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| << | < | > | >> |Pagina 11Melchor è ancora in ufficio, a cuocersi al fuoco lento della propria impazienza di finire il turno di notte, quando squilla il telefono. Č il collega di guardia all'ingresso del commissariato: ci sono due morti alla masseria degli Adell, annuncia. «Quelli delle Gráficas Adell?» domanda Melchor. «Proprio loro» risponde l'agente. «Sai dove abitano?» «Sulla strada per Vitalba dels Arcs, no?» «Esatto.» «Abbiamo qualcuno sul posto?» «Ruiz e Mayol. Hanno appena chiamato.» «Vado subito.» Fino a quel momento, la notte è stata tranquilla come al solito. A quell'ora del mattino in commissariato non rimane più nessuno, e mentre Melchor spegne le luci, chiude l'ufficio e scende le scale deserte infilandosi la giacca, la calma del commissariato è così compatta che gli riporta alla memoria i suoi primi tempi lì, nella Terra Alta, quando aveva ancora una dipendenza dalla baraonda della città e il silenzio della campagna gli impediva di dormire, condannandolo a notti d'insonnia che combatteva a forza di romanzi e di sonniferi. Quel ricordo gli restituisce un'immagine dimenticata: quella dell'uomo che era quattro anni prima, quando era arrivato nella Terra Alta; | << | < | > | >> |Pagina 54Giorni dopo accadde una cosa che fece ricordare a Melchor quello scambio di cortesie. Nel pomeriggio era previsto l'incontro in carcere con uno scrittore; la routine dei detenuti consentiva poche distrazioni, così, per quanto a Melchor non interessassero i libri, come molti suoi compagni partecipò all'evento.Si radunarono nella biblioteca. Lo scrittore comparve in compagnia del direttore del carcere, di un agente di custodia, di diversi assistenti e di una donna. Si sedettero tutti in una fila di sedie pieghevoli, di fronte a varie file uguali occupate dai detenuti; Melchor si sedette nella seconda. Lo scrittore si chiamava Arturo Ventosa e, sebbene avesse più di cinquant'anni, vestiva come un ventenne: maglietta a strisce, jeans tagliati sulle ginocchia e cadenti dietro, scarpe da ginnastica, berretto da baseball con la visiera al contrario. La donna era snella e rossa di capelli, molto più giovane di lui, e indossava un vestito blu attillato e scarpe con i tacchi a spillo. Il direttore fu il primo a prendere la parola. Affermò che era un onore averlo come ospite, disse che si trattava di uno dei più grandi romanzieri spagnoli contemporanei, sottolineò che era un intellettuale impegnato ad affrontare i problemi del suo tempo, «non uno di quelli che vivono nella loro torre d'avorio». Detto ciò, presentò la donna - era professoressa e critica letteraria, disse - e le cedette la parola. La professoressa, che mentre parlava il direttore aveva confabulato con il romanziere, ringraziò, dispiegò dei fogli e cominciò a leggerli. Era una donna attraente, perciò, anche se nessuno capì una parola di quello che disse, tutti i detenuti la ascoltarono con attenzione. Poi parlò il romanziere, che ringraziò il direttore per l'invito e la critica per le sue parole, tentò una battuta che fece ridere soltanto il direttore e la critica e subito dopo dichiarò che ogni scrittore aveva il dovere di solidarizzare con i diseredati e i perseguitati, e che lui era lì per quella ragione. Argomentò che, per lui, uno scrittore era una persona come le altre, né migliore né peggiore, che bisognava essere consapevoli dei limiti della letteratura e bisognava bandire la presunzione narcisistica, petulante e antiquata che avesse qualche utilità, perché in fondo la letteratura non era che un gioco intellettuale, un intrattenimento incapace di insegnare qualcosa a qualcuno o di cambiare qualcosa. Concluse che lui aveva