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| << | < | > | >> |IndicePrefazione XV PARTE PRIMA LA POLITICA ECONOMICA E I SUOI OBIETTIVI 1 Capitolo 1 La politica economica e il conflitto 3 1.1 Introduzione 3 1.2 I fini di un ente collettivo 3 1.3 Il perseguimento dei fini 5 1.4 Il risultato dell'azione della politica economica 5 1.5 I soggetti della politica economica 6 Capitolo 2 La teoria normativa della politica economica 11 2.1 Introduzione 11 2.2 Caratteristiche di un modello 12 2.3 Obiettivi e strumenti 14 2.4 Una formalizzazione del modello descrittivo di economia politica 15 2.5 Gli obiettivi fissi nel modello formale di economia politica 16 2.6 L'obiettivo flessibile 18 2.7 La critica di Lucas 20 2.8 Conclusione 21 Capitolo 3 I fondamenti dell'economia del benessere 25 3.1 Introduzione 25 3.2 Le impostazioni individualiste della vecchia economia del benessere 27 3.3 Il criterio paretiano 30 3.4 Il primo teorema fondamentale dell'economia del benessere 31 3.5 Il secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere 33 Capitolo 4 L'individuazione degli obiettivi di politica economica secondo i nuovi indirizzi dell'economia del benessere 37 4.1 Introduzione 37 4.2 La nuova economia del benessere 38 4.3 La teoria delle votazioni: un cenno 40 4.4 La scuola della political economy 43 Capitolo 5 Gli obiettivi micro e macroeconomici 47 5.1 Introduzione 47 5.2 Il "fallimento" microeconomico del meccanismo di mercato 47 5.3 La misura dell'efficienza su un mercato singolo 49 5.4 Approccio di equilibrio generale e approccio di equilibrio parziale: il teorema del "second-best" di Lipsey-Lancaster 53 5.5 Correzione dell'esito di mercato per motivi di ideologia esterna 54 5.6 Efficienza statica ed efficienza dinamica 56 5.7 La redistribuzione delle risorse 57 5.8 Gli obiettivi macroeconomici e le loro relazioni con gli interventi microeconomici 58 PARTE SECONDA LE POLITICHE MICROECONOMICHE 63 Capitolo 6 Fallimenti microeconomici del mercato: il potere di mercato 65 6.1 Introduzione 65 6.2 L'inefficienza allocativa del monopolio 65 6.3 Perché esistono i monopoli? 68 6.4 Il monopolio è inefficiente anche in senso dinamico? 68 6.5 Le vie d'uscita dall'inefficienza statica di monopolio 70 6.6 Altri casi di potere di mercato 74 6.7 Il cartello 76 6.8 Che cosa vuol dire e come si misura la "concorrenzialità" 77 Capitolo 7 Le politiche antitrust 81 7.1 Introduzione 81 7.2 L'intervento antitrust in USA e in Europa: due diverse logiche a confronto 82 7.3 L'esperienza americana 84 7.4 Le esperienze europea e italiana 85 7.5 Le Autorità di settore 87 7.6 Liberalizzazione e privatizzazione 88 Capitolo 8 Le esternalità 91 8.1 Introduzione 91 8.2 L'esternalità determina l'inefficienza sociale delle scelte individualmente ottimali 93 8.3 Correzione dell'effetto esterno tramite l'imposizione di vincoli sulle quantità 96 8.4 Correzione dell'esternalità tramite tasse o sussidi 97 8.5 La creazione di mercati per lo scambio di effetti esterni: il teorema di Coase 99 8.6 Le pseudo-esternalità 103 Capitolo 9 L'interdipendenza strategica come causa di fallimento del sistema di mercato 105 9.1 Introduzione 105 9.2 Tassonomia dei giochi 106 9.3 Strategie dominanti e dominate 109 9.4 Il concetto di equilibrio di Nash 109 9.5 Alcuni esempi di giochi 110 9.6 Il ruolo della politica economica in presenza di interdipendenza strategica tra gli agenti privati 118 9.7 Una riflessione conclusiva 121 Capitolo 10 I beni pubblici 123 10.1 Introduzione 123 10.2 Definizione di bene pubblico e tassonomia dei beni123 10.3 L'inefficienza allocativi dei beni pubblici 126 10.4 L'impostazione di Lindhal 130 10.5 Meccanismi di rivelazione delle preferenze individuali 132 10.6 I common goods 132 Capitolo 11 I beni di merito e di demerito e le asimmetrie informative 137 11.1 Introduzione 137 11.2 Beni di merito e di demerito 137 11.3 Le asimmetrie informative: presentazione e classificazione 139 11.4 La selezione avversa 140 11.5 L'azzardo morale 142 10.6 Soluzioni di politica economica ai fallimenti del mercato dovuti ad asimmetria informativa 143 PARTE TERZA LE