si associava a «Suslov» o a «Che Guevara», perché lui ci teneva alle sue ascendenze intellettuali e rivoluzionarie. Pietro era quello che lo seguiva più degli altri, un po' perché abitavano dalle stesse parti, all'Africano, molto perché avevano una comunanza che partiva dalle scuole elementari e si era protratta fino al liceo, quando poi avevano fatto scelte diverse all'università, uno a Ingegneria e l'altro a Lettere. Ma intanto c'era stato il tempo per valorizzare le imprese epiche di Pietro, nella sua versione irriverente e già goliardica, così che il nomignolo di «ser Ciappelletto», in arte diventato «Ciap», aveva finito per accompagnarlo per il resto degli anni, insieme pena e benedizione per un tempo passato troppo presto. Lorenzo, quello che sarebbe poi emigrato al Nord, ai piedi delle Dolomiti, inseguendo il mito di Sociologia all'Università di Trento, era l'anima leggera della compagnia, sorrideva sempre, più ironico che allegro. A lui che i tempi cambiassero non pareva vero, a casa non era aria, e l'idea di buttarsi fuori con gli altri a fare casino gli allargava il cuore. «Oggi si va in borgata, sfaticati!» Lo gridava arrivando al covo del loro raduno, come ogni mattina, quando gli altri due erano già lì, di fronte alla parrocchia dell'Africano, a leggere i giornali che il barista «da Nello» gli faceva trovare gratis. Romolo alzava lo sguardo infastidito, per lui il rito del quotidiano di partito era sacro. Ma gli altri ne approfittavano per i primi resoconti sui fatti raccolti per strada arrivando all'incontro. C'era sempre uno scontro dalle parti di Val Melaina o un'assemblea notturna di cui dare conto, quelli erano tempi in cui si saggiava il terreno, sperando che finalmente si potesse entrare in azione. Francesco e Luigi erano meno invischiati in quelle storie, le vivevano laicamente, se si può dire, e così, entrati nel covo, si accaparravano il flipper all'angolo della stanza e ci davano dentro in una gara che pareva ogni volta quella per la vita. Erano i più competitivi del gruppo, si vedeva già da allora che coltivavano anche altre propensioni oltre quella adesione, che era scontata, alla comune appartenenza ideologica. Intervenivano ogni tanto nelle chiacchiere dei compagni, più che altro per relativizzare i fatti, altrimenti assurti a dimensioni di vere premesse rivoluzionarie. È vero che c'era appena stata, a montare gli animi, la sbornia degli scontri a Valle Giulia, con quella retorica tutta gonfiata che provava a consegnare alla storia l'epica di una battaglia. Ma loro, che pure c'erano stati e qualche incidente di percorso l'avevano conosciuto, erano forniti in giusta misura degli anticorpi di un'educazione cattolica di tradizione. Il che li faceva propensi a cercare piuttosto una loro strada che tenesse insieme, come qualcuno diceva sarcastico, il diavolo e l'acqua santa, e a differenziarsi nel vincolo di un'amicizia che non avrebbe avuto bisogno di ragioni esterne per sopravvivere. Quasi tutti, almeno. Perché Angelo, il sesto della compagnia, che fa la sua comparsa «da Nello» più tardi degli altri perché abita distante, al Portuense, pur con il suo viso da cherubino in un corpo da lottatore di sumo, e con l'appellativo affettuoso di «Volatile», è certo il meno tenero della compagnia. Buono come il pane, ma puntuto come una siepe spinosa di more selvatiche, capace di darti tutto ma non di lasciarti passare una parola che non gli torna. E oggi sembra più indisposto del solito. «Mentre noi ci gingilliamo, in giro scoppiano fuochi a ripetizione. Non c'eravamo detti che si organizzava un viaggio in Francia così ci facciamo un'idea? Mi sa che ce la stiamo prendendo troppo comoda, compagni.» Ordina un caffè imprecando al clima di rincoglionimento che si respira nel bar, va su e giù per la stanza, scomposto, gettando da una parte e dall'altra i piedi che rimbombano come dei tonfi sordi nell'acqua, poi fissa i compagni e sbotta. «Va be', rincoglioniti... si va in borgata, visto che ci siamo tutti. Io, Francesco e Luigi, all'Alessandrino, che questi qui vanno rieducati, altro che flipper; voi altri all'Acquedotto Felice, a rifarvi gli occhi. Ci si vede stasera, così parliamo anche di come andare al raduno di Rimini da tutti quegli scappati di casa senza partito che pensano di darsi importanza.» Più o meno così quasi ogni giorno, aspettando che arrivi l'occasione. Era come se si stesse preparando un temporale, l'aria che si faceva stretta, quasi immobile, e anche le persone rallentavano in attesa. Ma poi non succedeva nulla per un tempo che non pareva passare mai. Solo qualche tuono in lontananza, e nel buio delle nubi che si addensavano lente il guizzo improvviso di un fulmine che faceva sperare. Un mondo un po' così, con un prima che non serviva più a niente, almeno era quella la percezione dei più giovani, e il dopo che stentava maledettamente a prendere