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| << | < | > | >> |IndiceVII Prefazione alla nuova edizione 1 Il mito «È mio figlio», p. 1 - La ricerca dell'immortalità, p. 2 - Costruito come una macchina, p. 8 - Prometeo, il protoribelle, p. 10 - La grande sfida a Dio e alla natura, p. 11 14 Aria, fuoco, acqua, terra Le macchine..., p. 14 - ...e gli uccelli di Erone, p. 21 - Gli orologi di Al-Jazari, p. 22 - Il cilindro del programmatore, p. 27 31 Il simbolo Mosche e aquile di ferro, p. 31 - Teste e galli parlanti, p. 33 - Il corpo e il demonio, p. 36 - Terrore e desiderio, p. 38 41 Costruire orologi non è peccato Artigiani e inventori, p. 41 - Nel mondo del pressappoco, p. 43 - L'uomo di ferro, p. 45 51 La tecnica Meccanico vuol dire vile, p. 51 - Giannello e l'imperatore, p. 52 - La macchina per il moto perpetuo, p.55 61 L'automa teorico Cominciò Descartes, p. 61 - L'uomo è una macchina, p. 63 - Appendice antologica, p. 67 71 Il genio Il figlio di un guantaio, p. 71 - Le anatomie mobili, p. 75 - Un'incredibile commedia, p. 79 - Il suonatore di flauto, p. 80 - Rivale di Prometeo, p. 86 - Il mistero dell'anitra, p. 89 - Appendice. Vita, morte, cronologia dei tre famosi automi, p. 95 100 L'uomo artificiale: un parallelo Ieri: la ricerca della vita artificiale, p. 100 - Oggi: la ricerca dell'intelligenza artificiale, p. 102 106 L'affare caucciù Una materia per riprodurre arterie e vene, p. 106 - L'Ispettore delle seterie, p. 108 - L'utile e il superfluo, p. 112 - Tutto il suo genio è sulla punta delle dita, p. 115 119 La « domanda » di automi Superare i limiti del conosciuto, p. 119 - Tutto il mondo correva a vederli, p. 123 - La musicista, lo scrivano, il disegnatore, p. 127 - L'illusione della vita, p. 135 137 Le code del mito Friedrich von Knaus (1724-89), p. 137 - Camus Le Lorrain (1672-1732), p. 138 - Kintzing & Roentgen, p. 141 - Henri Maillardet (1745-?), p. 144 - Jean-David Maillardet (1748-?), p. 147 - Johann-Bartholomé Rechsteiner (1810- 93), p. 150 - Jean-Eugène Robert-Houdin (1805-71), p. 152 - M. Gaston Decamps, p. 152 156 Il favoloso « Turco » Saper giocare a scacchi, p. 156 - La messinscena, p. 159 - « L'invenzione » del linguaggio umano. p. 163 - Per la rivoluzione, p. 167 - La sconfitta di Napoleone, p. 169 - Edgar Allan Poe spiega il mistero, p. 171 - Una sfida all'intelligenza umana, p. 177 181 Vecchi robot e vecchie paure Un erede senza grazia e fantasia, p. 181 - Due razze a confronto, p. 184 - Verso l'integrazione, p. 188 195 Nuovi robot e nuove paure Le macchine a controllo numerico, p. 195 - L'Ottocento è finito, p. 199 203 L'uomo e il suo doppio Nuova rivoluzione, p. 203 - Nuova Babele, p. 206 210 Il saba letterario Profilo dei tempi antichi, p. 210 - Il recupero malato, p. 213 - Fantascienza & robotica, p. 218 - I personaggi, p. 223 235 Note |
| << | < | > | >> |Pagina 2Di tutti i miti creati dall'uomo, quello dell'automa è uno dei più antichi; e nello stesso tempo è il più vicino a problemi che sono vivi tutt'oggi: è un mito, quindi, che ha saputo perpetuare il proprio fascino mantenendo intatte determinate strutture. Il mito dell'uomo artificiale è un mito «moderno»: si realizza infatti nella tecnica. L'aspirazione antichissima, originaria dell'uomo di superare i propri limiti esistenziali ha saputo, qui, cercare la realtà e investigare le complesse leggi dell'universo. È una costruzione mitica sempre aggiornata, sempre contemporanea, caratterizzata da un'inconsueto, affannosa e spesso delirante ricerca della «materia» in cui concretarsi. La proiezione che l'uomo compie nell'automa è un superamento; chiaramente, si cerca di realizzare le proprietà della sostanza vivente in una materia diversa da quella umana: la formula della vita verrà riprodotta in modi che possano sfuggire alle ineluttabili e angoscianti leggi naturali. È la ricerca dell'immortalitá. | << | < | > | >> |Pagina 14Un periodo storico delineato e conosciuto, e soprattutto una grande figura di inventore che in questo periodo ha operato, ci aiutano