Copertina
Autore Gérard Chaliand
Titolo Storia del terrorismo
SottotitoloDall'antichità ad Al Qaeda
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 , pag. 550, cop.ril.sov., dim. 15,5x23,7x4 cm , Isbn 978-88-02-07672-0
OriginaleHistoire du terrorisme. De l'Antiquité à Al Qaida
EdizioneBayard, Paris, 2006
CuratoreGérard Chaliand, Arnaud Blin
PrefazioneLuigi Bonanate
TraduttoreDaniele Rocca
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe storia criminale , storia antica , storia moderna , storia contemporanea , guerra-pace , movimenti
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Indice


 XI Prefazione di Luigi Bonanate
XIX Presentazione di Gérard Chaliand
  3 Introduzione di Gérard Chaliand e Arnaud Blin

 15 Il terrorismo come strategia di insurrezione
    Ariel Merari


 47 Parte prima - La preistoria del terrorismo

 49  1  Zeloti e Assassini
        Gérard Chaliand, Arnaud Blin

 76  2  Manifestazioni del terrore attraverso le epoche
        Gérard Chaliand, Arnaud Blin


 91 Parte seconda - L'era moderna, dal 1789 al 1968

 93  3  L'invenzione del terrore moderno
        Gérard Chaliand, Arnaud Blin

112  4  I terroristi anarchici del XIX secolo
        Olivier Hubac-Occhipinti

131  5  Il terrorismo russo (1878-1908)
        Yves Ternon

176  6  La «Belle Ιpoque» del terrorismo
        Gérard Chaliand, Arnaud Blin

201  7  Lenin, Stalin e il terrorismo di Stato
        Gérard Chaliand, Arnaud Blin

213  8  Il terrorismo in guerra: dalla Seconda Guerra
        mondiale alle guerre di liberazione nazionale
        Gérard Chaliand, Arnaud Blin


225 Parte terza - Il terrorismo contemporaneo, dal 1968 a oggi

227  9  Dal 1968 all'islamismo radicale
        Gérard Chaliand, Arnaud Blin

265 10  Le radici dell'islamismo radicale
        Philippe Migaux

328 11  Al Qaeda
        Philippe Migaux

368 12  L'avvenire della corrente islamista
        Philippe Migaux

384 13  Le operazioni suicide: fra guerra e terrorismo
        Franηois Géré

422 14  Gli Stati Uniti di fronte al terrorismo
        Arnaud Blin

446 15  Il nuovo volto di Al Qaeda: La minaccia del
        terrorismo islamista dopo 1'11 settembre
        Rohan Gunaratna

466 16  Panorama della situazione dopo il 2004
        Philippe Migaux

507 Note

517 Bibliografia

523 Indice analitico


 

 

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Pagina XIX

Presentazione



Ci sono due modi di considerare il fenomeno terroristico, soprattutto da quando esso ha assunto una dimensione planetaria nella sua versione salafista, incarnata dal modello di Al Qaeda: accordargli un'estrema importanza, giustificata dal suo impatto psicologico, dall'ubiquità e dalla tangibile mobilitazione dei mezzi posti in essere per prevenirlo o fronteggiarlo, e questo è il caso, con varianti significative, in rapporto ai media, di chi popola quegli Stati dalle tendenze contrastanti, per esempio, fra gli Stati Uniti e l'Europa occidentale; oppure, senza dare un giudizio prematuro sull'avvenire, destinato a riservare sorprese, ritenere piuttosto deludente il bilancio per quanti in occasione dei bombardamenti americani in Afghanistan si riproponevano di mettere il mondo a ferro e fuoco, a partire dai giorni successivi all'11 settembre 2001.

Alcuni paesi sono stati particolarmente presi di mira: Arabia Saudita, Pakistan, Egitto, Indonesia, Filippine, Marocco ecc. Per gli occidentali, essi rappresentano la periferia, ma nell'ottica dei regimi interessati ciò costituisce una minaccia che, come in Pakistan o in Arabia Saudita, va presa sul serio.

Malgrado una serie di allarmi rossi strumentali a manipolazioni politiche, cui l'amministrazione di G. W. Bush ha fatto sovente ricorso, gli Stati Uniti non hanno subito alcun attentato. L'Europa occidentale è stata colpita due volte, a Madrid nel 2004, a Londra nel 2005; molti attentati sono stati sventati. I più micidiali sono stati quelli del Caucaso del Nord, dove gli jiandisti di Shamil Basaev si sono rivelati ancora una volta particolarmente efficaci, quelli di Bali in Indonesia e di Manila nella Filippine. Nonostante ciò, il numero totale delle vittime del periodo compreso dal 2002 al 2005 non raggiunge quello della sola giornata dell'11 settembre 2001.

Spinti dalla frustrazione e da una rinata volontà di potenza, gli jiandisti hanno come programma da una parte la ricostituzione della Umma, comunità dei fedeli, al di là di quelle frontiere createsi in gran parte nel periodo coloniale, dall'altra la restaurazione del califfato. Del resto, essi progettano di ritornare alla purezza, reale o supposta, dell'Islam dei primi secoli. A tal fine, esibiscono un'ostilità dichiarata verso l'Occidente, la Russia (Cecenia), l'India (Kashmir), la Cina (Xin Jiang) e verso tutto l'insieme dei regimi di quei paesi musulmani considerati empi. Questo programma utopistico ha il punto debole di non contenere alcun rimando al problema dello sviluppo economico e di essere fondato soltanto su di un moralismo totalitario, dove le donne sono le principali vittime, al pari degli oppositori. Occorrerebbe inoltre, per impadronirsi del potere, essere in grado di passare da un jihad di gruppi clandestini a uno di massa.

Mentre la maggior parte del mondo che si estende dall'India alla Cina s'impegna con successo per assicurarsi un rapido incremento economico, gli jihadisti s'ingegnano, forse senza saperlo, e con la sensazione di vivere un'epopea, a far perdere venti o trent'anni a un mondo musulmano che non avrebbe alcun bisogno di vedere ulteriormente accresciuto il proprio ritardo.

La tendenza rappresentata dal terrorismo jihadista possiede la doppia caratteristica di poter durare per almeno una generazione e di trovarsi nell'assoluta incapacità di rimettere in discussione lo status quo mondiale. Quest'ultimo si va trasformando, dalla caduta dell'URSS, in seguito alla sistematica azione di rimescolamento delle carte esercitata dagli Stati Uniti alla periferia di una Russia (Georgia, Ucraina ecc.) che essi vogliono indebolire, e dalla rapida ascesa della Cina.

