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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione Visti da me 7 «Il Piemonte non è la Puglia!» 13 Cota vs. Vendola 21 Da Il corpo delle donne alla RU486 attraverso Miss Padania 29 Il patto per la vita e la famiglia 37 Puglia felix, il Piemonte un po' meno 43 Punti di contatto agli antipodi 51 Cota e Vendola, critici del Palazzo 57 Mele marce e pathos della vita 69 Dal portacenere al San Raffaele 77 Un autunno rovente 89 Il futuro dei tre Roberti 95 «La mia è un'altra storia» 103 Siamo solo al primo tempo della partita 111 Postfazione di Nichi Vendola Da uomo di sinistra, da uomo del sud 123 |
| << | < | > | >> |Pagina 13«Il Piemonte non è la Puglia!». Una conduttrice televisiva, nel mese di luglio del 2010, si rivolge a me con questa frase in una trasmissione dedicata all'energia nucleare, a proposito dell'alternativa costituita dalle fonti rinnovabili per le quali la Puglia rappresenta l'eccellenza anche perché favorita dalle condizioni climatiche. Anche a Torino fa caldo, l'atmosfera è quasi vacanziera, mi viene in mente il mare del Salento dove sono stata qualche anno fa. Non potevo allora che replicare, in modo del tutto naturale per me che sono stata eletta in consiglio regionale nella lista Sinistra Ecologia Libertà con Vendola: «Peccato! Peccato perché il Piemonte non è la Puglia non solo per le energie rinnovabili!». Non era ancora arrivata la bocciatura referendaria del nucleare dell'anno scorso, ma già non avevo dubbi sulla capacità innovativa che il governo di Nichi sta mettendo in atto in Puglia. È così nata l'idea di confrontare le sue politiche regionali con quelle che sto vivendo più da vicino in Piemonte, come consigliera e cittadina, in una sorta di cammino di riscoperta della buona politica nell'era dei "tecnici". Due presidenti, Nichi Vendola, al secondo mandato, e Roberto Cota, al primo, nella successione a Mercedes Bresso. Come loro, le due regioni che governano hanno alcune caratteristiche speculari: la Puglia emergente; il Piemonte in progressivo declino. Sono sud e nord; l'opposizione e la sintonia più accondiscendente verso il governo Berlusconi, nonostante a parole, Cota, abbia più volte sbandierato il federalismo leghista, che avrebbe dovuto significare autonomia decisionale. La presunta indipendenza ha iniziato a far capolino solo con il governo Monti, avvicinando, almeno nelle apparenze, i due presidenti in un atteggiamento critico di fronte ai primi provvedimenti dell'esecutivo nazionale.
Ma se per Nichi si tratta di entrare nella sostanza delle
misure economiche intraprese, per Cota sembra essere più una scelta
nell'atteggiamento da manifestare,
per cui è più importante disertare il primo incontro tra
il governo Monti e le Regioni per andare al Parlamento padano, che intervenire
nel merito della manovra economica proposta.
Tanta scena! Tanti annunci! Come la serie di provvedimenti che Cota aveva promesso per i suoi primi cento giorni. Sono scaduti ormai da due anni e mancano ancora in gran parte all'appello. Questa è la politica dei proclami di un presidente che vediamo molto più in tv che in consiglio regionale e che, infatti, è risultato essere il politico più invitato alla trasmissione Porta a Porta. D'altronde, ha suscitato non poche polemiche la sua esclamazione abbandonando i lavori di uno dei primi consigli: «vi saluto e vado a lavorare». In quell'occasione il mio imbarazzo è stato pesante: non pensavo si potesse pronunciare con naturalezza una frase così poco rispettosa del consiglio regionale, come se occuparsi di esso non fosse il suo lavoro di presidente. E forse un po' ha temuto che potesse effettivamente non esserlo. Infatti, prima della sentenza del Consiglio di Stato del 19 ottobre del 2010, che ha bloccato il riconteggio delle schede delle elezioni regionali, deciso dal Tar, la vita amministrativa è stata caratterizzata da un certo nervosismo generale, essendo appesa all'esito dei ricorsi sulla legittimità del voto. Roberto Cota ha continuato comunque a esibire sicurezza, garantendo a tutti che avrebbe continuato ad essere il presidente della Regione per dieci anni, anche se il suo comportamento è stato, ed è, quello di chi si sente in continua campagna elettorale. Peccato che alle amministrative del 2011 abbia perso in modo del tutto inaspettato la sua roccaforte, la città di Novara.