POLITICHE REDISTRIBUTIVE 147 Capitolo 12 Distribuzione del reddito e benessere sociale 149 12.1 Introduzione 149 12.2 La distribuzione personale del reddito: misure della equità distibutiva 150 12.3 Concetti e indicatori di povertà 155 12.4 Il legame teorico fra distribuzione del reddito e benessere sociale 158 12.5 La distribuzione funzionale del reddito 159 12.6 Le conseguenze economiche della distribuzione del reddito 161 12.7 Le politiche economiche di redistribuzione 163 Capitolo 13 Il welfare state 167 13.1 Introduzione 167 13.2 Origini storiche del welfare state 167 13.3 La struttura della spesa per lo stato sociale in Italia ed Europa 169 13.4 La previdenza 170 13.5 L'assistenza 178 13.6 La sanità 181 13.7 Una breve conclusione 183 Capitolo 14 Le politiche industriali 185 14.1 Introduzione 185 14.2 La composizione strutturale di un'economia 185 14.3 Le politiche industriali in Italia e nei Paesi europei 188 14.4 Sistemi di imprese e politiche industriali 193 Capitolo 15 Le politiche regionali 199 15.1 Introduzione 199 15.2 Gli squilibri regionali e le teorie economiche 200 15.3 La misurazione delle divergenze regionali 202 15.4 L'esperienza storica delle politiche regionali italiane 204 15.5 Le "nuove" politiche regionali e l'intervento dell'Unione Europea 205 PARTE QUARTA LE POLITICHE MACROECONOMICHE 209 Capitolo 16 I regimi di disequilibrio macroeconomico 211 16.1 Introduzione 211 16.2 I quattro disequilibri possibili nel modello macroeconomico 2X2 212 16.3 Ancora su disoccupazione classica e disoccupazione keynesiana 216 16.4 Il disequilibrio keynesiano come equilibrio stabile di sottoccupazione: una precisazione terminologica217 16.5 Una semplice modellizzazione del sistema macroeconomico, come un sistema di tre mercati 218 Capitolo 17 Il livello del reddito aggregato nei modelli di base per l'analisi macroeconomica 221 17.1 Introduzione 221 17.2 Il modello a prezzi fissi con tasso d'interesse esogeno 221 17.3 Il modello a prezzi fissi con tasso d'interesse endogeno 232 17.4 Il modello con prezzi e quantità endogeni 251 Capitolo 18 La politica fiscale 261 18.1 Introduzione 261 18.2 Definizioni istituzionali 261 18.3 Il modus operandi della politica fiscale in Italia264 18.4 Alcuni effetti macroeconomici della politica fiscale 266 18.5 Effetti macroeconomici dell'imposizione progressiva 267 18.6 Effetti delle diverse modalità del finanziamento della spesa pubblica 269 18.7 Problemi di gestione del debito pubblico 276 Capitolo 19 La moneta e la politica monetaria 283 19.1 Introduzione 283 19.2 Definizione degli aggregati monetari 283 19.3 La creazione della base monetaria 286 19.4 I moltiplicatori della base monetaria 289 19.5 Strumenti e obiettivi della politica monetaria: la teoria tradizionale del modus operandi della politica monetaria 293 19.6 La teoria e la pratica dell'inflation targeting 297 Capitolo 20 L'inflazione e le politiche anti-inflazionistiche 299 20.1 Introduzione 299 20.2 I costi dell'inflazione 300 20.3 Le politiche di controllo dell'inflazione 301 20.4 La politica dei redditi 311 20.5 I vantaggi dell'inflazione e la tragedia della deflazione 313 Capitolo 21 Le alterne fortune della curva di Phillips 317 21.1 Introduzione 317 21.2 La spiegazione teorica di Lipsey 320 21.3 La critica di Friedman 322 21.4 La curva di Phillips con aspettative razionali 327 21.5 Curva di Phillips e curva di offerta aggregata 328 21.6 Il declino empirico della curva di Phillips 329 21.7 Digressione: le politiche del lavoro 330 Capitolo 22 Politiche macroeconomiche in presenza di interdipendenza strategica fra Governo e privati 337 22.1 Introduzione 337 22.2 La versione di base del modello di Barro e Gordon 338 22.3 Il conflitto tra ottimalità e coerenza 342 22.4 Attivismo contro "mani-legate" nel modello di Barro e Gordon 343 22.5 Il modello di Barro e Gordon in presenza di incertezza nella struttura economica 345 22.6 Il modello di Barro e Gordon in presenza di informazione incompleta sulle preferenze del policy-maker 346 Capitolo 23 La bilancia dei pagamenti e i tassi di cambio 351 23.1 Introduzione 351 23.2 La