In rapporto a questo indirizzo generale, senza dubbio l'urlo e il furore degli jihadisti non lasceranno più tracce nella storia di quelli degli anarchici che, all'inizio del secolo scorso, tanto sconvolsero gli Stati, dall'Europa centrale agli USA, assassinando presidenti della Repubblica e teste coronate per creare un mondo libero dalla tirannia statale, dove non ci fossero più padroni.

Gérard Chaliand

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Introduzione
di Gérard Chaliand e Arnaud Blin



«Fra tutte le passioni che possono sospingere la volontà dell'uomo, non ce n'è alcuna di più incompatibile con la ragione e la libertà del fanatismo religioso»

Maximilien Robespierre


Eravamo a Washington per una conferenza sul terrorismo, o più esattamente sull'antiterrorismo, organizzata dai servizi di informazione del Pentagono, la Defense Intelligence Agency (DIA). In netta maggioranza, i partecipanti lavoravano per i diversi (e numerosi) servizi di informazione americani, tutti più o meno coinvolti nella lotta antiterroristica. Dopo la Guerra fredda, la gran parte di questi lavoratori occulti erano stati fatti confluire in un settore ormai riconducibile alla più ampia categoria delle «nuove minacce», minacce che comprendevano anche la proliferazione nucleare, le armi di distruzione di massa, il crimine organizzato. Questa strana congrega di uomini vestiti in modo uniforme ascoltava concentrata i discorsi dei conferenzieri, che si succedevano per dissertare intorno all'essenza della lotta contro il terrorismo. Sul finire della giornata, quando uno stanco uditorio si preparava ad ascoltare l'ultimo intervento, saltò su uno strano personaggio che avanzò a lunghe falcate verso il palco, una valigia e una sacca in mano. I lunghi capelli coperti da un cappello nero, la barba folta, gli occhiali scuri, i pantaloni strappati e la giacca in pelle, l'uomo faceva contrasto rispetto ai burocrati del servizio informazioni. Con un unico movimento, aprendo sacca e valigia alla velocità del lampo, lo sconosciuto fece oscillare due granate sulla folla e puntò un fucile M16 sull'uditorio sconcertato.

Non vi fu alcuna esplosione. L'M16 era rimasto in silenzio. In tutta tranquillità, l'individuo si accomodò al microfono e cominciò il proprio discorso.

La sala, o almeno una parte di essa, aveva tutt'a un tratto riconosciuto una voce familiare. Si trattava del direttore della DIA: dunque un generale. Travestito da «terrorista», aveva voluto mostrare al proprio seguito con quale facilità un terrorista potesse introdursi nell'edificio in cui aveva luogo il colloquio (all'interno dell'università «George Washington», dove non era stato posto in essere alcun controllo di sicurezza), ed eliminare la crema dell'antiterrorismo americano.

Rimessa la divisa, il generale pronunciò queste parole profetiche:

Un giorno, dei terroristi si scaglieranno contro un edificio come questo, a Washington o a New York. Provocheranno centinaia di vittime e uno choc psicologico senza precedenti. La questione non è di sapere se un tale atto avrà luogo sul suolo americano, ma quando e dove. Sta a voi, signori miei, prepararvi. La sicurezza del nostro territorio è nelle vostre mani.

Il colloquio si svolgeva nel 1998. Tre anni più tardi, 19 uomini pronti a tutto provocavano tremila vittime nell'attentato terroristico più spettacolare della storia, colpendo New York e Washington. Il Pentagono, sede della DIA, fu anch'esso colpito. Per la loro negligenza, i servizi di informazione americani non avevano saputo impedire quest'operazione.

Col senno di poi, quella messinscena sembrava quasi surrealista. Anzitutto per i discorsi del capo dei servizi informazioni del Pentagono. In secondo luogo, a causa dell'incapacità di quegli uomini a seguirne i consigli, nonostante la loro esattezza. Si aggiunga il divario fra quest'immagine, un po' datata, di un fanatico marginale pronto a far esplodere praticamente ogni cosa — più o meno identica a quei disegni umoristici che mostravano un anarchico avvolto in un mantello nero, con una bomba fra le mani — e i discorsi sul terrorismo di domani, ad alta tecnologia, quel famoso «iperterrorismo» contro il quale i politici si preparano.

Il fenomeno terroristico è più complesso a concettualizzarsi di quanto non sembri a prima vista. Le interpretazioni ideologiche e la volontà d'introdurvi, quando siano in particolare gli Stati a far uso del termine, una connotazione demonizzante, contribuiscono a confondere le carte. Forse bisognerebbe cominciare ricordando che il terrore serve a terrorizzare. Storicamente, questo era il ruolo della forza organizzata: Stato oppure esercito, almeno quando si trattava di regimi dispotici. Θ ancora questo il caso dei paesi non democratici. Negli altri, in tempo di guerra, il terrore può essere considerato legittimo, compreso quello contro i civili. In epoca contemporanea, si possono citare i bombardamenti di Coventry, Dresda, Tokyo e l'uso della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki.

Il terrore in nome della religione, il terrore dei fanatici, è un fenomeno storico ricorrente. Nel giudaismo l'esempio più noto è quello degli Zeloti, chiamati anche Sicari, nel primo secolo. Questa setta assassina contribuì a provocare una ribellione contro l'occupazione romana, la quale portò alla distruzione del secondo Tempio (70 d.C.). Dal canto suo, la setta ismaelita degli Assassini si mise in luce in seno all'Islam. Lungo quasi due secoli (1090-1272) essa praticò l'assassinio politico all'arma bianca contro i dignitari musulmani. Nessuna setta cristiana ha utilizzato il terrore con risultati così clamorosi; ma si possono citare i taboriti di Boemia (XIV sec.) o gli anabattisti (XVI sec.), senza parlare delle derive dell'Inquisizione. Allo stesso modo, i movimenti messianici veicolano il terrore e se ne alimentano.

Il messianismo postula che, in un giorno non troppo lontano, il mondo sarà totalmente trasformato da un evento destinato a sancire la fine della storia. Nel Cristianesimo dei primi secoli, la credenza in una prossima fine che segnasse la seconda venuta del Cristo (parusia) è stata frequente. L'idea di «apocalisse» è intimamente legata ai diversi messianismi, e ciò non solo fra le religioni rivelate. Gli Aztechi credevano che quattro soli (quattro mondi) si fossero estinti. Erano spaventati dal terrore di una prossima fine, secondo loro inevitabile: a meno che essi non donassero al sole il sangue dei sacrifici umani.