molto di più da imparare da loro di quanto loro avessero da imparare da lui. «Anche per questo sono venuto qui» aggiunse. «Sono venuto a imparare, non a insegnare. Ad ascoltare, non a parlare.» Queste parole conclusive stimolarono la curiosità di Melchor, che vi sentì una nota flagrantemente falsa, come quella che aveva sentito tante volte sulla bocca di spacciatori imbroglioni che cercavano di raggirarlo. Accanto al romanziere, la critica letteraria abbozzava un sorriso complice. Melchor spiò di sottecchi i suoi compagni, però non avvertì né perplessità né sarcasmo né reticenza, ma soltanto un mucchio di sguardi annoiati che convergevano sull'espressione di falsa modestia dello scrittore, il quale chiuse il suo discorso con un annuncio: «A voi la parola». Soltanto allora Melchor notò il Francese, che osservava la scena con aria scontrosa, il busto riverso sul suo tavolo da bibliotecario e una guancia schiacciata sulla mano destra. Affacciato appena dietro di lui, un detenuto chiamato Morales si sforzava di attirare lo sguardo della critica letteraria simulando con la mano e la bocca una fellatio. Il direttore tentò di uscire dal pasticcio in cui l'aveva cacciato il romanziere organizzando con l'aiuto degli assistenti un dialogo tra l'ospite e i reclusi. L'improvvisazione fallì, e l'unica cosa che il direttore ottenne fu che i detenuti si fecero scudo della presenza del romanziere per rinnovare in pubblico, con una serie di interventi intrecciati e sconnessi, in mezzo a un putiferio crescente, le proteste sul funzionamento del carcere e le lamentele sulla loro situazione personale che avevano formulato mille volte in privato. L'evento stava degenerando quando il Francese alzò una mano educata e il direttore si affrettò a placare il baccano. «Va bene, va bene» disse, sollevato e affannato, con la camicia scurita da grandi macchie di sudore. «Finalmente parliamo di letteratura.» Voltandosi verso il romanziere, indicò il Francese: «Guille è il nostro bibliotecario. Un lettore accanito. E anche scrittore. Ha appena pubblicato le sue memorie con un'importante casa editrice francese, vero, Guille?» «Posso parlare o no?» domandò il Francese. «Certo» rispose ossequioso il direttore. Il Francese percorse con lo sguardo la biblioteca finché non ottenne un silenzio ragionevole. Allora cominciò: «Prima di tutto, vorrei ringraziare il signor romanziere per essere venuto a trovarci». Lo scrittore rispose al benvenuto con un gesto ironicamente affettato. «E poi vorrei dirgli che sono d'accordo con lui.» «In che senso, Guille?» lo incoraggiò il direttore. Il Francese ignorò la domanda. «Questa settimana ho letto i due romanzi che la sua casa editrice ha avuto la gentilezza di mandarci» proseguì, rivolgendosi ormai in esclusiva al romanziere. «E le darò il mio parere. Il primo... Il riposo degli dèi s'intitola, non è vero?» «Esattamente» assentì il direttore. «Be', fa schifo» sentenziò il Francese. Il verdetto provocò la risata del pubblico. Alla sinistra del romanziere, la critica letteraria s'irrigidì, ma non perse il sorriso. Il direttore intervenne di nuovo, desolato: «Guille, per favore». «No, no» s'intromise il romanziere, afferrando con una mano magnanima il braccio del direttore, come se volesse impedirgli di togliere la parola al Francese, il che non sembrava il suo proposito. «La libertà d'espressione prima di tutto.» Il Francese aspettò senza impazienza che in sala tornasse la calma. «Un vero schifo» ripeté allora, scandendo le parole. «Questo il primo romanzo. E il secondo? Come si chiama il secondo?» Diffidente, il romanziere non lo aiutò nella risposta, e nemmeno la critica letteraria o il direttore. «Non importa, il secondo è ancora