Tuttavia, il nuovo appuntamento nel mese di ottobre
2011 con il pronunciamento della Corte Costituzionale pare aver messo
definitivamente la parola fine alle speranze di chi riteneva si potesse tornare
rapidamente alle urne ribaltando l'esito del voto regionale a favore del
centrosinistra.
Ad oggi sembrano essere alte le probabilità che anche
il parlamento arrivi a fine legislatura.
In vista delle elezioni politiche, dall'altra parte del
Paese, Nichi Vendola, pure lui gettonatissimo sui
media, si è candidato da tempo alle primarie come
premier del centrosinistra per «sparigliare» i giochi, «portare il vento della
sinistra». Ho potuto conoscerlo più da vicino nella mia recente esperienza
nella segreteria nazionale di Sel e so per certo che
Nichi è come appare.
Forse per questo è riuscito ad acquisire e mantenere la credibilità e autorevolezza che ormai quasi tutti i politici hanno perso. Lui stesso si definisce «autentico». È diventato un personaggio, tanto che un giornalista come Giovanni Valentini in un suo Sabato del Villaggio su Repubblica scrive del suo orecchino, consigliandogli di abbandonarlo, per trasmettere una nuova narrazione, usando quello che è diventato «il termine di Vendola», «più governativa e meno alternativa, più affidabile e meno rivoluzionaria».
«Difficilmente rinuncerò all'orecchino». Questa la risposta che,
francamente, era quella che mi aspettavo.
Naturale per ciò che Nichi rappresenta, con la fermezza e la forza della sua
passione di un "personaggio" non costruito a tavolino.
È la ricerca di un'alternativa a sinistra, che vede già nelle proposte di governo della regione Puglia una concreta attuazione. Ne sono un esempio la stabilizzazione dei precari della sanità, tanto contestata dal governo Tremonti, e la recente legge sull'acquedotto pugliese, la prima in Italia dopo la consultazione referendaria, volta ad affermare la gestione pubblica del servizio idrico.
Di ben altro avviso è Roberto Cota che ha sottoscritto in modo acritico il
piano di rientro dei conti della sanità sollecitato dal governo nazionale, che
sta avendo pesanti ripercussioni sui servizi offerti ai cittadini piemontesi.
Nella specularità fra Piemonte e Puglia, la contrapposizione è anche su un'idea diversa di federalismo, che è sembrato per molto tempo diventare uno dei temi principali nel dibattito politico, più quasi che l'alternativa tra destra e sinistra, con l'immagine di un nord operoso che vorrebbe affrancarsi da un sud troppo spendaccione. Tuttavia, la cosiddetta "questione settentrionale" ha perso la sua forza dirompente, trasmessa dalla mitologia leghista, già dopo i risultati delle elezioni amministrative che hanno visto affermarsi il centro sinistra nelle città del nord, a partire da Milano, con quel "vento del cambiamento" che ha poi soffiato sui quesiti referendari. Con l'opposizione al governo Monti, la Lega ha tentato di tornare a ruggire, dopo aver a lungo belato, come sostiene Vendola alla trasmissione Che tempo che fa l'11 marzo 2012: «Sono stati alfieri del quindicennio berlusconiano, ora torna la bandiera della secessione, ma è un tentativo di salvare il salvabile per una formazione che è entrata in crisi profonda».
Parole pronunciate ancor prima che scoppiasse,
all'inizio di aprile, lo scandalo dell'utilizzo dei finanziamenti pubblici da
parte della famiglia di
Umberto Bossi, e in particolare della vicepresidente
del senato Rosy Mauro, il cosiddetto "cerchio magico", creato attorno al leader
Bossi per proteggerlo
e renderlo inavvicinabile, da cui man mano stanno
emergendo brutte storie di acquisti illeciti di auto,
lauree all'estero, ristrutturazioni e addirittura di
pratiche esoteriche.