Lo spirito messianico si è mantenuto vivo in seno al giudaismo (si pensi al movimento di Sabbattai Zevi nel XVII secolo). Il ritorno alla «Terra promessa» ha prodotto, all'indomani della vittoria nella guerra del 1967, un revival messianico, con la creazione del Gush Emunim, e non è estraneo al dinamismo del movimento di colonizzazione della Giudea e della Samaria (Cisgiordania). In seno al Cristianesimo, il messianismo è oggi manifesto in certe sette protestanti fondamentaliste le cui origini risalgono al XIX secolo. Fra queste, il potente movimento evangelico è particolarmente sensibile alle vittorie di Israele, i cui passi avanti sono, ai suoi occhi, il prerequisito necessario per la parusia.

Anche l'Islam conosce movimenti di questo genere, soprattutto in relazione all'attesa venuta del Mahdi (l'equivalente del Messia cristiano). Nello scisma duodecimano (Iran), con l'attesa di un dodicesimo imam, il messianismo è centrale. Benché si tratti di un conflitto politico, gli avvenimenti e gli antagonismi che attualmente alimentano le violente opposizioni fra gli islamisti radicali e gli Stati Uniti, come lo scontro israelo-palestinese, hanno anch'essi una dimensione messianica. Contrariamente a un'idea da molti condivisa, non si tratta di uno «scontro di civiltà ». Gli antagonismi sono egualmente vivi all'interno delle singole società, come dimostra, per esempio, l'attacco condotto nel 1979 dai sunniti radicali, in maggioranza sauditi, alla Grande Moschea in occasione del pellegrinaggio annuale; oppure, nel 1995, l'assassinio – ad opera di un membro della setta Gush Emunim – di Ytzak Rabin, colpevole di acconsentire all'abbandono della Giudea e della Samaria (Cisgiordania).

Il terrorismo religioso è concepito come un atto di carattere trascendentale. Giustificato dalle autorità religiose, offre ogni licenza ai suoi protagonisti, che divengono strumenti del sacro. Il numero delle vittime, la loro identità, non ha più importanza. Non c'è un giudice al di sopra della causa per la quale il terrorista si sacrifica. Gli autori del primo attentato contro il World Trade Center, riuscito solo in parte (1993), avevano prima ottenuto una fatwa dello sceicco Omar Abdel Rahman, oggi in prigione negli Stati Uniti.

Questa rapida digressione sul terreno religioso, o almeno su uno dei suoi aspetti, ci allontana solo in apparenza dal nostro oggetto, che è il terrorismo, visto che molto spesso, per il lettore contemporaneo, è da ridursi al terrorismo islamico. Ricordiamo a tale riguardo che l'Islam lega strettamente problemi teologici e problemi politici.

La ragione dí questa specificità dell'Islam attiene alla sua genesi. Il capo supremo, per riprendere un vocabolario più vicino al nostro, era al tempo stesso dirigente religioso e politico. In seguito, questo modello ideale non fu seguito. Si sono costituiti, fino a un certo punto, un apparato politico e uno religioso e giuridico, ma nell'animo dei musulmani l'ideale rimaneva quello di una struttura unica, l'Islam, attraverso il Corano, inteso come religione e organizzazione politica (Dar we Dawla). Le condizioni della nascita della Chiesa sono state differenti. Anche quando nel IV secolo il Cristianesimo diviene la religione dell'Impero, i due apparati, il religioso e il politico, restano distinti, benché per un breve periodo nel Medioevo ci sia stata la tentazione, per la Chiesa, di imporsi sui detentori del potere temporale.

Una costante dei movimenti religiosi è quella di frammentarsi in sette. I movimenti scismatici si sono sempre proclamati detentori della vera interpretazione del credo originale.

Le correnti settarie che si ricollegano all'islamismo radicale, dopo aver fatto ricorso alla guerriglia, si mettono oggi in luce con azioni di carattere terroristico, nutrendosi di una religiosità interpretata in modo tale da suscitare mobilitazione e impegno al servizio di scopi politici.

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Il terrorismo è prima di tutto uno strumento, oppure, se si preferisce, una tecnica. E questa tecnica è vecchia quanto la pratica della guerra, contrariamente all'idea comune, che vorrebbe che il terrorismo nasca con i nazionalismi moderni del XIX secolo. Peraltro, una certa confusione si è prodotta a causa dell'apparizione tardiva di questo termine, con la Rivoluzione francese e il Terrore.

Come tutti i fenomeni storici, il terrorismo si definisce attraverso la dualità che oppone gli ideali proclamati e la loro messa in pratica. E come tutti i fenomeni politici, il terrorismo esiste solo in un contesto culturale e storico. Nell'arco di tre decenni, l'impatto dell'ideologia marxista sui movimenti terroristici ha favorito le sorti di quest'ultima; oggi, i gruppi terroristici che si richiamano al marxismo sono minoritari, mentre negli anni Settanta e Ottanta erano predominanti. Lo stesso dicasi per tutta la storia dei terrorismi, le cui forme si definiscono in rapporto ai contesti politici nei quali essi nascono, vivono e muoiono. Giacché se il terrorismo è un fenomeno che non smette di rinnovarsi, il passaggio delle consegne fra le varie generazioni di terroristi segna spesso una rottura profonda.

L'importanza della componente culturale è attualmente in evidenza nei movimenti terroristici di ispirazione religiosa, più ancora che in quelli nazionalistici, o in movimenti che si richiamino in senso stretto a un'ideologia politica. Sono questi i movimenti che fanno più parlare di sé. Hamas e Al Qaeda, in particolare, mescolano le aspirazioni politiche, o pseudo-politiche (la distruzione di Israele o degli Stati Uniti), con una base religiosa che serve anzitutto per il reclutamento, e che si apparenta, in tal modo, ai principi ideologici di altri movimenti. Notiamo che il terrorismo degli esordi praticato dai palestinesi era essenzialmente politico e laico, e che uno slittamento religioso si è operato dopo la rivoluzione iraniana, nel corso degli anni Ottanta.

Tutto, o quasi, contrappone un'organizzazione terroristica all'apparato dello Stato. Spesso è la natura di questa opposizione a definire il carattere del movimento terroristico. Dove lo Stato appare come fondamentalmente razionale, l'orientamento terroristico sembra avere un carattere fortemente emotivo. Dove l'apparato dello Stato moderno funziona sui principi di una politica «realista» e sulla comprensione dei rapporti di forza, il movimento terroristico inietta nella propria politica una marcata venatura morale (il cui codice varia a seconda dell'ideologia di riferimento) e una strategia, in merito al confronto tra il debole e il forte, che conta essenzialmente sui danni psicologici inferti all'avversario. Raymond Aron colse felicemente in una formula l'essenza del fenomeno dicendo che un'azione violenta è definita terroristica allorché i suoi effetti psicologici sono sproporzionati rispetto ai risultati puramente fisici.