peggio. Perciò lei ha ragione: i suoi libri non hanno niente da insegnare a nessuno. Niente di niente. Ma non perché lei è uguale agli altri. No, perché lei è pessimo come i suoi libri. Lei, signor romanziere, è un imbroglione del cazzo.» Il direttore sbuffò e si agitò sulla sedia, però le sue arguzie diplomatiche da anfitrione sembravano esaurite, e non disse nulla; l'agente di custodia rimase impassibile, come se non fossero affari suoi; gli assistenti si guardavano tra loro senza sapere che faccia fare; e alla critica letteraria era venuto un tic al labbro superiore e di tanto in tanto strizzava l'occhio sinistro mentre Morales era sempre in agguato dietro il Francese. Quanto agli altri detenuti, passato il primo momento di baldoria, si sarebbe detto che aspettassero con genuina curiosità che il loro compagno di reclusione proseguisse. «E sa perché è un imbroglione?» insistette. «Be', perché dice soltanto bugie. Lei non è venuto qui ad ascoltarci né a solidarizzare con noi né tutte quelle stronzate che ci ha raccontato. Lei è venuto a guardarci come se questo fosse uno zoo e noi degli animali, e per potersene poi tornare a casa tutto contento, con la sua buona coscienza di sinistrorso da esposizione linda come uno specchio. Si dice così...?» Prima che qualcuno potesse rispondere alla sua consultazione filologica, puntualizzò: «Ah, be', e per scoparsi la signorina». Morales ricomparve dietro il Francese, approvando con la testa e sorridendo da un orecchio all'altro. Avvilito, il direttore non alzava gli occhi da terra. Il romanziere aveva preso la mano della critica letteraria e le sussurrava qualcosa all'orecchio, nel tentativo di consolarla o di tranquillizzarla. Il Francese aggiunse: «Le mie condoglianze, signorina». Il direttore non resistette oltre: «Ora basta, Guille». Un coro di proteste interruppe l'interruzione del direttore, mentre Morales, senza perdere il suo sorriso lascivo, scuoteva la testa dietro al Francese, anche se ormai era impossibile sapere se quella contrarietà fosse rivolta al direttore, al Francese, al romanziere o alla critica letteraria, sempre più vittima dei suoi tic, che strizzava l'occhio sinistro senza più controllo. Gli assistenti soffocarono le proteste. «Solo un'altra cosa, signor direttore» proseguì imperterrito il Francese. «Se mi dà il permesso.» Con un cenno sdegnoso di capitolazione, il direttore lo incoraggiò a dire quello che voleva. «Č per dare ragione al signor romanziere su un'altra cosa. Guardi, sei anni fa, prima di entrare qui, ero il proprietario di un'impresa che aveva in organico centocinquanta lavoratori. Ha sentito bene: centocinquanta. Che gliene pare? Incredibile, vero? Be', è così. E sa perché le sembra incredibile? Perché adesso lei mi vede come un mostro, come un animale, come uno che non ha niente a che vedere con lei, e le sembra incredibile che sei anni fa io fossi come lei. Ma che dico come lei? Allora io ero venti volte meglio di lei, che non è neanche capace di scrivere un romanzo decente, mentre da me dipendeva la vita di centocinquanta persone, di centocinquanta famiglie! Lei non è in grado di immaginare cosa significhi! Lei non riesce a credere che sei anni fa avevo una moglie, e una famiglia, e una vita come tutte, meglio di molte altre... Non riesce a crederci, non è vero? Invece è così.» Il Francese fece una pausa, e per due o tre secondi il silenzio della biblioteca sembrò pietrificarsi. «Finché un giorno sono uscito di testa e, zac, ho mandato tutto al diavolo» proseguì. «Insomma, eccomi qua, a marcire in galera. E la sa una cosa? Il guaio è che lei, che si crede così furbo e originale, non è per nulla un'eccezione. Lei è la norma. Voglio dire che ciò che pensa