molto a configurare il passaggio dalla leggenda dagli imprecisi contorni alle prime ricerche tecniche sugli automi. Nel terzo e nel secondo secolo a.C. agiscono in Alessandria, divenuta grazie ai Tolomei punto focale di commercio e scienza, personaggi che presentano ancora frange mitiche, ma le cui opere sono note e si prestano ad un'interpretazione critica molto stimolante. Ctesibio e Filone di Bisanzio sono nomi famosi e di impervia valutazione: Vitruvio attribuisce a Ctesibio la scoperta della forza motrice dell'aria e della clessidra meccanica; nell'opera di Filone si ritrovano molti apparecchi che devono all'acqua la possibilità di movimento: ingegnosi meccanismi degni di figurare in quella scuola che, con il nome di Alessandrina, diverrà tanto conosciuta. Ma il genio che illumina il periodo è Erone, straordinaria figura di anticipatore, incredibile autore di trattati dove «c'è già tutto». La sua produzione è così sorprendente, così vicina a moduli e realizzazioni moderne, che proprio da Erone parte e si impernia la discussione su uno dei più affascinanti enigmi storici: perché, cioè, pur avendo teorizzato e anche realizzato molti dei principi tecnici e scientifici dell'età nostra (Erone conosce la forza del vapore), questi non siano mai stati applicati ad alcunché di utile; perché, quindi, secoli e secoli siano trascorsi prima che queste baluginanti anticipazioni potessero trovare pratico riscontro. Chi fosse Erone non è ben chiaro: qualche storico ha addirittura negato la sua esistenza, affermando che heron era vocabolo che indicava, genericamente, il raffinato meccanico, l'inventore, l'ingegnere. Per cui - Erone sarebbe una simbolica figura che riassume in sé secoli di scoperte e di preziose teorizzazioni. Con una simile tesi ci si rifiuta, implicitamente, di credere che un uomo solo sia stato capace di tanto; e non si parla solo di un eccitante turbinio di invenzioni, ma anche del merito di avere iniziato una tradizione scientifica: le opere di Erone contano moltissimo per la tecnica islamica; e nel Rinascimento vengono riscoperte e tradotte, divenendo una delle basi del rifiorire della tecnica e della scienza su basi teoriche e colte. Erone, invece, è esistito: possiamo affidare ad un uomo, e non ad una impersonale tradizione, la riconoscenza che va ai precursori. Quel poco che sappiamo di lui è tanto banale da far sospettare che sia anche vero: si dice che cominciò a guadagnarsi il pane come calzolaio (e Ctesibio, d'altronde, aveva tenuto bottega di barbiere). Il periodo in cui operò: il I secolo d.C. | << | < | > | >> |Pagina 17Erone rientra a tutti i diritti in una storia degli automi: l'altra sua opera famosa si intitola proprio Automata, e tratta la meccanica dei corpi solidi. Anche questa ha conosciuto vivissimo successo, e le copie manoscritte devono essere state ben numerose, se la biblioteca nazionale, a Parigi, ne conta addirittura sette di molto antiche. Erone comincia a distinguere, in quest'opera, gli automi a base mobile da quelli a base fissa: nel primo caso la base ruota su specie di rotaie, e il motore, che si giova principalmente di un gioco di contrappesi, produce un gioco di personaggi e di oggetti. Nel secondo caso la base è immobile: e su di essa si recita. È proprio questo il celebre teatro meccanico di Erone, popolarissimo presso i contemporanei, imitato, copiato, perpetuato per gli anni come una delle maggiori meraviglie.