Ciò che si intende oggi per «terrorismo» costituisce quello che gli specialisti chiamano il terrorismo «dal basso». Ora, è il terrorismo «dall'alto», vale a dire quello praticato dall'apparato di Stato, a prevalere nel corso della storia; esso conoscerà la fase di massimo fulgore nel XX secolo, con l'avvento dei totalitarismi. In termini di vittime, il terrorismo «dall'alto» farà infinitamente più danni di quello «dal basso».

Nel contesto di quest'opera, ci interesseremo principalmente, ma non esclusivamente, del terrorismo «dal basso». In quanto strumento, il terrore – che venga «dall'alto» o «dal basso» – sposa i medesimi principi strategici: piegare la volontà dell'avversario corrodendone la capacità di resistenza. Fino al recente passato, non si parlava di «terrorismo di Stato». Il terrorismo di Stato, così come lo intendiamo oggi, si esplica soprattutto nel sostegno offerto da certi regimi (per esempio Libia o Iran) a gruppi terroristici. Ma il terrorismo di Stato riveste ben altre forme. Θ anche uno strumento impiegato in modo sistematico dai regimi totalitari. Il terrorismo di uno Stato si manifesta anche attraverso la dottrina militare delle sue truppe. La dottrina dei «bombardamenti strategici» sviluppata in Occidente durante gli anni Trenta, per esempio, era esclusivamente fondata sul terrore che potevano infliggere dei bombardamenti massicci alle popolazioni civili, al fine di piegare i governi. Da questa dottrina discendono i bombardamenti di Dresda, o anche i lanci di bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

La frontiera tra terrorismi «dall'alto» e «dal basso» è spesso mal definita: pensiamo al Lenin di prima del 1917 e a quello che prende il potere. Noi sappiamo che il terrorista di oggi diventerà magari il capo di Stato di domani, ossia quello con cui questo o quel governo dovrà trattare per via diplomatica. Menachem Begin e Yasser Arafat (o un altro palestinese) possono illustrare questa caratteristica metamorfosi.

La tradizione occidentale considera legittima soltanto la violenza praticata dallo Stato. Questa concezione restrittiva dell'uso del terrore non si adatta nel modo migliore al caso di quanti non dispongono di altri mezzi per tentare di rovesciare una situazione giudicata oppressiva, poiché la legittimità di un'azione terroristica si manifesta attraverso gli obiettivi di chi la compie. Basta leggere qualche intervista di ex terroristi per comprendere che l'idea secondo cui «il fine giustifica i mezzi» si colloca alla base della maggior parte delle azioni terroristiche. Θ la causa del movimento terroristico, più delle sue modalità d'azione, a rivelarsi suscettibile di esser considerata come morale. Nel considerare il quadro delle guerre di liberazione nazionale degli anni Cinquanta e Sessanta, gli atti terroristici sono spesso considerati in modo positivo, poiché hanno accelerato la liberazione dei popoli oppressi. Questi esponenti del terrorismo – in Algeria, in Indocina – sono degli eroi. Per la maggior parte, non hanno alcun rimorso. Si ritorna in tal modo alle considerazioni circa la «guerra giusta» che legittima un'azione violenta.

Ora, in Occidente e altrove, si ha la tendenza a qualificare un'azione come terroristica quando la si giudica illegittima. E questa confusione, sempre pericolosa, fra l'interpretazione morale di un'azione politica e l'azione in sé a offuscare la nostra visione del fenomeno terroristico. Un atto è di solito giudicato come «terroristico» se intriso di fanatismo, o se gli obiettivi dei suoi autori non appaiono né legittimi, né coerenti. L'osservatore non si orienta bene nel labirinto dei movimenti terroristici, i quali variano attraverso i secoli, tanto più che i contesti storici e culturali sono diversi. Altra confusione: l'idea che l'atto terroristico sia per definizione un atto il cui bersaglio debba essere la popolazione civile. Ora, la popolazione civile è bersaglio di una strategia indiretta dal momento in cui, come vittima potenziale, la sua sorte può modificare le decisioni dei dirigenti politici. Θ una visione moderna della politica quella che porta a pensare che la sorte della popolazione civile condizioni necessariamente l'azione dei dirigenti, poiché, com'è noto, il concetto di sovranità popolare, nel cui nome d'altronde si giustifica il terrore di Stato, fa la propria apparizione solo con l'Illuminismo. Un po' più tardi, il terrorismo politico seguirà l'evoluzione della mentalità: i populisti russi del XIX secolo, per esempio, sono fortemente influenzati dalla tradizione romantica.

In pratica, se il terrorismo moderno ha come bersaglio principale il civile, questo fenomeno discende, di fatto, dall'evoluzione generale delle strutture politiche e dall'apparizione dei mass media. Dal 1789, in Occidente, le strutture politiche si sono evolute nella direzione della democrazia. I media moderni, che costituiscono una componente essenziale della democrazia liberale, fanno la loro comparsa nello stesso periodo; inoltre, per definizione, la legittimità politica di una democrazia e dei suoi eletti si fonda sui cittadini. Ciò spiega perché l'arma del terrorismo sia più efficace contro i paesi democratici che contro le dittature. Non è tanto il fatto, come si tende a pensare, che le dittature siano più efficienti nel trovare e nel punire i terroristi — anche se in questo campo esse godono di un margine di manovra più ampio di quanto accade in una democrazia –, ma piuttosto il fatto che la portata di un attentato non è la stessa in un paese libero rispetto a un paese nel quale la popolazione non abbia voce in capitolo, e nel quale i media siano al servizio dell'apparato di Stato, o da esso controllati. Non si sbaglia dunque nell'asserire che il terrorismo moderno è, in parte, una conseguenza della democrazia.