lei è ciò che pensano tutti quelli che stanno fuori, vale a dire che noi, noi che stiamo qui, siamo diversi da voi, che siamo di un'altra razza, peggiori di voi. E non è vero. Noi siamo come voi, lei potrebbe benissimo essere al mio posto e io al suo. Perciò, complimenti, aveva ragione anche su questo: noi abbiamo molte più cose da insegnare a lei di quante lei ne possa insegnare a noi.» L'ultima frase provocò una tale esplosione di giubilo che si dovette dare per concluso l'incontro mentre il romanziere se la svignava dalla sala con la critica letteraria e i detenuti si accalcavano intorno al direttore, all'agente e agli assistenti per continuare con le loro lamentele o le loro richieste. Nel mezzo della confusione, Melchor rimase a osservare il Francese, che cominciò a mettere in ordine i libri che aveva sul tavolo come se non fosse successo nulla, solo e indifferente al putiferio che aveva scatenato. | << | < | > | >> |Pagina 130Melchor fece la prima parte del viaggio ascoltando la radio. Le notizie sull'attentato erano ancora scarse e contraddittorie: era successo sulla Rambla, poco prima delle cinque, quando un furgone era sceso a tutta velocità per il viale pedonale investendo chiunque si trovasse sulla sua traiettoria; si parlava di una decina di morti e di varie decine di feriti, anche se questi numeri aumentavano in continuazione; non erano ancora stati arrestati i responsabili del massacro, ma a quanto pareva uno di loro si era trincerato in un ristorante del centro storico, con diversi ostaggi, e la polizia aveva blindato la città organizzando posti di blocco in entrata e in uscita, che stavano provocando ingorghi chilometrici. Questo era l'essenziale. Via via che calava la sera gli annunciatori cominciarono a ripetere notizie quasi identiche, e Melchor si stancò di ascoltare sempre la stessa cosa e finì per spegnere la radio.Allora ripensò a Carmen Lucas e a sua madre e, a poco a poco, iniziò a sentirsi male. Capì che era tutto finito. Capì che, nonostante avesse localizzato Carmen Lucas, non aveva nessuna traccia degli assassini della madre, e che non l'avrebbe avuta. Capì che Carmen Lucas era la sua ultima speranza e che l'aveva perduta. Retrospettivamente capì che la sua ricerca era condannata in partenza al fallimento, che dentro di sé l'aveva saputo fin dal principio e che, nonostante lo sapesse, era andato avanti. Capì che non avrebbe mai trovato gli assassini della madre. Capì che per lei non ci sarebbe stata giustizia. Pensò a Javert e provò odio, un odio freddo e indiscriminato, paragonabile soltanto all'odio di Jean Valjean contro il mondo. Provò anche un furioso, astratto desiderio di fare del male. E sentì che gli mancava l'aria, che l'odio e la furia e la fame di distruzione lo asfissiavano. Guidò per molti chilometri in una specie di apnea, con la gola chiusa per l'angoscia, cercando ossigeno dentro l'auto, quasi incapace di respirare. Poco dopo l'una di notte lo richiamarono dal commissariato e gli chiesero di nuovo dov'era; rispose che si trovava a venti chilometri da Tarragona. «Perfetto» gli dissero. «Fai una deviazione per Cambrils. Sembra che potrebbe esserci un altro attentato.» «Vado al commissariato?» «Non c'è tempo. Va' direttamente in avenida de la Diputació. La troverai subito, è parallela alla spiaggia. Ci metteranno un posto di blocco, vedi se puoi dare una mano. A quanto pare, hanno metà della gente in ferie.» A partire da quel momento tutto accadde molto in fretta. Soffocando, respirando con grande difficoltà, Melchor lasciò l'autostrada e uscì a Cambrils. Quando arrivò all'avenida de la Diputació, stavano ancora organizzando il posto di blocco, e lui si presentò alla sergente in divisa che