| << | < | > | >> |Pagina 27Proprio da Erone, e precisamente dal teorema III dei Pneumatica, partì Salomon de Caus per l'elaborazione della roue musicale: un cilindro che veniva programmato secondo principi estremamente moderni. Salomon, pressoché sconosciuto e felicemente ignorato, caso assai comune a tutti i predecessori delle teorie dell'automazione, è certamente il primo ad aver pensato alla programmazione in termini scientifici. Per Erone, si è visto, fungeva il sistema delle cordicelle che si rotolavano e srotolavano su tacche fisse; Al-Jazari testimonia invece un cilindro ruotante «a schegge» che poteva azionare leve di comando; nel Rinascimento avremo l'applicazione dei tamburi a camme agli organi meccanici; ma è di Salomon de Caus (vissuto fra la fine del '500 e i primi decenni del '600) la geniale intuizione che le «schegge» potevano essere disposte in modi diversi e particolari: così è possibili programmare un numero assai ampio di attività (ad esempio, il canto di un pettirosso). Salomon pensa ad una carta di dimensioni identiche a quelle del cilindro ruotante, con su disegnata una retinatura: in ascisse i tempi e le misure dello spartito, in ordinata le note della melodia. Questa carta «informata» viene collegata al cilindro, in cui figurano, secondo le istruzioni della carta, pioli, cavicchi, schegge; dice Salomon nella fondamentale, Raison des forces mouventes: «Quanto alle suddette tacche queste saranno disposte secondo la canzone che si vorrà far eseguire al suonatore [...] e quando si vorrà cambiare canzone, ciò si potrà fare, smontando il pignone della ruota musicale [...] e ciò fatto la si potrà predisporre per un'altra canzone». | << | < | > | >> |Pagina 36Si é visto, quindi, che il meccanismo non può vivere solo, non può esistere giustificato solamente dalla «funzione»: il simbolo lo sopravanza nella rappresentazione, e l'allegoria ha un suo regno incontrastato. Nell'iconologia medievale troviamo i metalli rappresentati in forma d'uomo; non solo, ma si «traveste» un meccanismo che parrebbe impensabile: le macchine da guerra hanno aspetto zoomorfo, draghi e creature tratte da deliranti bestiari mascherano catapulte e cannoni. È chiaro, perciò, che l'autore di meccanismi si trova ad operare in un ambiente particolarissimo. Il costruttore d'automi (autentici o presuntí) ha contro una società che maschera la tecnica con il simbolo, e che, di fronte all'automatismo che si pone come tale, reagisce con violenza. Una cronaca di Norimberga del 1398 afferma: «I meccanismi rotanti che fanno opere, gesti, e follie strane vengono direttamente dal demonio». Ora, una delle consuetudini delle storie della scienza e della tecnica è quella di affermare genericamente che gli inventori vengono perseguiti e condannati perché «ispirati dal diabbolo»; e su questo tanto è stato scritto, e tanti gli esempi, che non voglio riprendere l'argomento. Ciò che mi sembra invece di molto interesse è arrivare ai «perché» di queste condanne, di isolarne insomma i motivi specifici. Per la storia degli automi vi sono alcune direttrici che possono dare ottimi risultati: una è il particolare atteggiamento che la società medievale assume nei confronti del corpo umano; un'altra può essere l'ambiguo, contraddittorio e interessato atteggiamento che la Chiesa assume nei confronti dei costruttori di automatismi. | << | < | > | >> |Pagina 41C'è una zona di licenza dove il costruttore d'automatismi può operare senza il timore che le sue creazioni suscitino l'accesa e terribile condanna morale: ed è la progettazione e la costruzione di orologi, vero simbolo della bravura e della genialità degli automatisti medievali. I molti studi di rivalutazione della storia tecnica del Medioevo ci hanno delineato un panorama decisamente vasto delle conquiste di questo periodo così denigrato: dall'attaccatura dei cavalli alla loro ferratura, all'invenzione della staffa, al perfezionamento dei mulini ad acqua e a vento, all'applicazione dell'energia del vapore, all'introduzione di strumenti di enorme importanza (manovella, arcolaio, bussola, bilancia), alla scoperta e all'uso della polvere da sparo. La misura del tempo effettuata da uno strumento non è, ovviamente, una scoperta medievale; ma è proprio nel Medioevo che l'orologio viene notevolmente perfezionato, è nel Medioevo che viene inventato l'orologio meccanico; è ancora nel Medioevo che questo strumento comincia a essere interpretato come simbolo del meccanismo e, perfino, dell'universo meccanicizzato. Il costruttore d'orologi non è, quindi, semplicemente e solamente un artigiano: alla bravura artigianale