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Nel 1979 l'islamismo radicale, nella sua versione sciita, fa una dirompente apparizione in Iran. Lo stesso anno, la guerra d'Afghanistan, grazie agli Stati Uniti, all'Arabia Saudita e al Pakistan, favorisce l'ascesa dell'islamismo radicale sunnita. Questa corrente, alla quale prendono parte elementi venuti per lo più da paesi musulmani, con l'eccezione dell'Africa nera, si rivolge, dopo la ritirata dell'URSS dall'Afghanistan, contro gli Stati Uniti. Fin dalla metà degli anni Novanta, l'ostilità contro gli USA si materializza in una serie di attentati. Quello dell'11 settembre 2001 ne segna l'apice e determina la spedizione punitiva, condotta da Washington, contro il regime dei talebani e contro quanto sia contraddistinto dal marchio di Al Qaeda. Su iniziativa dell'amministrazione Bush, l'Iraq viene accusato di detenere armi di distruzione di massa, di avere legami con Al Qaeda e di rappresentare una minaccia per la pace nel mondo e la sicurezza degli Stati Uniti. Questa guerra, decisa in modo unilaterale, con l'appoggio quasi esclusivo della Gran Bretagna, condotta in principio contro il terrorismo, dopo la caduta del regime baathista sarebbe stata fonte di difficoltà che il Pentagono non aveva previsto.

Non vi può essere condanna unilaterale del fenomeno terroristico, a meno che non si condanni ogni violenza, quale essa sia. Bisogna almeno esaminare perché e da chi venga praticato. Come in guerra, e forse ancor più, il terrorismo fa leva sugli stati d'animo e le volontà. Di primo acchito, le democrazie si rivelano singolarmente vulnerabili. Ma se la sfida si fa grave, o radicale, la capacità di far fronte a una strategia come questa, fondata sulla tensione psicologica, si rivela ben più grande nella gente di quanto non lascino presupporre le prime reazioni. In quanto ultima spiaggia, il terrorismo è giustificato: nel mondo attuale, il debole non ha altre armi contro il forte. Nel passato, vi hanno fatto ricorso molti movimenti, in seguito legittimati. Detentori della violenza legale, gli Stati hanno il dovere di difendersi, sono chiamati a farlo.

Su di un piano generale, l'uso del terrorismo, come tecnica di pressione da parte di un movimento che abbia un certo spessore sociale, mira a strappare allo Stato delle concessioni e una soluzione negoziale. Nel caso dell'islamismo combattente, la caratteristica peculiare che distingue questo orientamento da tutti i movimenti che lo hanno preceduto è il fatto che non ci sia nulla da rendere oggetto di un negoziato: si tratta in realtà di una lotta fino alla morte.

In quanto fenomeno internazionale, il terrorismo è più un notevole fattore di danno che una forza veramente destabilizzatrice, salvo sotto l'aspetto psicologico. Il terrorismo è il prezzo, tutto sommato modesto, che l'Occidente, e più nello specifico gli Stati Uniti, pagano per la propria egemonia. Con una certa dose di intelligenza politica, occorre cercare di non alimentarlo nell'intento di combatterlo.

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Terrorismo e guerriglia

I termini «terrorismo» e «guerriglia» sono spesso usati in modo indifferente. Al di là di una certa negligenza nell'utilizzo della terminologia tecnica da parte dei media, degli uomini politici e anche degli universitari, questa scorretta sinonimia riflette una confusione che concerne la definizione della parola «terrorismo» e, spesso, il desiderio di evitare la connotazione negativa che essa ha acquisito. Il termine «guerriglia» non fa propria alcuna connotazione diffamatoria; ecco perché sono numerosi gli autori che sembrano rinvenirvi un che di obiettivo. Come fa notare Walter Laqueur, l'utilizzo molto diffuso ma improprio dell'espressione «guerriglia urbana» ha probabilmente contribuito alla confusione. Questa espressione è stata impiegata da rivoluzionari per descrivere una strategia terroristica che sarebbe un'estensione della guerriglia, o il suo surrogato.

In quanto strategie insurrezionali, terrorismo e guerriglia vanno tuttavia completamente distinti. La differenza più importante è che, al contrario del terrorismo, la guerriglia cerca di stabilire il proprio controllo fisico su di un territorio. Un controllo talvolta parziale. In certi casi, i guerriglieri controllano il terreno di notte e le forze governative lo controllano di giorno. In altri casi, le forze governative sono capaci di garantire la sicurezza dei principali raccordi stradali, ma il territorio della guerriglia comincia a qualche centinaio di metri, verso destra o sinistra. In molti casi, i guerriglieri sono giunti a controllare da cima a fondo una data porzione di territorio, nell'arco di lunghi periodi. La necessità di controllare un territorio è un elemento chiave di quella che è la strategia della guerriglia insurrezionale. Il territorio sotto il controllo della guerriglia serve da vivaio per il reclutamento, da base logistica e, ciò che più conta, da terreno e infrastruttura che permette la creazione di un esercito regolare.

La strategia terroristica non cerca di controllare materialmente un territorio. Indipendentemente dal fatto che i terroristi tentino di imporre la loro volontà sull'insieme di una popolazione e di agire sul suo comportamento seminando il panico, questa influenza non ha linee di demarcazione geografiche. Il terrorismo, in quanto strategia, non si appoggia su «zone liberate» come tappa di consolidamento e di allargamento della lotta. Come strategia, il terrorismo si attesta sul piano dell'influenza psicologica ed è privo degli elementi materiali della guerriglia.

Altre differenze pratiche fra queste due forme di guerra accentuano ancor più le differenze di base delle due strategie. Esse rientrano nell'ambito della tattica, ma in realtà sono il prodotto di concezioni strategiche essenzialmente divergenti. Dipendono dalle dimensioni delle unità, delle armi e del tipo di operazioni di guerriglia e di terrorismo. Normalmente, i guerriglieri portano avanti delle azioni militari in unità della dimensione di una sezione o di una compagnia, talora anche di battaglioni e brigate. Si è anche a conoscenza di esempi storici nei quali i guerriglieri hanno utilizzato, nei combattimenti, formazioni della dimensione di una divisione. I terroristi operano in minuscole unità, che vanno in genere dall'assassino isolato, o dalla singola persona che fabbrica e colloca un ordigno esplosivo di fabbricazione artigianale, a una squadra di sequestratori di ostaggi composta da cinque persone. Le squadre più importanti comprendono da 40 a 50 persone. La cosa è tuttavia molto rara. Così, in termini di dimensioni delle unità operative, i limiti superiori dei gruppi terroristici coincidono con i limiti inferiori dei gruppi di guerriglia.