coordinava l'operazione, la quale gli chiese di aiutare a piazzare la barriera di rallentamento, la banda chiodata e i coni. Non aveva ancora finito di farlo quando, sbucando dal nulla, un'Audi investì una delle due autopattuglie che regolavano il passaggio, travolse la sergente e si diresse a tutta velocità verso il lungomare. In mezzo alla confusione, Melchor si avvicinò alla sottufficiale, verificò che aveva soltanto preso un colpo e, con l'adrenalina a mille e il cuore che gli pulsava nella bocca come un uccello vivo, si mise a correre dietro l'Audi mentre, gesticolando con la pistola sguainata, urlava a tutti di nascondersi o di gettarsi a terra. Alcuni metri più in là vide l'Audi che investiva due passanti, e alla fine la vide ribaltarsi in una rotonda, vicino al Club Nàutico. Via via che si avvicinava, gli occupanti cominciarono a uscire dal veicolo. Due si diressero verso alcune persone che osservavano l'incidente e che cominciarono a urlare e a correre, ma un terzo partì sparato verso di lui. Melchor si rese conto che era quasi un bambino e che aveva in mano un coltello da macellaio e, legata in vita, qualcosa che sembrava una cintura esplosiva; in quell'istante, una frase gli attraversò come un lampo il cervello («Per sparare a un uomo non hai bisogno di mirare bene: devi soltanto avere abbastanza sangue freddo da avvicinarti quanto più possibile») e, invece di indietreggiare, andò verso il ragazzo. Quando lo ebbe a pochi metri frenò, piazzò bene le gambe sull'asfalto, mirò alla testa, sparò. Il rumore della detonazione moltiplicò le urla e attirò l'attenzione degli altri due terroristi, che si misero a correre verso di lui, brandendo armi bianche e lanciando urla di guerra, anche loro con il torace avvolto in cinture esplosive. Melchor avanzò verso di loro, dopo qualche metro si fermò, piazzò bene le gambe sull'asfalto, mirò alla testa del primo terrorista e sparò, poi mirò alla testa del secondo, che era già vicinissimo - ebbe il tempo di vedere che era anche lui poco più che un adolescente - e sparò di nuovo. Aveva ancora le gambe piegate quando si accorse che un quarto ragazzo, appena uscito dall'Audi, si lanciava urlando contro di lui, e per un soffio riuscì a mirare e a sparare prima che gli fosse addosso. Lì finì tutto. Per qualche secondo rimase immobile sulla carreggiata, in piedi e ansimante, con i cadaveri dei terroristi stesi intorno a lui sull'asfalto, la rotonda e il viale immersi in un silenzio che non aveva mai sentito, un silenzio assordante, saturo di urla di panico, di ululati di sirene della polizia, del fracasso delle pale di un elicottero che volava sulla sua testa. Gli sembrava che il cuore fosse sul punto di esplodergli, ma finalmente poteva respirare. | << | < | > | >> |Pagina 246Non tornò in biblioteca finché non finì di leggere Il dottor Živago. Olga era seduta dietro il banco; la chiamò per nome, le restituì il libro, le disse che gli era piaciuto molto.«Sembra un romanzo dell'Ottocento scritto nel Novecento» disse. «Come fai a sapere che mi chiamo Olga?» domandò lei. «Sono un poliziotto, ricordi? E poi, abbiamo amici comuni. Mi piacerebbe leggere altri romanzi di Pasternak.» «Sarà difficile» disse Olga. «Ne ha scritto soltanto uno e l'hai appena letto.» «Davvero?» «Davvero.» Melchor fece una faccia delusa. «Queste cose nell'Ottocento non succedevano» disse. Olga sorrise, e Meichor notò la rete di rughe che le spuntava accanto alle labbra. Come la settimana prima, la biblioteca aveva appena aperto; come la settimana prima, erano soli. «Pasternak era un poeta» disse Olga. «Ti piace la poesia?» «Non molto» riconobbe Meichor, che quasi non ne aveva letta. «I poeti mi sembrano romanzieri pigri.» Olga