bilancia dei pagamenti 352 23.3 I tassi di cambio 360 23.4 Effetti delle modificazioni del tasso di cambio 369 23.5 I meccanismi economici di riequilibrio automatico della bilancia dei pagamenti 371 23.6 Le politiche attive di riequilibrio dei conti con l'estero: la manovra del cambio e le sue limitazioni 374 23.7 La teoria della bilancia dei pagamenti e la curva BP 378 Capitolo 24 Gli effetti delle politiche macroeconomiche in economia aperta: il modello IS-LM-BP 385 24.1 Introduzione 385 24.2 Gli effetti delle politiche economiche in un'economia aperta con cambi flessibili 387 24.3 Gli effetti delle politiche economiche in un'economia aperta con cambi fissi 391 24.4 Valutazione degli effetti delle politiche economiche in casi particolari 394 24.5 Tassi di cambio flessibili e fissi: una valutazione complessiva 397 Capitolo 25 Il problema dell'assegnazione degli strumenti agli obiettivi 401 25.1 Introduzione 401 25.2 Alcuni casi un po' speciali 402 25.3 Il caso generale 404 25.4 Un esempio di assegnazione: perseguire il pieno impiego e il pareggio dei conti con l'estero, utilizzando come strumenti la spesa pubblica e la base monetaria 405 25.5 L'interdipendenza strategica fra diversi centri decisionali della politica economica 411 25.6 Conclusioni 412 Capitolo 26 Le politiche di crescita e di sviluppo 415 26.1 Introduzione 415 26.2 Una panoramica di recenti modelli di crescita e sviluppo 416 26.3 Il modello classico di Lewis: teoria e politiche 417 26.4 Il modello keynesiano di Harrod-Domar: teoria e politiche 420 26.5 Un cenno alla teoria post-keynesiana della crescita: il modello di Kaldor 424 26.6 La teoria neoclassica della crescita: il modello di Solow 425 26.7 Il modello di Solow e la questione della convergenza: una digressione 430 26.8 Aspetti generali della nuova teoria della crescita 432 26.9 Le politiche suggerite dalla teoria della crescita endogena 434 Capitolo 27 La politica economica nell'era della globalizzazione 437 27.1 Introduzione 437 27.2 La definizione di globalizzazione 438 27.3 Sulle cause della globalizzazione 439 27.4 Gli effetti della globalizzazione 440 27.5 Una riflessione conclusiva sulla politica economica nel mondo globalizzato 444 Bibliografia 447 Indice analitico 455 |
| << | < | > | >> |Pagina XVPrefazioneQuesto manuale vuole introdurre all'analisi di temi rilevanti nell'azione della politica economica. Su quale debba essere il contenuto di un corso introduttivo di politica economica non vi è unanimità di vedute nel mondo accademico. Taluni intendono la politica economica come un insegnamento di economia applicata, altri come un insegnamento di macroeconomia avanzata, altri ancora come un insegnamento di teoria delle scelte sociali, e così via. Questo è dovuto anche al fatto che l'interesse per i temi economici è cresciuto negli ultimi decenni e, mentre soltanto alcuni anni fa i curricula di studi economici contenevano di norma solamente tre o quattro insegnamenti (microeconomia, macroeconomia, politica economica e scienza delle finanze), negli anni più vicini a noi sono state inserite materie più specialistiche (economia industriale, economia internazionale, economia dello sviluppo, economia monetaria ecc.), che hanno "sottratto" argomenti che tradizionalmente venivano affrontati dai corsi istituzionali di politica economica. In talune sedi, la politica economica – come materia a sé stante – è persino scomparsa dall'ordinamento di studio. La recente riforma degli ordinamenti universitari sembra avere dato nuovi spazi per la disciplina di politica economica: infatti, un'introduzione ai temi (e più specificamente agli obiettivi e agli strumenti) della politica economica sembra essere – e giustamente – un'esigenza avvertita in molti corsi di studio, tanto nei percorsi in economia politica, economia aziendale, economia applicata, quanto in altri percorsi, più applicati e professionalizzanti, per i quali la conoscenza dei principi di politica economica è comunque rilevante. Inoltre, la politica economica compare anche in corsi di studio di ambito giuridico, politologico, linguistico ecc. Questo