segue, complemento presente in moltissimi casi, una vera genialità inventiva, così da ritrovare, proprio in quest'arte, parecchi dei talenti più notevoli del tempo. | << | < | > | >> |Pagina 51Un elemento che non va trascurato nel delineare la difficile posizione del costruttore di automatismi è quello del livello stesso in cui si svolge il suo lavoro, vale a dire la sua accettabilità nella fase operativa. Realizzare «con le proprie mani» è sempre stata operazione vista con estremo sospetto: è tutto il pensiero di una speculazione filosofica che sfocia in un famoso assunto di Platone, spessissimo citato. Anche in seguito, pur se si ritrovano zone di operazioni su cui non si appuntano strali aristocratici (è il caso degli orologi), colui che fabbrica i meccanismi è esposto a una considerazione sociale che definire scarsa è poco. Questo disprezzo verso il «fare» meccanico è duro a morire, se è vero che ancora nel 1613 il giurista Charles Loyseau si sentiva tenuto ad affermare: «Viene comunemente chiamato meccanico ciò che è vile e abietto»; se è vero che il Dictionnaire Français del Richelet, che è del 1680, così definiva il meccanismo: «Questo termine, parlando di determinate arti, significa ciò che è contrario a liberale e onorevole: ha senso di basso, villano, e poco degno di persona onesta». E son molto note le polemiche vivissime ancora in grado di suscitare l'apparizione della Encyclopédie, accusata, in specie dai gesuiti francesi, di concedere troppa importanza ad argomenti tecnici. | << | < | > | >> |Pagina 61Una disputa capace di durare quasi due secoli; una discussione in cui intervengono via via filosofi, scienziati, teologi, letterati; una querelle fra le più insolite, incuriosenti, divaganti; e un contenuto, una materia prima si potrebbe dire, che, bene riutilizzata oggi, sarebbe capace di dimostrare che i focolai non sono del tutto sopiti. Si sta parlando della vertiginosa, amplissima discussione sull'uomo-macchina, iniziata, come si sa, da enunciazioni cartesiane, proseguita con violenza diffamatoria da un'eterogenea folla di pensatori, esplosa con catastrofica evidenza all'apparire de L'uomo macchina di Lamettrie; e sfociata poi con toni quasi solenni nelle consacranti colonne dell' Encyclopédie. Se si riflette che oggi il problema dell'uomo come macchina è ancora valido come assunto, si potrebbe pensare all'antica disputa come un ghiotto invito, come un succulento banchetto storico per chi si occupa, da qualsiasi punto di vista, del problema degli uomini e delle macchine. Invece il ricordo sembra spento, il filo degli straordinari interventi e delle clamorose prese di posizione disunito e spezzato; né sembra esista un apocalittico polemista che si sia proprio rifatto alla questione per trovare malinconici riscontri in un uomo attuale che sarebbe divenuto macchina per svilimento di funzioni, per abdicazione di intelligenza, per resa supina e irreversibile, e via dicendo. Così, riassumere brevemente i termini e lo svolgersi dell'intricata vicenda ha almeno un senso per la storia degli automi; anzi, un'importanza fondamentale, perché se non si conoscesse questa premessa, quest'orizzonte filosofico, non si riuscirebbe neppure a comprendere il sorgere della grande stagione degli automi: quel Settecento in cui l'essere artificiale non è né semplice curiosità né simbolo magico né affascinante mistificazione o incompleta precognizione. L'automa settecentesco, come si vedrà, si innesta con vivificante rilievo nel tessuto scientifico dell'epoca, nella ricerca sperimentale, nella speculazione filosofica, nel gioco delle idee. L'iniziale teorizzazione cartesiana è fin famosa: il comportamento degli animali (che hanno l'apparenza dell'intelligenza) si può spiegare con cause puramente meccaniche; gli animali sono macchine, automi, non hanno anima distinta dalla materia. È una teoria che si ricollegava issai bene alla più ampia idea cartesiana di ricostruire «il movimento del mondo» sui principi meccanici. Subito non vi fu scandalo: anche perché, come