ci pensò su. «Può darsi» disse. «Anche se a me tutti i romanzieri sembrano poeti che scrivono troppo.» Parlarono per un po' del romanzo di Pasternak. Melchor si rese conto che, se escludeva le conversazioni telegrafiche che aveva avuto con il Francese nella biblioteca del carcere di Quatre Camins, era la prima volta che parlava con qualcuno delle sue letture. Quella mattina Olga indossava una camicetta blu e portava i capelli sciolti; le occhiaie scure sotto gli occhi erano scomparse, o un trucco invisibile le aveva nascoste. Mentre parlavano, Melchor pensò che gli sarebbe piaciuto andare a letto con lei, e a un certo punto, temendo che la conversazione languisse, citò un film tratto dal Dottor Živago, di cui aveva sentito parlare vagamente. «Č là» disse Olga, indicando uno scaffale pieno di dvd. «Ma non ti consiglio di vederlo.» «Non ti piace il cinema?» chiese Melchor, che vedeva pochissimi film. «Mi piace moltissimo. Però non mi piace vedere film tratti da romanzi che ho letto.» Si toccò la fronte con l'indice e spiegò: «A che scopo, se mi sono già fatta in testa il mio film?» «Lo diceva anche un mio amico» replicò lui. «Che metà del romanzo ce la mette chi lo scrive, e l'altra metà chi lo legge.» «Lui sì che era un amico intelligente» disse Olga. «Non quello che diceva che dopo il Diciannovesimo secolo non sono stati scritti buoni romanzi.» «Tombola: erano due amici diversi» mentì di nuovo Melchor. «Hai doti divinatorie.» «Col cavolo» rise Olga. «Se avessi doti divinatorie saprei come ti chiami. Ti avranno detto un sacco di volte che in questo paese si sa subito tutto di tutti, ma come vedi non è vero.» Melchor disse il suo nome. «Be', Melchor» disse Olga, uscendo da dietro il banco e incamminandosi verso gli scaffali. «Ti darò un altro libro che ti piacerà.» Tornò con un volume dalla copertina blu. «Eccolo qua» disse. «Un altro romanzo dell'Ottocento scritto nel Novecento.» Melchor lesse il titolo e l'autore: Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. «Anche questo è l'unico romanzo che ha scritto questo tizio?» «Già.» «Che razza di gente.» Olga rise di nuovo; Melchor sentì una voglia pazza di baciarla, e stava già per chiederle a che ora finiva di lavorare per invitarla a prendere un aperitivo, quando Olga gli diede la notizia. «A proposito» disse. «Ieri ho cominciato a leggere I miserabili.» Melchor decise di rimandare l'invito, ma a partire da quella mattina si fece vedere quasi ogni giorno in biblioteca. «Come va con I miserabili?» domandava. «Dammi tempo» rispondeva Olla. «E molto lungo.» «A me sembra sempre corto» diceva Melchor. «A che punto sei?» Olga glielo diceva e Melchor tornava a domandare, ansioso, se le stava piacendo. «Sì» diceva lei. «Però è strano.» «Strano?» Si preoccupava ancora di più Melchor, o fingeva di preoccuparsi. «Fammi finire di leggerlo e poi ne parliamo.» | << | < | > | >> |Pagina 252La mattina dopo, mentre Melchor stava leggendo Il Gattopardo a casa sua, il sergente Blai lo chiamò al telefono, lo informò che una donna anziana aveva appena denunciato una truffa, gli diede un indirizzo di Corbera e gli disse di andarci nel pomeriggio con Sirvent per verbalizzare la sua dichiarazione. Melchor chiamò Sirvent e si diedero appuntamento alle quattro al Terra Alta per andare insieme.Melchor comparve puntuale nel bar, ordinò un caffè e si sedette accanto a un gruppo di pensionati che giocavano a domino. Si era ormai attenuata la frenesia del pranzo al Terra Alta; in realtà, nel ristorante era rimasta soltanto una coppia che prendeva il caffè. Lui aveva già bevuto il suo quando gli arrivò sul cellulare un messaggio di Sirvent: aveva avuto un problema con il figlio, sarebbe arrivato con un