manuale viene scritto appunto per colmare un vuoto di offerta, che – sulla base della mia specifica esperienza didattica – riguarda l'insegnamento di corsi di politica economica rivolto a chi possiede limitate conoscenze di base di micro e di macroeconomia. Pertanto, nella presentazione dei diversi argomenti, questo testo ripropone una trattazione (essenziale ma rigorosa) degli elementi di base della teoria economica, e successivamente propone ciò che è peculiare della disciplina della politica economica, vale a dire la trattazione degli aspetti istituzionali e l'utilizzo a fini normativi dei modelli teorici. Ho scelto di affrontare sia temi di natura microeconomica, sia temi di natura macroeconomica, e ho cercato di evitare fratture troppo brusche tra i due ambiti. Ritengo che ognuno di noi, nella propria esperienza quotidiana, abbia modo di assistere all'adozione (e alle conseguenze) di interventi di politica econonica, sia di natura micro sia di natura macroeconomica. Riconoscere i tratti comuni di questi interventi, nonché le loro intersezioni e le loro influenze è importante per comprendere il ruolo della politica economica nel mondo attuale. Ho scelto di proporre l'analisi di temi tradizionali, in modo abbastanza tradizionale. D'altra parte, le riforme degli ordinamenti scolastici e universitari fanno sì che l'uditorio di un corso di politica economica oggi sia spesso costituiro da persone che ignorano temi, modelli, e anche strumenti di analisi, che erano invece basilari (e scontati) per studenti dei corsi di laurea dei precedenti ordinamenti. Ho scelto di dare per scontate le conoscenze matematiche che generalmente vengono fornite in un corso di matematica introduttivo all'università; tuttavia, i passaggi analitici sono sempre sviluppati in modo quasi pedissequo, onde evitare che gli studenti più svogliati possano anche solo pensare di addurre la non conoscenza della matematica per trovare scuse alla pigrizia mentale. In sostanza, ritengo che il livello di difficoltà, logica e analitica, di questo testo sia adeguato agli studenti dei corsi di laurea di primo livello, che affrontano il corso di politica economica avendo in precedenza affrontato un solo corso (o tutt'al più due corsi) di argomento economico. Ho scelto di proporre il conflitto come filo conduttore del testo. L'esplicita individuazione dei conflitti esistenti è basilare, a mio giudizio, per comprendere l'esatto ruolo della politica economica nel mondo attuale. L'obiettivo di fondo del testo è rendere i lettori consapevoli del fatto che l'azione della politica economica non è mai neutrale nella soluzione dei conflitti. La maturazione, non solo scientifica, ma anche civica, degli studenti è il fine ultimo di tutta l'attività di formazione. | << | < | > | >> |Pagina 31
La politica economica e il conflitto
1.1 Introduzione Secondo la classica definizione data da Lionel Robbins nel 1935, la politica economica è "il corpo di principi dell'azione o dell'inazione del Governo rispetto all'attività economica". Federico Caffè (1978) ha proposto la seguente definizione di politica economica: "quella disciplina che cerca le regole di condotta tendenti a influire sui fenomeni economici in vista di orientarli in un senso desiderato". Volendo proporre una definizione più puntuale rispetto a quanto ci apprestiamo a esaminare in questo corso, possiamo avanzare la seguente: la politica economica è quella parte della scienza economica che studia una comunità, riguardo all'individuazione dei fini, al modo di perseguire tali fini, e all'esito dell'eventuale intervento. Per comunità, o "ente collettivo", si intende un aggregato di individui, con preferenze (e quindi obiettivi) eterogenei. In questo primo capitolo ci soffermeremo sui tre ingredienti sopra menzionati, della politica economica, che costituiscono anche le tre parti concettuali nelle quali si articola la disciplina: l'individuazione dei fini di un corpo sociale complesso, le modalità di raggiungimento di tali fini (e, in questo ambito, la scelta tra l'azione e l'inazione del Governo) e l'effetto dell'eventuale azione.