dice Vartanian, al quale dobbiamo uno dei pochissimi lavori specifici su questo tema, «la teoria dell'animale automa [...] era stata proposta dal suo autore con varie garanzie di pia utilità. La definizione degli animali come macchine contribuiva a favorire la fede nell'immortalità dell'anima umana». Così succede addirittura che alcuni «pii romiti» di Port Royal si mettano con coscienza liberata a maltrattare gli animali: dal momento che questi erano privi d'anima e di sentimenti... Quel che è certo, è che già in Descartes l'animale-automa comincia a confinare con l'uomo-macchina: nel Traité de l'homme il filosofo studia l'uomo ricostruendo ipoteticamente una statua animata sul modello di una macchina umana: «E invero si possono benissimo paragonare i nervi ai tubi delle macchine [...] i suoi muscoli e i suoi tendini agli altri vari congegni e molle [...] inoltre la respirazione e altre simili azioni naturali di questa macchina [...] possono essere paragonate ai movimenti di un orologio e di un mulino». Secondo Vartanian, questo passo ci porterebbe da L'homme a L'homme machine di Lamettrie, «il quale semplicemente continuava ad affermare che Descartes aveva descritto non una statua ma un reale essere umano». La reazione adesso si fa sentire. La Chiesa non tollera che vi sia un naturalismo che sta germinando: scoppia una disputa dai toni accesi, apocalittici, minacciosi; è un'affannosa e dura difesa del dualismo metafisico così oltraggiosamente minacciato. | << | < | > | >> |Pagina 100Si è detto che quella di Vaucanson è un'esistenza singolare: una vita che corre su piani diversi, spesso sul punto di intersecarsi e intralciarsi, che solo una costanza e una fede incrollabilí, come ebbe quest'uomo straordinario, hanno potuto tener divisi. Nel 1740 la fama di Vaucanson aveva raggiunto l'apice: era indiscutibilmente il più grosso talento della meccanica dell'epoca. E i governanti francesi pensarono a lui per risolvere uno dei problemi scottanti della vita industriale del paese: quello che riguardava l'industria della seta. Questa era in pessime condizioni, sia per l'arretratezza tecnica sia per la mentalità tutt'altro che aperta degli industriali. Il risultato finale era una materia prima di qualità scadente, così da rendere necessarie le importazioni dal Piemonte, la cui industria era, in questo settore, in una posizione d'avanguardia. Il Controllore Generale, Orry, interessò al problema Vaucanson, fino a quel momento del tutto estraneo a problemi industriali di qualsiasi genere. Perché Vaucanson accettò la patata bollente non sappiamo: forse per la cronica mancanza di denaro, forse perché avvertiva il fascino di un'impresa ardua e per molti versi stimolante. Fatto sta che Vaucanson, dopo qualche viaggio di studio e di documentazione nella provincia lionese e in Piemonte, disse di sì. Il 26 giugno 1741 il Consiglio di Stato nominò Jacques Vaucanson appena trentaduenne, Ispettore Generale delle manifatture del reame. Da quel momento, la vita del grande meccanico è una vita «ufficiale»: vedremo fra poco come riuscì, in questo lavoro, a rendere eccellenti servizi al suo paese, e a realizzare una serie di scoperte e di invenzioni di cui ancora oggi gli siamo debitori.
Per il nostro discorso è importante rilevare subito un'altra
data: nell'agosto dello stesso 1741 all'Accademia di Lione fu
registrato un atto che diceva testualmente:
Monsieur Vaucanson ha portato a conoscenza di questa
Accademia un suo progetto, vale a dire la costruzione di un
automa che imiterà nei movimenti tutte le funzioni della
vita, la circolazione del sangue, la respirazione, la
digestione, i movimenti dei muscoli, dei tendini, dei nervi
e così via. L'autore ritiene che potrà, per mezzo di questo
automa, fare esperienze sulle funzioni animali e trarre
induzioni per conoscere i differenti stadi della salute
umana, per rimediare così ai suoi mali. Questa macchina
ingegnosa, che rappresenterà un corpo umano, potrà infine
servire per una dimostrazione in un corso di anatomia.