po' di ritardo. Rispose al messaggio e ordinò un altro caffè. I pensionati finirono la partita e, mentre uno di loro mescolava le tessere per ricominciare a giocare, si misero a chiacchierare. Qualcuno accennò a un uomo che era appena morto a più di cent'anni a El Pinell de Brai. A quanto pareva, era o era stato un pastore, e molti dei pensionati avevano avuto rapporti con lui; due di loro decantarono la sua profonda conoscenza della Sierra di Pàndols. «La conosceva così bene che durante la battaglia dell'Ebro ha fatto la staffetta per Lister» commentò il pensionato che stava mescolando le tessere. Subito dopo, come se si fosse appena ricordato di qualcosa, smise di mescolarle. Aveva gli occhi azzurrissimi e la pelle screpolata dal sole, e sembrava il più vecchio del gruppo, o quello che godeva di maggiore autorità; in ogni caso, tutti tacquero quando parlò: «Un giorno sono stato con lui all'eremo di Santa Magdalena e mi ha raccontato una storia». Il pensionato riferì che tutto era cominciato al Comando di Lister, nel paese di Miravet, in piena battaglia dell'Ebro. Secondo lui, al tramonto di quel giorno il generale repubblicano, che allora comandava il V Corpo dell'Esercito dell'Ebro, ordinò alla sua staffetta di salire all'eremo di Santa Magdalena del Pinell, dove una delle sue compagnie stava combattendo dall'alba per mantenere la posizione. «Scopri cosa è successo» ordinò Lister alla staffetta. «Se hanno perso la posizione, di' all'ufficiale di riprenderla a tutti i costi.» Poi, perché non ci fossero dubbi, il generale gli diede un foglio su cui aveva scritto l'ordine di proprio pugno. La staffetta obbedì, salì sulla montagna, arrivò all'eremo. Lo spettacolo che l'attendeva era desolante: steso contro il tronco di un cipresso, un capitano repubblicano ansimava con il volto annerito e l'uniforme a brandelli, macchiato di polvere e di sangue; intorno a lui, quindici o venti soldati disfatti dal combattimento sopravvivevano qui e là, nascosti fra gli alberi. La staffetta di Lister domandò al capitano dov'era il resto dell'unità e il capitano gli fece capire che erano tutti morti o dispersi. Malgrado ciò, la staffetta gli comunicò l'ordine di Lister e poi gli consegnò il foglio sul quale il generale l'aveva messo per iscritto. Il capitano lesse l'ordine. Quando l'ebbe letto, sembrò restare per qualche secondo assorto, assente, e subito dopo cominciò a muovere la testa da una parte all'altra, come rifiutandosi in silenzio di obbedirvi, o come se fosse sul punto di impazzire. Poi, trascorso un lasso di tempo che la staffetta non sapeva se calcolare in minuti o in secondi, il capitano si alzò e, camminando come un sonnambulo, si avvicinò al punto in cui si trovavano gli uomini che gli rimanevano, li riunì e disse: «Mi hanno appena dato l'ordine di recuperare la posizione». Un silenzio incredulo accolse la notizia; il capitano fece una pausa perché i soldati la assimilassero, forse per finire di assimilarla lui stesso, finché finalmente aggiunse: «Io eseguirò quest'ordine. Chi mi vuole seguire mi segua. Chi non vuole, sparisca». Sempre secondo il pensionato (o sempre secondo il racconto che la staffetta aveva fatto al pensionato), il capitano pronunciò quell'ultima frase con un gesto indifferente che sembrava voler abbracciare la sierra e, una volta che l'ebbe detta, sfoderò la pistola e prese a camminare su per la montagna verso la quota occupata dai franchisti, senza guardarsi indietro né prendere precauzioni, senza sapere se stava salendo da solo o se qualcuno dei suoi soldati lo stava seguendo. La staffetta allora vide quella manciata di soldati esausti, affamati e impolverati alzarsi a uno a uno e seguire il proprio capitano, vide che