Segnaleremo come all'interno di ognuna di queste parti, e fra di esse, vi
siano motivi di
conflitto.
Il filo conduttore di queste lezioni è costituito dall'individuazione esplicita
dei conflitti. Più in generale, l'organizzazione economica che ogni società si
dà rappresenta un insieme di regole per limitare e governare le occasioni di
conflitto. La coscienza dell'esistenza del conflitto è un elemento chiave per
comprendere il funzionamento dell'agire economico e il ruolo della politica
economica.
1.2 I fini di un ente collettivo Che cosa persegue un ente collettivo? Qual è la sua funzione obiettivo? L'ente collettivo è composto da diversi individui con obiettivi eterogenei e quindi potenziamente conflittuali. È del tutto fisiologico che in ogni ente costituito da più soggetti sia presente un conflitto tra gli obiettivi individuali dei soggetti che lo compongono. La teoria delle scelte collettive studia questo punto, e cerca di stabilire come si individuano obiettivi di un corpo complesso a partire dagli obiettivi delle singole unità costituenti. Pertanto, la teoria delle scelte collettive costituisce una parte - la prima - della politica economica. Soltanto su alcuni fini che l'ente può assumere come propri, ci può essere una convergenza non problematica di tutti gli individui. Un obiettivo di massima potrebbe essere quello di evitare le situazioni inefficienti in senso paretiano. Su questa finalità, tutti i soggetti dovrebbero essere d'accordo. Già però se proponessimo una diversa accezione di efficienza (come può essere l'efficienza statica, o l'efficienza dinamica) potrebbero esservi dei soggetti in disaccordo sul raggiungimento di tale obiettivo. In questo ambito - il conseguimento di efficienza - rientrano gli interventi che mirano a correggere gli esiti del mercato non efficienti (si pensi, per esempio, ai casi di monopolio, esternalità, oligopolio, beni pubblici ecc.). Chi ha l'onere di rappresentare un ente composto da più unita costituenti, non sempre però riesce ad aggregare e rappresentarne - in modo appropriato - gli obiettivi, e talvolta anzi aggrega in modo non-neutrale gli obiettivi delle singole unità o addirittura persegue prioritariamente obiettivi propri. Ci può quindi essere un conflitto tra gli obiettivi individuali e l'obiettivo aggregato dell'ente collettivo. Il conflitto sorge necessariamente, per esempio, tra obiettivi politici di natura redistributiva (la redistribuzione personale del reddito, ma anche la redistribuzione geografica, settoriale, sociale ecc.) e l'interesse degli specifici soggetti danneggiati dalla redistribuzione. Generalmente l'ente collettivo si assegna una pluralità di obiettivi. Nulla, tuttavia, assicura che non possano sorgere conflitti tra gli obiettivi dicharati. È bene da subito sottolineare che il conflitto tra gli obiettivi può riguardare anche quelli di una singola unità: a livello di studio del comportamento individuale, vi può essere, per esempio, un conflitto tra ragione e sentimento. La teoria assiomatica del consumatore, tuttavia, riesce a eliminare dalla rappresentazione teorica questi eventuali conflitti, imponendo assiomi di razionalità alla struttura di preferenze degli individui. Nell'ambito delle scelte collettive, preoccuparsi che non emerga un conflitto fra gli obiettivi è, al tempo stesso, più difficile e forse meno utile, rispetto a quanto lo sia a livello di singolo individuo. È meno utile, perché, di fatto, sono molte le situazioni in cui enti complessi perseguono fini contraddittori. È più difficile (o comunque più problematico) cercare di evitare che possano essere individuati obiettivi contraddittori, inoltre, perché imporre assiomi di razionalità alle scelte collettive implica necessariamente il non rispettare assiomi relativi ad altri aspetti come, per esempio, la libertà degli individui. La politica economica, pertanto, prima ancora di preoccuparsi di evitare che vengano selezionati obiettivi contraddittori, studia (e deve studiare) la gestione dei conflitti tra gli obiettivi che ci si è assegnati. Il conflitto fra obiettivi è un tipico tema della politica economica. | << | < | > | >> |Pagina 686.3 Perché esistono i monopoli?Perché esistano i monopoli è questione non semplice. Talvolta vi sono motivazioni di natura storica, generalmente rafforzati da interventi di natura legislativa (che determinano la presenza di barriere all'entrata per imprese che vogliano iniziare a produrre su un mercato). Altre volte i motivi sono di natura più squisitamente economica, come quando i comportamenti di un'impresa presente (incumbent) ostacolano e impediscono l'entrata di nuove imprese. Sono precisamente i comportamenti di questa natura che le legislazioni anti-monopolistiche intendono contrastare.