Altrettanto facilmente si possono rilevare le differenze fra le armi utilizzate in questi due tipi di guerra. Mentre i guerriglieri il più delle volte utilizzano armi da guerra di tipo ordinario, come fucili, mitragliatrici, mortai e anche artiglieria, le armi tipiche dei terroristi sono bombe di fabbricazione artigianale, vetture esplosive e ordigni sofisticati che agiscono per pressione barometrica, destinati a esplodere all'interno di aerei in volo. Queste differenze nella dimensione delle unità e nelle armi sono puri e semplici corollari di quanto si è notato sopra, ossia del fatto che, tatticamente, le azioni della guerriglia sono simili alle modalità operative di un esercito regolare. Giacché i terroristi, al contrario della guerriglia, non hanno una base territoriale, essi devono mescolarsi alla popolazione civile per evitare di essere immediatamente scoperti: ecco perché di solito i terroristi, a differenza dei guerriglieri, non possono permettersi di portare un'uniforme. Per chiarire un po' meglio il paragone, mentre la guerriglia e la guerra convenzionale sono due forme di guerra differenti nella loro strategia, ma simili nella loro tattica, il terrorismo è una forma particolare di lotta, sia in materia di strategia che di tattica.


Metodo e causa: terroristi e combattenti per la libertà

I gruppi terroristici qualificano se stessi, in genere, come movimenti di liberazione nazionale, in lotta contro l'oppressione sociale, economica, religiosa o imperialista, o come un miscuglio di tutto questo. Dall'altra parte della barricata, nel comprensibile tentativo di discreditare il terrorismo, gli uomini politici hanno presentato i termini «terroristi» e «combattenti della libertà» come contraddittori. Così il presidente Bush scrive: «La differenza fra i terroristi e i combattenti per la libertà è, talvolta, poco chiara. C'è chi dice che chi è un terrorista per qualcuno, per qualcun altro è un combattente per la libertà. Io respingo questa opinione. Le differenze filosofiche sono assolute e fondamentali».

Senza voler giudicare la descrizione che un gruppo o l'altro fa di se stesso, cercare di presentare i termini «terroristi» e «combattenti per la libertà» come reciprocamente escludentisi su di un piano generale è fallace, dal punto di vista logico. «Terrorismo» e «lotta per la libertà» sono termini che descrivono due aspetti diversi del comportamento umano. Il primo caratterizza una modalità di lotta, il secondo una causa. Le cause dei gruppi che hanno adottato il terrorismo come modalità di lotta sono tanto varie quanto gli interessi e le aspirazioni dell'umanità. Fra le cause addotte dai gruppi terroristici, figurano i cambiamenti sociali, siano le ideologie di destra o di sinistra, le aspirazioni associate a credenze religiose, le rivendicazioni etniche, le questioni ambientali, i diritti degli animali e cause specifiche come l'aborto. Taluni gruppi terroristici lottano incontestabilmente per l'autodeterminazione o la liberazione nazionale. Malgrado ciò, non tutti i movimenti di liberazione nazionale utilizzano il terrorismo per fare avanzare la propria causa. In altri termini, alcuni gruppi insurrezionali sono, nello stesso tempo, dei terroristi e dei combattenti per la libertà, altri l'una o l'altra cosa, altri né l'una né l'altra.

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Fino a che punto il terrorismo viene coronato da successo?

La valutazione del successo del terrorismo, in quanto strategia, dipende dal modo in cui si definisce il successo. La maggioranza dei gruppi terroristici cerca di rovesciare il governo in carica e di prendere il potere: secondo questo criterio di successo, tenendo conto esclusivamente di quegli insorti che hanno fatto uso del terrorismo come strategia principale, solo qualche gruppo anticolonialista ha centrato in pieno il proprio obiettivo. La lotta contro l'autorità britannica dell'Ethniki Organosis Kypriahou Agoniston (EOKA) a Cipro e dei Mau Mau in Kenya, nonché quella del FLN algerino contro la Francia, sono esempi ben noti.

La schiacciante maggioranza delle migliaia di gruppi terroristici in vita nella seconda metà del XX secolo ha miseramente fallito. Non è un caso che i successi del terrorismo siano stati limitati alla categoria delle lotte anticoloniali. Solo in questa categoria la posta in palio è ben più importante per gli insorti che per il governo, il che spiega questo fenomeno. Allorché la lotta dell'organizzazione terroristica ha per obiettivo il cambiamento della natura politico-sociale del regime, come nel caso degli insorti di destra o di sinistra, il governo in carica lotta per la propria sopravvivenza: è pronto a prendere tutte le misure necessarie per stroncare l'insurrezione. Per i governi francese, italiano o tedesco, la lotta rispettivamente contro Action Directe, le Brigate Rosse o la Rote Armee Fraktion metteva tutto in gioco. Non c'era spazio per un compromesso. Il successo dei terroristi avrebbe significato la morte del governo.

Ciò vale anche per la maggior parte delle lotte separatiste. Qui le aspirazioni degli insorti sono percepite dal governo come una minaccia per la sovranità e l'integrità territoriale dello Stato, come nel caso della lotta separatista basca in Spagna. Le differenze di grado nel successo dei terroristi separatisti stanno principalmente nella questione di sapere fino a che punto la secessione della parte contesa del paese sembri, al maggior numero dei cittadini dello Stato, un'offesa alla loro carne e al loro sangue. Per la Francia, ad esempio, abbandonare i protettorati di Tunisia e Marocco o le colonie del Mali e di Madagascar era molto meno doloroso che rinunciare alla propria autorità sull'Algeria, la quale faceva legalmente parte della Francia e contava più di un milione di francesi in seno alla propria popolazione in maggioranza musulmana; rinunciare alla Bretagna o alla Normandia sarebbe impensabile. In questo senso, il successo del separatismo terroristico nella realizzazione dei suoi obiettivi è la misura che permette di determinare fino a che punto il territorio oggetto della disputa costituisca realmente un'entità separata.

Tuttavia, è anche vero che una causa nazionalistica offre motivazioni molto più potenti alla gente di quanto faccia la questione sociale. Di conseguenza, stando così le cose, la violenza nata da sentimenti nazionalistici possiede, in genere, un'intensità maggiore di quella generata dalle rivendicazioni socio-economiche.

Mentre è raro che degli insorti realizzino appieno i loro obiettivi, i terroristi sono più spesso riusciti a conseguire obiettivi parziali. Si possono distinguere quattro tipi di riuscite terroristiche parziali: il reclutamento di un sostegno interno, che permette ai terroristi di raggiungere un livello insurrezionale più elevato; il fatto di sensibilizzare l'opinione internazionale intorno alle proprie istanze; l'acquisizione di una legittimità internazionale; l'ottenimento di concessioni politiche parziali dal loro avversario.