La Lega farà fatica a riappropriarsi del ruolo di difensore degli interessi della Padania, a rappresentare nuovamente un suo sentire presunto maggioritario, in ragione del quale abbiamo visto, in alcuni momenti, avvicinamenti fra le sue posizioni e il Partito Democratico, punti di convergenza di cui il maggiore interprete è stato, guarda caso, proprio Sergio Chiamparino, ex sindaco di Torino, la città più meridionale del nord, la più abitata da persone provenienti dalle regioni del sud. A questo proposito, i primi passi del governo Cota hanno registrato una sintonia, per alcuni aspetti di difficile comprensione, con l'amministrazione comunale torinese di colore opposto, su temi di altissima priorità, come la riorganizzazione del trasporto pubblico locale e la localizzazione di quella che viene chiamata Città della salute.
E di nuovo, non a caso, finora un altro candidato alle primarie del
centrosinistra che avesse dato come certa la propria disponibilità è stato
proprio Sergio Chiamparino, rinnovandola alla fine di ottobre 2011, a qualche
mese dalla fine del suo mandato di sindaco a Torino, sul palcoscenico fiorentino
dei "rottamatori" del
Partito Democratico
guidati da Matteo Renzi.
Nell'estate dell'anno scorso Sergio Chiamparino ha avviato una collaborazione con il quotidiano campano Il Mattino. Forse anche questa sua scelta "sudista" testimonia l'esigenza di andare oltre un'immagine che lo identificava come una sorta di "leghista gentile". D'altronde Chiamparino si è sempre detto sicuro di vincere contro Nichi Vendola e, entrando già parecchi mesi fa nello spirito competitivo, prima ha definito il presidente della Puglia un politico da talk show, per poi correggersi legittimandone il ruolo di pungolo del centro-sinistra ma confinandolo in un perimetro ristretto di una sinistra dispersa, senza rappresentanza, usando così la chiave di interpretazione delle tante sinistre ormai desueta.
E ha continuato ad utilizzare argomenti come la
messa in discussione della Tav, il progetto della linea ferroviaria
Torino-Lione, per provare a mettere
nell'angolo Nichi accusandolo di un'opposizione
preconcetta pur avendo ambizioni da leader, dimenticando paradossalmente che,
qualche mese prima, aveva proposto un ticket con lui alle primarie del
centrosinistra. Tranne poi cambiare partner, ipotizzando a fine 2011, un più
probabile ticket con Renzi e poi decidere, infine, di rinunciare alla politica
all'inizio del 2012, accettando la candidatura a presidente
della Compagnia di San Paolo.
Sergio Chiamparino ha sfidato comunque sempre Nichi Vendola, come altri esponenti del Partito Democratico, nel campo della coerenza e della concretezza dell'azione di governo. Proviamo allora a fare un confronto delle iniziative intraprese da Roberto Cota e Nichi Vendola nel loro governo, dalla loro proclamazione di marzo 2010 e partendo dalla messa a confronto delle loro storie personali. | << | < | > | >> |Pagina 77Il bagno rigeneratore evocato da Nichi non ha nulla a che fare con il rito dell'ampolla alle sorgenti del Po sul Monviso, cerimonia alla quale Roberto Cota accompagna tradizionalmente Umberto Bossi. Nel 2009 la sua partecipazione alla cerimonia segna un deciso passo avanti verso la sua candidatura a presidente della Regione Piemonte. La sua notorietà è andata via via crescendo anche dopo la sua elezione. Da un'indagine di Ipr Marketing del mese di gennaio 2011 sulle performance degli amministratori locali realizzata per Il Sole 24 ore, risulta piacere a metà dei piemontesi, piazzandosi all'undicesimo posto, con l'incremento più alto rispetto a tutti gli altri presidenti di regione e affiancato proprio da Nichi Vendola nella stessa posizione. Anche nel 2012 ottengono entrambi un buon risultato. Vendola arriva al 53 per cento dei consensi (più di quelli del giorno dell'elezione) e Cota sale al 50 per cento, crescendo rispetto alle consultazioni del 2,7 per cento. Ed entrambi possono sentirsi, seppur con modalità molto