Un caso particolarmente interessante è quello in cui vi siano, sul mercato,
condizioni di
monopolio naturale,
cioè, la presenza del monopolio non da addebitare al comportamento dell'impresa,
ma alla configurazione oggettiva del mercato (cioè alla dimensione della domanda
e dei costi di produzione) che rende impossibile che più di un'impresa possa
ottenere profitti positivi. In modo più formale, si definisce monopolio naturale
quella situazione nella quale, in corrispondenza della quantità che eguaglia il
prezzo al costo marginale, il profitto d'impresa è negativo. Ciò succede,
ovviamente, quando nel punto di perfetta concorrenza, il prezzo (pari al
costo marginale) è inferiore al costo medio. Intuitivamente, ciò accade quando
i costi fissi per ciascuna impresa che operi in quel mercato, sono
particolarmente elevati e quindi la funzione di costo è sub-additiva (ossia, il
costo totale di produzione per ogni possibile quantità è minore se la quantità è
prodotta da una sola impresa, rispetto al caso in cui la medesima produzione
fosse fra più imprese). Riprenderemo il monopolio naturale nel Paragrafo 6.5.
6.4 II monopolio è inefficiente anche in senso dinamico? Sul fatto che il monopolio determini inefficienza allocativa, non vi sono dubbi. Tuttavia, c'è chi ritiene che il monopolio, pur deleterio in situazioni "statiche", possa essere efficiente quando si passi a valutare l'economia in termini dinamici. A tale proposito ricordiamo la nozione di efficienza dinamica. Pur non essendovi un'unica accezione, in termini di prima approssimazione, possiamo parlare di una situazione efficiente in senso dinamico quando non è possibile aumentare l'indicatore di benessere di tutte le generazioni, presenti e future. In questo senso, il concetto di efficienza dinamica altro non è che un'estensione del concetto di Pareto-efficienza, nel caso in cui i molteplici soggetti presenti facciano parte di generazioni che vivono in periodi diversi. Ora, vi è chi ritiene che non sia vero che il passaggio dal monopolio alla perfetta concorrenza comporta benefici per tutte le generazioni, attuali e future e ritiene, al contrario, che le generazioni attuali possano esserne beneficiate, ma che le generazioni future non lo saranno, in quanto il monopolio consente una più forte crescita dell'economia. In altre parole, la perfetta concorrenza consente che le generazioni attuali stiano meglio rispetto a una situazione di monopolio, ma che le generazioni future potrebbero stare peggio, in quanto la crescita economica associata a regimi di monopolio è più forte rispetto alla crescita economica associata a situazioni di concorrenza perfetta. Chi ha suggerito per primo questa eventualità è J. Schumpeter, nel 1942. Illustriamo i motivi per i quali Schumpeter ritiene che il monopolio possa garantire una crescita economica più rapida rispetto alla perfetta concorrenza. Alla base del processo di crescita vi è, nella visione schumpeteriana, l'innovazione, che richiede investimenti rischiosi da parte delle imprese. Il finanziamento degli investimenti in ricerca è costoso e gli intermediari finanziari sono piuttosto restii a finanziare progetti il cui rendimento atteso è soggetto a grande rischio. Per questo motivo, il principale canale di finanziamento degli investimenti in ricerca è l'autofinanziamento. Ora, poiché le imprese in monopolio conseguono profitti più elevati rispetto a quelle in perfetta concorrenza, è ragionevole ritenere che possano impiegare risorse maggiori per finanziare la ricerca, e assicurino quindi maggiori scoperte e maggiori innovazioni, con ciò garantendo una crescita più veloce. Inoltre, ad avviso di Schumpeter, è proprio l'ambizione di poter costruire un monopolio e di godere delle rendite monopolistiche che spinge le imprese a fare ricerca. Se le imprese sapessero che le rendite monopolistiche sono brevi, non intraprenderebbero gli sforzi in ricerca e sviluppo e non si innescherebbe il processo di crescita. La presenza di monopoli, perciò, è benefica per la crescita di lungo periodo, sia perché spinge le imprese a investire in ricerca, sia perché consente alle imprese di poter contare su adeguate risorse per finanziare la ricerca. Alle idee di Schumpeter si è soliti contrapporre l'opposta visione di Arrow, che, in un articolo del 1962, contestò l'idea che i monopoli potessero essere efficienti in senso dinamico e cercò di argomentare che la concorrenza non solo garantisce l'efficienza statica, ma garantisce anche un tasso di crescita economica più elevato rispetto a quello associato a situazioni di monopolio. L'idea di base di Arrow può essere