Abbiamo già accennato al fatto che la nozione di base del terrorismo inteso come strategia è quella della «propaganda mediante l'azione». Essa vede questa modalità di lotta come uno strumento in grado di far diffondere la parola d'ordine dell'insurrezione, di allargare la propria base popolare e di utilizzarla come leva e preludio per una forma di insurrezione più avanzata. Per la maggioranza dei gruppi terroristici, anche questa dottrina elementare non ha tuttavia funzionato. Benché gli atti di violenza abbiano fatto loro un'enorme pubblicità, essi non sono riusciti ad attirarsi la simpatia e il sostegno della cittadinanza, e a dare alla luce quella larga insurrezione popolare che speravano di promuovere. Fu questo, per esempio, il caso dei movimenti radicali tanto di sinistra quanto di destra nell'Europa occidentale e negli Stati Uniti, negli anni Settanta e Ottanta.

Nondimeno, in alcuni casi il terrorismo ha apparentemente contribuito a produrre la scintilla che ha scatenato un movimento più vasto. Uno degli esempi a tale riguardo è quello dei socialrivoluzionari russi all'inizio del Novecento. Sebbene abbiano fallito nel tentativo di trasformare il loro apparato clandestino in uno strumento politico capace di impossessarsi del potere, e indipendentemente dal fatto che la Rivoluzione d'Ottobre del 1917 in realtà sia stata fatta dai bolscevichi, la cui base era più larga e meglio organizzata, le azioni terroristiche dei socialrivoluzionari hanno probabilmente contribuito in misura notevole ad alimentare la fiammella rivoluzionaria. Negli anni in cui i socialdemocratici (bolscevichi e menscevichi) costruivano la loro infrastruttura clandestina senza azioni a effetto suscettibili di infiammare l'entusiasmo della gente, i socialisti rivoluzionari, assassinando i ministri di uno Stato oppressivo e altri funzionari governativi, mantenevano vivo lo spirito e l'idea della lotta fra i potenziali rivoluzionari. Ironicamente, sembra che il terrorismo socialrivoluzionario, tanto criticato e ridicolizzato dai socialdemocratici, abbia così permesso a questi ultimi di arrivare al 1917 con la capacità di impadronirsi del potere.

Il risultato più ricorrente del terrorismo internazionale è quello di indurre a prendere coscienza delle rivendicazioni dei terroristi sul piano internazionale. In sé, questa presa di coscienza non è sufficiente a determinare i cambiamenti auspicati dai terroristi insorti e talvolta produce effetti negativi per la loro causa. Tuttavia, se le condizioni sono favorevoli, essa fornisce agli insorti una scala grazie alla quale possono salire più in alto. Nei paesi occidentali, la prima reazione a una campagna terroristica è, invariabilmente, di veemente condanna. Dopo questa prima reazione, però, l'opinione pubblica dà spesso prova di buona volontà, è pronta a esaminare con attenzione la posizione dei terroristi e si mostra anche disposta a considerare favorevolmente la loro protesta. Paradossalmente, l'opinione pubblica può finire per approvare le cause, pur denunciando il comportamento con il quale la sua attenzione è stata attirata.

Una tale benevola attitudine nei confronti dei terroristi nasce molto probabilmente in società che soffrono per gli attentati, ma che non hanno niente da perdere se le richieste dei terroristi vengono esaudite. In questo caso, il furore iniziale lascia presto il posto all'auspicio di veder sparire il problema. Quando un atteggiamento politico verso la causa terroristica è positivo e sembra poter apportare la pace, i governi spesso adattano la loro politica, in modo da incitare i terroristi a dar prova di buona volontà. In psicologia, la si chiama «dissonanza cognitiva», ed è un fenomeno non necessariamente cosciente. Alla base, implica di trovare una scusa accettabile per una linea di condotta che potrebbe ingenerare un conflitto perché contraddice determinati principi o determinate credenze. Certo è ben più plausibile per un governo o per la cittadinanza pensare che, a ben vedere, i terroristi non abbiano torto, piuttosto che ammettere di aver ceduto alle loro pressioni.

Quando altre pressioni e interessi si coniugano alla volontà di far cessare gli attacchi terroristici, come il fatto di volersene conciliare gli influenti protettori, esistono più possibilità di vedere un governo o un'opinione pubblica adottare un atteggiamento più favorevole alla causa terroristica. Le risposte occidentali al terrorismo internazionale palestinese sono un esempio eclatante di questo processo. Gli attentati terroristici palestinesi in Europa occidentale cominciarono nel 1968 e raggiunsero il loro apogeo nel 1973. Furono fermamente condannati dalla Comunità europea. Eppure, in pochi anni, l'OLP fu autorizzata a inaugurare delle rappresentanze praticamente in tutti i paesi europei, e nel 1974, circa un anno dopo che l'Organizzazione dei paesi Esportatori di petrolio (OPEC) aveva imposto un embargo sul petrolio e l'aumento del suo prezzo, il presidente dell'OLP, Yasser Arafat, fu invitato a prendere la parola davanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L'OLP ottenne uno status di osservatore in queste riunioni internazionali.

Martha Crenshaw ha notato molto giustamente che la prima difficoltà, quando si vogliono valutare i risultati del terrorismo, consiste nel fatto che esso non è mai l'unico fattore a causare risultati identificabili. L'intrecciarsi degli effetti politici e sociali con altri avvenimenti e tendenze fa sì che il terrorismo sia difficile da isolare.

Θ un fatto: impossibile isolare il ruolo giocato dal terrorismo nel processo di legittimazione dell'OLP e stimare con precisione il suo contributo relativo, in rapporto ad altri fattori, come le pressioni economiche e politiche degli Stati arabi. Non v'è tuttavia alcun dubbio che, in ultima analisi, il terrorismo abbia avuto un effetto più positivo che negativo sulla legittimazione dell'OLP.

Il caso dell'OLP è unico, nel senso che gli altri movimenti insurrezionali nazionalistici e separatisti non hanno beneficiato del sostegno di potenti tutori. I curdi, i croati, i kashmiri, i sikh, per far solo qualche esempio di movimenti separatisti attivi nel corso di questi ultimi vent'anni, non hanno ottenuto altrettanta legittimità e altrettanto sostegno internazionali, sebbene le loro proteste siano convincenti almeno quanto quelle dei palestinesi. Dall'altro lato, è anche vero che questi movimenti non hanno utilizzato con la stessa intensità dei palestinesi – tutt'altro – il terrorismo internazionale (cosa che si può spiegare con l'assenza di uno «Stato-sponsor»).