forma. Lorenzo, che poi tutti chiamavano «Lollo», per occupare i tempi vuoti aveva preso a declamare pagine dal libro di don Milani, Lettera a una Professoressa, imitando un «controquaresimale» che gli studenti di Sociologia a Trento si erano inventati sul piazzale antistante il duomo, come contestazione all'arcivescovo. Romolo e Pietro razzolavano per assemblee sparse, preparando occupazioni e sit-in di protesta, mentre gli altri tre si erano messi di buzzo buono a organizzare il famoso viaggio che li avrebbe portati finalmente in mezzo alla vera rivoluzione nel cuore della Francia. Erano passati così aprile e maggio, giusto il tempo per mettere a fuoco idee più sicure su quello che volevano fare, assorbire i residui delle scazzottate scambiate con i fasci tra piazza Istria e piazza Annibaliano e incaricare Luigi e Francesco di tirare le fila per la partenza, mentre ognuno cercava di sbrigare i residui impegni in sospeso. Verso la fine di giugno era tutto pronto. | << | < | > | >> |Pagina 17Roma, 18 novembre 2018 Siamo tutti vivi. Ce lo dovremmo dire subito, e sarebbe già qualcosa. Ci sono circostanze che lo reclamano un po' di ottimismo, aiuterebbe a tenere su il morale. Almeno, lui la pensa così. Lui è Pietro, è sua la responsabilità di quel raduno, e adesso che gli altri sono lì non sa bene da che parte prendere il discorso; ormai l'età l'ha reso incerto su quasi tutto. E poi, a guardare i vecchi amici di un tempo, anche se ancora mancavano Francesco e Luigi, si accorge di non sapere praticamente più nulla di loro, difficile sperare di trovare il tono e la calamita giusta. Così, alla fine, non sembra proprio il momento adatto per attaccare un discorso sugli affetti, troppo prematuro. Meglio il solito ritardo che serve a mettere insieme un po' di pezzi. Una sospensione, insomma, che aiuta pur sempre a sperare che le cose si srotolino da sole. Dovevano esserci abituati anche loro a rimandare, se avevano aspettato cinquant'anni per ritrovarsi. Per la cena al paese c'è ancora del tempo, lui lo sa, e sa anche che bisognerà avere pazienza per smaltire tutto quel tempo passato chissà dove e chissà come. Sono lì in piedi, arrivati alla spicciolata, che non era proprio detto che avrebbero risposto. E sono lì, impacciati anche, tessere che faticano a entrare in un contenitore arrugginito. A guardarli ora, qualcuno persino malfermo più di lui, a Pietro appaiono come anime sperse, relitti che devono aver fallito più di un porto. Abiti banali, qualche barba mal curata, e poca allegria. Basta osservarli. E Pietro li osserva quasi fossero già consegnati a (più ancora che restituiti da) un'immagine sfocata, come quelle foto di un tempo, sbiadite da un bianco e nero polveroso che stinge sul grigio spento. O forse sono i suoi occhi che ormai sfarfallano, dovrebbe farsi visitare; è straordinario come da un po' si ostinino a selezionare solo toni sfumati, con le ombre che progressivamente conquistano anche il centro dell'immagine. Non li facevo così vecchi, lui se lo dice a bassa voce, tra sé e sé, ma senza pieghe di sentimento, solo una constatazione. Anche se era la cosa più facile da aspettarsi. A misurare il tempo uno non ci bada mai, se non gli capita di doversi confrontare con qualche altro che viene dal suo passato, e così si accorge all'improvviso degli anni che sono volati via dall'indifferenza con cui ora gli sbattono in faccia quei loro profili color seppia e la ragnatela delle rughe che paiono fossati. Anche io sono ridotto così? Se lo chiede di sfuggita e non aspetta la risposta. Se uno è abituato a non vedersi, è facile che non faccia caso ai propri cambiamenti. Quando gli capita, il paragone lo fa solo con l'ultima volta che la sua figura è finita in uno specchio, ma in genere il lasso di tempo non è mai così grande da segnare una vera discontinuità. Ora gli passa un'ombra in testa, succede alla luce quando una nuvola si intromette, ma poi la percezione del buio a lui svanisce quasi subito. La vecchiaia ha questo di buono, che non trattiene. Angelo, intanto, si è messo lì da una parte; fiuta. Lui era già così allora, Pietro lo ha sempre saputo; sarebbe invecchiato con l'aria di chi non si fida di nessuno, avendo il mondo in gran dispetto. Ha la faccia ingrugnata come uno che sia costretto di malavoglia ad affrontare una situazione che lo infastidisce. Non era tra quelle previste e lui è sempre stato uno sintonizzato sugli interessi suoi, che erano poi il partito, la rivoluzione e poco altro. Forse, ho solo sbagliato a insistere. Perché tornare a cercarli? Resuscitare i ricordi è peggio che voler far rivivere i cadaveri. Rischi di sollevare solo odori che non ti piaceranno. Ancora insicuro, perennemente in debito col mondo, Pietro. Una vita a inseguire quello che gli sarebbe piaciuto e che sfuggiva sempre sul più bello. Ed è probabile sia per questo che ha voluto