sintetizzata in due semplici proposizioni: chi gode di rendite monopolistiche non ha incentivo a compiere ricerca e sviluppo (e quindi non genera crescita); inoltre, i monopoli sono tipicamente associati a situazioni nelle quali le informazioni sulla tecnologia sono protette da brevetti e quindi circolano in modo difficoltoso, rallentando il processo di crescita che invece si basa sulla possibilità di usare, conoscere e migliorare le tecnologie disponibili. Queste opposte posizioni hanno dato vita a un lungo dibattito (noto come il "conflitto Schumpeter contro Arrow"), nel quale il problema centrale è divenuto quello di stabilire se si effettuino maggiori sforzi in ricerca e sviluppo (cioè se si investa di più) in quei settori in cui prevalgono situazioni di monopolio (come riteneva Schumpeter) oppure in quelli dove prevalgono condizioni concorrenziali (come riteneva Arrow). | << | < | > | >> |Pagina 41526
Le politiche di crescita e di sviluppo
26.1 Introduzione Anche se per molti aspetti la distinzione tra "teoria della crescita" e "teoria dello sviluppo" è da ritenersi superata, per consuetudine definiamo questi due concetti separatamente. Con il concetto "crescita economica" intendiamo indicare quel fenomeno per il quale i redditi pro-capite aumentano nel tempo. Alla base dell'aumento del reddito pro-capite risiedono molte e diverse cause. La spiegazione del processo di crescita economica è uno dei temi centrali nel pensiero economico, fin dalle sue origini; le spiegazioni teoriche offerte per questo fenomeno sono molteplici e spesso tra loro conflittuali. Con il concetto "sviluppo economico" intendiamo riferirci a un insieme di fenomeni dei quali la crescita è soltanto una parte. Più specificamente, con il termine "sviluppo" intendiamo riferirci a tutti quei fenomeni economici, sociali e culturali che si accompagnano alla crescita del reddito pro-capite. Pertanto, la crescita del reddito pro-capite è soltanto il primo (benché essenziale) ingrediente dello sviluppo economico. Come secondo ingrediente possiamo indicare il complesso di mutamenti strutturali dell'economia, di quei cambiamenti, cioè, che avvengono nella composizione della struttura del sistema economico e che si accompagnano alla crescita: per esempio, il peso via via minore dell'agricoltura e il peso via via crescente dell'industria, oppure (nell'esperienza più recente dei Paesi industrializzati) il peso via via minore dell'industria in favore dei servizi. Mentre la teoria della crescita (intesa in senso stretto) non si preoccupa di dare conto dei mutamenti strutturali, tali mutamenti rivestono un'importanza centrale nelle teorie dello sviluppo. Un terzo ingrediente dello sviluppo è rappresentato dalla riduzione della povertà (sia in senso assoluto, sia in senso relativo). Infatti, al processo di crescita si accompagnano anche mutazioni nella distribuzione del reddito e quindi nella diffusione (sperabilmente in diminuzione) dei fenomeni di povertà. Più in generale, rappresentano componenti del processo di sviluppo diversi cambiamenti in svariati ambiti, che contribuiscono a determinare un miglioramento delle condizioni di benessere individuale: le condizioni sanitarie e l'aspettativa di vita; i comportamenti relativi all'offerta di lavoro (in particolare, l'aumento del tasso di partecipazione lavorativa); le decisioni di procreazione; le decisioni di istruzione e formazione; l'evoluzione delle istituzioni. Tutti questi aspetti, tralasciati per semplicità dalle teorie della crescita (intesa in senso stretto), rappresentano ingredienti fondamentali quando si parla di sviluppo, e argomenti centrali nelle teorie dello sviluppo. Da un punto di vista teorico, sarebbe possibile registrare un processo di crescita senza che vi sia sviluppo, cioè è immaginabile che abbiano luogo episodi di crescita del reddito pro-capite che però non siano accompagnati da altri fenomeni sociali, economici e culturali. Di fatto, questa è più un'ipotesi accademica, che una regolarità osservabile nella realtà: nel mondo reale, infatti, fenomeni di crescita prolungata si sono sempre accompagnati a mutazioni profonde nelle sfere economiche, sociali e politiche. Inoltre, anche se alcuni autori segnalano che la crescita economica potrebbe accompagnarsi a un peggioramento delle condizioni di vita di alcuni strati di popolazione (e quindi a un processo opposto allo sviluppo), questi evenienza sembra essere relegata a episodiche eccezioni. Circa l'evoluzione nel pensiero economico, vale la pena segnalare come il tema della crescita e dello sviluppo sia sempre stato al centro del discorso economico.