diverse, vittime di operazioni mediatiche che provano a screditare la loro immagine. Nel mese di febbraio del 2011, Il Giornale pubblica in prima pagina una foto di Nichi Vendola, nudo in un campeggio calabrese, risalente al 1979. Lui si dice oggetto di un attacco praticato con il cosiddetto "metodo Boffo", vale a dire la presentazione di un dossier finalizzato alla distruzione di un personaggio pubblico, come è avvenuto con Dino Boffo, ex direttore dell'Avvenire, costretto alle dimissioni proprio in seguito alla campagna stampa condotta nei suoi confronti sempre da Il Giornale. In un'intervista, Nichi afferma: «ciclicamente tocca anche a me e l'obiettivo di questi attacchi è quello di dimostrare che Berlusconi non è pulito ma siamo tutti luridi. Così scatta la macchina del fango che cerca di mettere sullo stesso piano la rivendicazione della propria libertà e dignità con l'intangibilità e il sottrarsi al controllo di legalità». Un tentativo di offuscamento della sua immagine molto maldestro, e nemmeno tanto riuscito, data l'inconsistenza della notizia stessa che, infatti, è tornata subito all'oblio. Ben più marcato è invece il ricordo della «delega al portacenere» attribuita da Massimo Gramellini a Roberto Cota nella sua rubrica quotidiana Buongiorno, su La Stampa di novembre del 2010, a proposito di una foto in cui lo si vede reggere proprio il portacenere a Umberto Bossi. Gramellini così scrive: «Quando era soltanto un leghista, Roberto Cota poteva reggere il posacenere di Bossi o sostituirsi a esso con mani d'amianto. Poteva persino sventagliare la nuca del suo signore come uno schiavo nubiano. Ma da alcuni mesi Cota è alla testa di una Regione italiana di una qualche importanza: il Piemonte. Questo significa che, qualsiasi cosa faccia, non è più il leghista che la fa, ma il governatore del Piemonte. E Cavour non combinò tutto quell'ambaradan perché i suoi eredi finissero a reggere il posacenere del pronipote di Alberto da Giussano in una prefettura di Vicenza dove tra l'altro sarebbe pure vietato fumare. È legittimo che Cota nutra per il suo futuro progetti ambiziosi, come reggere il posacenere al prossimo presidente della Repubblica Padana. Però, nell'attesa che più alti destini si compiano, dovrebbe almeno far finta di rappresentare la Regione che lo ha votato. Per quanto possa sembrargli strano, Cota incarna un'istituzione. Quindi via le camicie, le cravatte, i fazzolettini verdi. E i posacenere, per favore, sul tavolino». Nel mese di giugno 2011, Cota è protagonista di una nuova gaffe istituzionale. È fotografato mentre regge la targa per assegnare uno dei ministeri che la Lega vuole trasferire a Monza. Tralascio ogni commento sulla serietà di un'iniziativa di questo genere. Forse il presidente del Piemonte si sarebbe sentito più a suo agio sorreggendo l'insegna per il decentramento di un ministero nella sua regione, ricordando che durante l'ultima campagna elettorale per le elezioni amministrative aveva rivendicato il ministero del lavoro e dell'industria per Torino, fornendo il suo contributo al populismo leghista. Questo è solo uno degli episodi che ci fanno spesso affermare che Roberto Cota sia più proiettato su un ruolo nazionale, e poco in quello di amministratore locale. L'ultima polemica è stata quella legata alla sua residenza. Un giornale on line, Lo spiffero, rivela che il presidente del Piemonte abita a Milano. Attacco poi ripreso dal Corriere della sera. Lui replica, in modo piuttosto piccato, che la legge italiana obbliga i magistrati, come sua moglie, a prendere la residenza nella città dove esercitano la professione. E così, come già sottolineato, la loro figlia di tre anni è stata iscritta in un asilo di Milano. La sua presunta scarsa piemontesità risultava però principalmente la conseguenza della sua accondiscendenza nei confronti delle indicazioni impartite dal governo Berlusconi, quando invece anche presidenti della stessa parte politica, come Formigoni, Zaia o Polverini