rivederli tutti, prima che anche la possibilità remota venisse a mancare per via della fine inevitabile. Rintracciarli non è stato semplice, dispersi chissà dove, difficile anche sapere se fossero ancora tutti vivi. Adesso gli torna in mente che in altri tempi bastava un fischio sotto casa. Abitavano quasi tutti all'Africano, allora, e le birre erano proprio lì, all'angolo. Non c'era bisogno di andare lontano. «Romolo, stasera si va per femmine, non tirare fuori le solite scuse.» Non servivano grandi discorsi, le alternative non erano molte in quegli anni e poi le voglie, che pure cominciavano a crescere, dovevano fare i conti con una realtà che ancora non le comprendeva. Così ci si sfogava immaginando e dandoci giù con le parole. «Tu hai solo quello in testa da un po', vecchio porco. Prova a chiedere alle compagne, se hai il coraggio.» «Ma in sezione sono tutte così intellettuali, dai, è come andare a ripetizione. Non c'è modo di tirarsi su lo spirito; se va bene ti parlano dell'ultimo fondo di "Rinascita".» La verità è che allora non c'era molto altro per rallegrarsi. Le donne, certo, che finalmente era arrivata la stagione in cui si poteva sperare in qualcosa, e la Peroni sempre tiepida del vecchio Incalza, che Dio non gli perdoni per l'eternità la sua tirchieria. Forse era solo l'effetto dell'aria, che in quegli anni si stava increspando di brutto e sembrava promettere temporali mai visti. Con l'attesa che superava la paura. «Te le ricordi, Angelo, le prime occupazioni?» Pietro ci stava provando a trovare il filo di un discorso. | << | < | > | >> |Pagina 51La passione di Romolo per la poesia veniva da lontano, alimentata dai suoi studi letterari e da una visione romantica dei rapporti. In lui il modo di relazionarsi con gli altri aveva una caratteristica rara: il gusto di dire le cose dritte, sia di approvazione sia di dissenso, ma sempre sorridendo all'interlocutore e senza cattiveria o seconde intenzioni.Per questo gli amici restavano amici e anche quelli che la pensavano diversamente lo rispettavano. Nessuno avrebbe pensato che coltivasse retropensieri, ma immaginazioni poetiche sì. In tal senso si poteva dire fosse più affine a Pietro, per la lunga comunanza scolastica e di quartiere, e poi anche a Lorenzo, con cui condivideva un certo disincanto emotivo per la quotidianità, così da non farsi intrappolare troppo dalle suggestioni forzate che i tempi imprimevano alle loro vite. Forse è per questo che la sua tenuta sui tempi lunghi gli aveva consentito di passare indenne i fuochi spesso fatui di quell'anno che resterà nella storia come spartiacque, e di continuare ad avere una storia pubblica anche quando le vite degli altri compagni avevano preso un andamento discendente. Per qualche tempo, e per qualcuno, fu Romolo il custode della «linea», capace di orientare le scelte e in grado di fornire l'esempio. Il che fu determinante quando, negli anni Settanta, si entrò in una fase di confusione violenta. I pezzi che si erano resi autonomi da quel flusso magmatico dei primi movimenti tutti ideologia, persino ingenua, ed esaltazione da libertà improvvisa, con le emozioni cavalcate a pelo, finirono per connotarsi nella loro dimensione più elementare: controdipendenza politica, avversione reciproca fino ai tentativi di annientamento dell'avversario, propensione ad assumere una leadership come avanguardia senza radici ascrivibili a un consenso ragionato. Con la benedizione più o meno esplicita di molti padri nobili si era entrati nella cultura del «nessun dio», né a destra né a sinistra, e la voglia un po' gaglioffa di segnare primati che nella testa dei protagonisti dovevano essere eroici e ultimativi. Finì nel sangue, ma come tutte le rivoluzioni senza anima, produsse solo disamore e un lungo strascico di lutti, privati di ogni senso condivisibile. In attesa di vedere come sarebbe stato possibile uscire dalla trappola, i nostri sei, protagonisti di percorsi assai meno esaltati, avevano cercato di non perdere le ragioni che li avevano cementati nella loro amicizia giovanile. La distanza dai nuovi modelli che stava connotando lo sviluppo della lotta tra fazioni e spezzoni di istituzioni li aveva allontanati dalla mischia, portandoli a vicende minori, più sociali che politiche. L'università li aveva poi instradati su percorsi diversi, alcuni addirittura in altre città, e gli scambi a poco a poco si erano rallentati, col risultato di comunicazioni che riguardavano per lo più le condizioni personali piuttosto che riferimenti alle comuni relazioni di un tempo. Di quella fase si ricordano però alcuni episodi che testimoniano ancora la qualità del loro impegno sociale e della funzione di supporto a certe evoluzioni politiche che qualcuno di loro riuscì a conservare.
Resta memorabile, per esempio, il giorno della laurea di Romolo.
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