In questa sede siamo interessati soprattutto a valutare quali siano stati
gli orientamenti in materia di politiche economiche atte a favorire la crescita
e lo sviluppo economico. Tuttavia, poiché le teorie avanzate per spiegare i
suddetti fenomeni sono state molteplici, e spesso in
conflitto
tra loro, e le prescrizioni di politica economica, coerentemente, hanno
presentato numerosi punti di conflittualità, preferiamo presentare una rassegna
di teorie ripercorrendo un sentiero ordinato cronologicamente.
Nel fare ciò, limiteremo la nostra attenzione a quanto è stato dibattuto dal
secondo dopoguerra a oggi.
26.2 Una panoramica di recenti modelli di crescita e sviluppo Nel seguito del presente capitolo verranno illustrati, nell'ordine: 1) Il modello di Lewis (1954): è un modello detto "classico", poiché recupera tutti gli ingredienti presenti nella visione classica (Smith, Ricardo, Marx). Sulla base di questi ingredienti, si propone un'interpretazione del processo di sviluppo e una "ricetta" di politica economica, che ha avuto importanza notevolissima nell'esperienza storica di molte aree in via di sviluppo, nei decenni successivi. 2) Il modello keynesiano, rappresentato dagli articoli di Harrod (1939) e di Domar (1946); a scopo didattico si parla di modello di Harrod-Domar: vi si propone una versione di lungo periodo della teoria keynesiana. Avremo modo di notare come il modello di Harrod-Domar dia luogo a una implicazione del tutto coerente con la visione keynesiana, ma problematica per altri aspetti: il punto centrale, infatti, è rappresentato dal fatto che non vi è alcun motivo per cui il tasso di crescita che garantisce l'equilibrio macroeconomico debba coincidere con quello che garantisce il pieno impiego. Così come nel breve periodo vi può essere equilibrio macroeconomico di sottoccupazione, anche nel lungo periodo la crescita (di equilibrio macroeconomico) può non assicurare il pieno impiego, e non vi è alcun meccanismo automatico che porti questi due tassi a eguagliarsi. 3) Il modello neoclassico di Solow (1956): mentre la funzione di produzione nel modello di Harrod-Domar è a coefficienti costanti, Solow ipotizza che capitale e lavoro siano sostituibili. Da questa ipotesi derivano risultati squisitamente neo-classici: si recupera la stabilità dell'equilibrio di lungo periodo, al quale si converge, a prescindere dall'intervento dell'Autorità di politica economica. Il modello di Solow fornisce predizioni molto precise e rappresenta tuttora un contributo fondamentale nella teoria della crescita e per le prescrizioni di politica economica. Tuttavia presenta anche notevoli elementi di insoddisfazione, per chi debba fare politica economica: infatti, il tasso di crescita della produttività del lavoro risulta essere esogeno, e pertanto non è spiegato all'interno del modello. Di conseguenza, il modello non è in grado di fornire prescrizioni di comportamento utili per chi sia chiamato ad attuare politiche in grado di influenzare il processo di crescita. Questa considerazione ha suggerito la necessità di sviluppare modelli nei quali il tasso di crescita sia spiegato endogenamente.
4) I modelli di crescita endogena (o "nuova teoria della crescita"): sono
modelli che utilizzano strumenti di analisi neoclassici, recuperando però alcune
idee classiche e spiegano, endogenizzandolo, il tasso di crescita economica.
Essi suggeriscono una molteplicità di politiche efficaci nell'influenzare i
tassi di crescita di lungo periodo e godono, attualmente, di ampia popolarità
presso i
policy-maker
di molti Paesi e istituzioni internazionali.
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