alzavano la voce se ritenevano di dover tutelare gli interessi dei propri cittadini e non solo sui tagli ai trasferimenti dallo stato alla regione, ma anche su altre questioni, a partire da quella del nucleare. Prima del referendum e della netta polarizzazione dell'opinione pubblica contro la tecnologia a seguito del disastro avvenuto con il terremoto giapponese a Fukushima, Cota decide di ritirare il ricorso, presentato da Mercedes Bresso, contro la legge nazionale sull'indicazione dei nuovi siti per l'installazione di centrali e depositi di scorie, norma che non prevedeva il parere delle regioni interessate. Scelta incomprensibile anche perché il Piemonte, proprio in una logica leghista, ha già dato su questo ambito, ospitando più dell'80 per cento delle scorie nucleari. La Puglia invece, con la Toscana e l'Emilia Romagna, mantengono il ricorso e la Consulta, alla fine, darà loro ragione. Indipendentemente da questo esito e da quello referendario, Nichi aveva ribadito la propria contrarietà nel rendere la propria regione disponibile ad ospitare una centrale: nell'elenco dei possibili siti comparivano diverse località pugliesi. Così si esprime a margine di un incontro con gli studenti dell'Università Bocconi di Milano nel mese di marzo del 2011, condannando la "lobby del nucleare": «Devono fare un nuovo appalto: devono comperare una nuova generazione di carri armati per poter pensare di raggiungere la Puglia per mettere qualche cantiere nucleare». Esercita dunque una sua autonomia rispetto ai cosiddetti poteri forti, atteggiamento che non gli impedisce di avere come suo sponsor, sia nel 2005 che nel 2010, il re della pasta, Vincenzo Divella, ex presidente della provincia di Bari, che lo promuove nel mondo degli industriali pugliesi. Questa sua indipendenza viene da lui ribadita in una lettera dell'inizio di agosto del 2011. In risposta a Marco Travaglio che, in un articolo pubblicato su Il fatto quotidiano, chiedeva le ragioni della scelta fatta dal governo pugliese di costruire il San Raffaele del Mediterraneo a Taranto, il più inquinato capoluogo del sud. | << | < | > | >> |Pagina 121I confronti, quando sono veri, non danno mai esiti manichei. Piuttosto, scardinano triti stereotipi. E anche nella contrapposizione più netta e radicale, aiutano a misurarsi con le ragioni dell'altro. Aprendo sentieri, passaggi inesplorati, percorrendo i quali ogni cultura lascia per strada la sua zona d'ombra, quella dove si alimenta l'idea della propria verità come qualcosa di assoluto, come l'unica possibile. Da uomo di sinistra, netta e radicale è la mia contrapposizione, in primo luogo culturale, alle opzioni politiche della Lega, alle sue pratiche secessioniste, all'evocazione di simboli superomistici e all'uso di quei linguaggi degradati e degradanti con cui si scrive da sempre il vocabolario xenofobico e razzista di ogni epoca e di ogni luogo del mondo. Comporne il catalogo sarebbe esercizio lungo e ignominiosa la sequela: dal test per gli insegnanti meridionali alle gabbie salariali dove rinchiudere il lavoro fuori dal nord, dalle classi separate in regime di apartheid alle impronte digitali ai bambini rom, dalle ronde padane sulle strade e nei quartieri all'idea dei medici spioni e del permesso di soggiorno a punti. È il catalogo di una "frantumazione": frantumazione di comunità, di sentimenti, di leggi, su cui la Lega ha edificato nel corso degli anni - avrebbe detto Leonardo Sciascia - quella sicurezza del potere che si fonda sul costruire e produrre l'insicurezza dei cittadini. Berlusconismo e leghismo hanno agito insieme nell'operare, sia pure con strumenti differenti, il più corposo tentativo di revisione e "rovesciamento" della civiltà italiana nel segno di un dis-umanesimo portato a "stile di vita", nel senso comune quotidiano come nelle forme inedite della comunicazione pubblica e infine, o prima ancora, nelle istituzioni politiche. Il connubio di governo che hanno praticato, nel frattempo, ha precipitato