tutti si dispiegavano arrampicandosi sul pendio allo scoperto, salendo verso la cima in un silenzio mortale, come una comitiva di fantasmi che vagavano nel crepuscolo della sierra, sicuri di offrire un bersaglio facile e che sarebbero morti tutti. E in quel momento accadde un miracolo o qualcosa che la staffetta, paralizzata dal terrore tra i cipressi dell'eremo, tremando dalla testa ai piedi ma incapace di distogliere lo sguardo dalla carneficina a cui stava per assistere, poté interpretare soltanto come un miracolo, e cioè che i franchisti che occupavano la posizione non spararono contro quel mucchio di straccioni con i quali si stavano ammazzando dallo spuntar del sole, non li massacrarono a piacimento ma si ritirarono senza opporre resistenza, come se si arrendessero di fronte a quel suicidio collettivo o come se fossero stanchi di guerra al pari dei loro nemici e non avessero più voglia di continuare a uccidere. «Così, i quindici o venti soldati repubblicani ripresero la posizione senza sparare un solo colpo» terminò il pensionato. Il finale della storia fu accolto con una serie di commenti strozzati e malinconici, e Melchor ne approfittò per mandare un messaggio a Sirvent. Lui gli rispose che stava per arrivare e gli chiese di aspettarlo sulla porta del Terra Alta. Mentre i pensionati tornavano alla loro partita di domino, Melchor pagò i due caffè e si sedette su una sedia all'ingresso del bar, sul bordo della strada, finché l'auto di Sirvent non si fermò lì davanti. «Mi dispiace» si scusò il collega. «Mio figlio si è rotta un dito giocando a pallamano.» «Non preoccuparti» lo tranquillizzò Melchor, mettendosi la cintura di sicurezza. «Mi sono distratto ascoltando dei vecchietti.» «Scommetto due a uno che parlavano della guerra.» Melchor si voltò verso di lui. «Come fai a saperlo?» «Ma dài» fece Sirvent. «Perché qui i vecchi non parlano d'altro. Sembra che nella Terra Alta non sia successo niente negli ultimi ottant'anni. Allora, dove andiamo?» | << | < | > | >> |Pagina 374Vivales chiede a Melchor cosa ci faccia a Barcellona, se è tutto sotto controllo nella Terra Alta, e Melchor gli risponde di sì e aggiunge che poi gli racconterà tutto. Quando ha finito di vestire Cosette, Melchor infila il resto della sua roba in una borsa da viaggio.«Ve ne andate?» chiede Vivales. «Non fate neanche colazione con noi?» Melchor dice di no, spiega che hanno fretta perché devono prendere l'autobus. «Dove andate?» chiede l'avvocato. Melchor sa meglio che mai dove sta andando, ma rimane per un attimo a guardare l'avvocato, osserva i suoi capelli scompigliati, la faccia imprugnita, il corpaccione da camionista, la pancia da bevitore e le gambette biancastre, e osservandoli ricorda di colpo tutti i padri illusori o spettrali che hanno inquietato le notti della sua infanzia nell'appartamento della madre, là nel quartiere di Sant Roc - l'uomo che tacchettava per il corridoio con passi da proprietario e quello che camminava in punta di piedi cercando di passare inosservato, quello che tossiva ed espettorava come un malato terminale o un fumatore impenitente, quello che singhiozzava sconsolato dietro un tramezzo, quello che raccontava storie di spettri e quello che usciva all'alba avvolto nel suo giaccone di pelle - e, sebbene non sia in grado di dare il volto di Vivales a nessuno di quegli sconosciuti, per la seconda volta nella vita gli viene voglia di abbracciarlo. Però non lo abbraccia: si limita a salutare lui e i suoi amici, mentre prende la figlia con una mano e la borsa da viaggio con l'altra. Vivales gli chiede di nuovo dove vanno.
«A casa» risponde finalmente Melchor. «Nella Terra Alta.»
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