È un documento estremamente importante: da un lato è la chiara dimostrazione che la passione di Vaucanson più autentica, quella appunto di rifare là vita umana, lo aveva portato a lavorare, in assoluto silenzio, per tutti gli anni delle clamorose dimostrazioni degli altri automi. Da un altro lato, è l'indizio più evidente che neppure la nuova, impegnativa occupazione gli aveva fatto dimenticare o mettere in secondo piano questo progetto. Vaucanson, quindi, continua la «seconda linea» della sua vita, e la perseguirà sempre con la massima tenacia. | << | < | > | >> |Pagina 102Questi avvenimenti, queste discussioni, questo clima culturale suggeriscono un confronto, un parallelo. Il parallelo è quello fra la ricerca della vita artificiale, ieri, e quello dell'intelligenza artificiale oggi. L'espressione «intelligenza artificiale», ricordiamolo, nasce a metà degli anni Cinquanta e viene attribuita a John Mc Carthy, che insieme a Marvin Minsky (forse il nome più famoso fra i ricercatori) creò l'Artificial Intelligence Group al MIT, ben presto luogo geometrico per tutti gli studiosi. Vediamo di tracciare i contorni del nostro confronto. Nel Settecento, proprio come ai nostri giorni, gli uomini appassionati al tema della vita artificiale si trovavano alle prese con un problema capace di frustrare le menti più avanzate: allora i problemi connessi con la circolazione del sangue, oggi gli interrogativi posti dal funzionamento del cervello umano. | << | < | > | >> |Pagina 195Il robot inaudito, la macchina antropomorfa, la creatura letteraria e fantastica, non è ancora rottura totale con la figura di automa che abbiamo seguito per tutto il libro. Il primo robot infatti non sorge da esigenze concrete, produttive: nasce invece da esigenze psichiche. Quando invece entra in scena il robot «vero», quello di cui parliamo ai giorni nostri, entra in scena anche il «lavorare». Non è più un'utopia negativa, non è più un incubo, non è un ammonimento: è una realtà operativa. La radice della parola cèca si è per così dire interrata: ora ne vediamo i frutti. L'inversione non potrebbe essere più drastica: l'automa si poneva un compito sublime e gratuito, l'automa «lavorava» nel campo della conoscenza, della sfida all'intelligenza: la sua - si è detto - è una scommessa filosofica che si invera nella tecnica. Attenzione, però: il passaggio fra le due fasi è subdolo, ambiguo. I primi veri robot dell'era moderna sembrano a prima vista curiosamente imparentati con la progenie precedente: sono infatti un piccolo zoo di creature curiose e strampalate. Henry Piraux (1929) costruisce un cane da guardia elettronico, Grey Walter esibisce Elsa, celebre tartaruga anch'essa elettronica; fra il 1950 e il 1953 Albert Ducrocq origina una nuova razza, le bestie artificiali Miso che precedono la notissima serie di volpi cibernetiche (i loro nomi: Job, Barbara, Cesare, Felepton), Queste abili creature sono in grado di «vedere», di «sentire», di orientarsi e perfino di annusare tutto attorno. Saranno queste bestiole a orientare i nuovi robot. Infatti, proprio negli anni Cinquanta accade qualcosa di nuovo. Nascono le macchine a controllo numerico: un'unità di controllo traduce espressioni matematiche codificate in comandi di movimento. La macchina comincia a fare qualcosa che la differenzia notevolmente dalla sua antenata che si rifà ancora al servomeccanismo di Watt: esegue operazioni molto complesse senza interventi manuali. | << | < | > | >> |Pagina 199Eppure... eppure, queste sono le macchine che, gli uomini del mestiere hanno definito «stupide». Questi robot, agli occhi smaliziati del tecnico, hanno difficoltà con due sensi importanti: vista e tatto. Il robot riesce a riconoscere gli oggetti posti su un piano, ma con la terza dimensione le cose non sono tanto semplici, nonostante l'uso di due telecamere con visione stereoscopica.
Insomma: macchine capaci di fare da sole lavori basati
sulla ripetizione di movimenti (come la saldatura e la
verniciatura) si conoscono dagli anni Sessanta, ma - secondo
gli specialisti - non sono altro che macchine utensili un
po' più sofisticate. Per avere un autentico progresso un
robot deve «sentire» e «capire», deve cioè regolare il
proprio movimento in maniera intelligente. Non deve, in
altre parole, obbedire passivamente a un programma, ma far
interagire quel programma con il feedback ricevuto dai
propri sensori.
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