l'Italia - nord e sud - dritto verso il tracollo economico e sociale di una recessione che non ha pari in Europa e che costituisce l'ipoteca più dolente sul futuro per le nuove generazioni del nostro Paese. Ora che, comunque la si giudichi, una fase nuova si apre, ora che la Lega mette in discussione - resta da vedere se strategicamente - la sua alleanza con Berlusconi, ora è il momento di vedere meglio quale sia lo spazio reale, proprio nel colmo della crisi, per la sua politica. Il "segnale" che viene da Milano è però profondo, poiché si produce dal cuore di quel sistema, e nel bisogno di liberazione della città dal malgoverno e dall'affarismo che quella straordinaria vittoria del centrosinistra rende evidente contiene non solo una indicazione politica ma può essere l'inizio vero di una inversione culturale, che sempre più dovremmo considerare il reale "punto di partenza" per il cambiamento che vogliamo. Ancora da uomo di sinistra avverto - se rivolgo lo sguardo critico a quel che si è prodotto dentro il nostro campo in questi tormentosi anni - il retaggio di inerzie paralizzanti, di identità statiche chiuse in sé stesse, di insufficienze e autosufficienze culturali, di fuorvianti tatticismi e di inseguimenti verso paradigmi che ci hanno reso, nei passaggi cruciali, indistinti e talvolta impotenti, il peso delle responsabilità che sono state anche nostre, della sinistra e non solo italiana, del prorompere e dell'insediarsi per un ciclo lungo, troppo lungo, di una destra in tanti suoi tratti eversiva per l'idea stessa di Italia e di Europa. Da uomo del sud sento la forza di fascinazione e di dirompente innovazione che proviene da quel "pensiero meridiano", di Albert Camus e di Edgar Morin, che è identità complessa in luogo del pensiero unico, idea critica di questo insostenibile sviluppo, e che pensa all'Italia affacciata nel Mediterraneo come incrocio di popoli e molteplicità di voci. Ecco allora, il confronto vero, tra le diverse opzioni politiche in campo, tra classi dirigenti, nell'azione quotidiana dell'amministrare i nostri territori: sta in una diversa idea di cosa sia oggi il "confine", la "frontiera", dentro e oltre la crisi che rischia di azzerare nord e sud in una comune subalternità. La crisi ci dice, tra le altre miserie di cui contorna le nostre vite, che non c'è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si incrociano e si toccano, facendo diventare la partita con l'altro difficile e vera, nuova, alta. Quella "frontiera" che la mistica leghista in questi lunghi anni ha individuato, perimetrato e poi recintato come purezza identitaria è viceversa luogo dove riflettere sulla fragilità delle nostre verità quando non siamo più capaci di considerarle come molteplici, è continuo ricominciare, capacità di dubitare come di coabitare e di far coesistere. Ecco lo stereotipo del sud, di cui tanta parte politica si è intrisa ammantando in una sorta di falsa neutralità la rappresentazione dominante che di esso ne dà, che viene finalmente meno. Non più un sud (d'Italia certo, ma in genere del mondo) "pensato da nord", ma capace di re-immaginare sé stesso tenendo ferme le sue peculiarità territoriali, la ricchezza delle sue risorse ambientali, costruttore dei ponti della socialità e della comprensione che mettono al bando ogni colonizzazione delle nostre vite.
È la strada che, invertendo la rotta dello sviluppo, invita a riprendersi il
futuro. E a guardare all'Italia, in tempo di crisi e di passioni tristi, con
occhi nuovi e con lo sguardo di una politica diversa a partire dalla
sua radice. Da uomo di sinistra e da uomo del sud
penso a questa prospettiva con speranza e anche con
la fiducia di una scommessa necessaria e possibile.
I terreni di questa pratica sono diversi, chiamano in
causa le nostre culture politiche, l'idea del progetto di
società, l'azione concreta del governare, tanto il livello
nazionale quanto la dimensione locale.
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