Taluni gruppi terroristici che non sono stati capaci di concretizzare i propri obiettivi politici sono tuttavia riusciti a ottenere dai loro avversari delle significative concessioni. L'esempio dei baschi dell'Euskadi Ta Askatasuna (ETA) è tipico. La loro lunga e violenta campagna per separarsi dalla Spagna non ha portato all'indipendenza cui aspiravano, ma è stata senza alcun dubbio un rilevante fattore nella decisione della Spagna di concedere una larga autonomia alle province basche. Un altro esempio è quello dell'IRA, nell'Ulster. Benché non sia ancora stato compiuto alcun passo reale verso il cambiamento di status dell'Ulster, si ha sempre più fretta in Gran Bretagna di sbarazzarsi del problema irlandese, e di trovare una soluzione che farebbe cessare la violenza. Gli accordi anglo-irlandesi del 1985 garantivano che l'Ulster sarebbe divenuta parte della Repubblica di Irlanda, se un voto popolare avesse deciso in tal senso. Per ora, si è data all'Irlanda voce in capitolo negli affari dell'Ulster, nel quadro di una conferenza anglo-irlandese. Θ evidente che questi mutamenti nella politica britannica sono stati imposti dalla lotta dell'IRA.

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Capitolo primo
Zeloti e Assassini
di Gérard Chaliand e Arnaud Blin



Gli Zeloti

Θ in Medio Oriente che la Storia ha registrato una delle prime manifestazioni del terrorismo organizzato, in Palestina, nel primo secolo della nostra era. La setta degli Zeloti costituisce uno dei primi gruppi che abbiano applicato la tecnica del terrore in modo sistematico e di cui si possieda oggi una testimonianza scritta. Si conosce infatti la lotta intrapresa dagli Zeloti attraverso la relazione che ne ha fatto Giuseppe Flavio nelle sue Antichità giudaiche, pubblicate nel 93-94, e nella sua relazione su La guerra giudaica, opera più breve, pubblicata fra il 75 e il 79, tutta in gloria di Vespasiano e Tito, presso i quali Giuseppe Flavio operò come consigliere per le questioni ebraiche. Egli utilizzò il termine di Sicarii per designare gli Zeloti, termine generico usato dai Romani e che proviene dalla parola latina sicarius, colui che uccide con una daga.

La causa immediata della ribellione degli Ebrei contro Roma fu il censimento intrapreso dalle autorità romane nell'Impero durante i primi anni della nostra era. Esso fu percepito dagli Ebrei come un'umiliazione, nella misura in cui dimostrava chiaramente che gli Ebrei erano sottomessi a un'autorità straniera. Fu esattamente nell'anno 6 che si diede fuoco alle polveri, otto anni dopo la morte di Erode il Grande, avvenimento che segnò una svolta decisiva nella storia degli Ebrei, i quali, da più di un secolo (129 a.C.), avevano potuto profittare di un certo grado di indipendenza e di prosperità. I segni precursori di una rivolta erano apparsi fin dall'anno 4 a.C., ma è nell'anno 6 che gli Zeloti si organizzano per combattere contro le autorità imperiali. Gli Ebrei, che già sotto il regno di Erode trovavano insufficiente il loro grado di indipendenza, non intendevano lasciarsi scappare l'opportunità di conquistare una vera e propria indipendenza. Ora, si andava ormai profilando proprio la situazione inversa rispetto a quella che essi auspicavano. Di conseguenza, dei focolai di insurrezione spontanei si accesero un po' ovunque nella regione. Per usare un linguaggio moderno, si potrebbe dire che gli Ebrei si trovavano in una dinamica anticoloniale da guerra di liberazione.

Dopo le prime sommosse, il governatore della Siria, Varo, inviò due legioni romane a sostegno delle guarnigioni messe in difficoltà dalla rivolta. Varo riuscì a schiacciare i ribelli e decise di compiere un gesto esemplare crocifiggendone duemila. Si riproponeva come scopo quello di infliggere un trauma psicologico tale su quelle popolazioni che sarebbero state dissuase dal continuare la rivolta. Fu il primo impiego del terrore in questa guerra, che durò svariati decenni.

Stando a Giuseppe Flavio, gli Zeloti rappresentavano una delle quattro sette «filosofiche» di Giudea, quella che aveva il più grande successo fra i giovani. La dottrina filosofica degli Zeloti era vicina a quella dei Farisei, che vivevano nella più stretta osservanza della Thorà e che furono accusati nei Vangeli di dogmatismo e ipocrisia. Rispetto agli altri movimenti religiosi ebraici dell'epoca, gli Zeloti si comportavano da riformatori. Ritenendo di non dover rendere conto che a Dio, coltivavano, secondo Giuseppe, un «invincibile amore per la libertà». Erano animati da una fede indistruttibile, che destava l'ammirazione dello stesso Giuseppe, membro a sua volta della setta dei Farisei, e loro più violento detrattore.

Se Giuseppe fa di solito riferimento agli Zeloti o Sicarii come a dei «briganti», la sua relazione sulla guerra intrapresa dai membri di questa setta la fa chiaramente apparire come un'azione dalle basi politiche e religiose. Le autorità che si trovano faccia a faccia con un'organizzazione terroristica la trattano sistematicamente come un'organizzazione criminale, dato che agisce fuori delle leggi e che i suoi obiettivi sono essi stessi criminali, e immorali. Il fine delle autorità sta nel far passare i terroristi per nemici della società, ben decisi a distruggerla. Secondo la relazione di Giuseppe Flavio, le élite ebree vedevano di cattivo occhio le attività degli Zeloti, che minacciavano il loro status e la loro sicurezza. In compenso, gli Zeloti avevano acquisito un livello di popolarità notevole fra le classi popolari e fra i giovani. Sembra che i fondatori e i capi della loro setta – di cui si sa pochissimo – fossero dei letterati; provenivano dunque probabilmente da classi sociali agiate. Sembrerebbe anche che gli Zeloti abbiano cercato di reclutare i propri «militanti» fra gli strati popolari.

Il fondatore della setta fu un certo Giuda di Galilea, la cui iniziativa andò tuttavia incontro a un fallimento, di fronte alla repressione romana. Dopo questi difficili inizi, si ritrova notizia degli Zeloti negli anni Sessanta, senza che si sappia con esattezza ciò che avvenne di loro lungo più di mezzo secolo. Quel che è certo, è che essi poterono mantenersi attivi dopo il loro fallimento iniziale. Si sa anche che i discendenti di Giuda si mantennero alla guida del movimento: godevano dunque di una certa organizzazione. Fin dagli esordi, gli Zeloti proclamarono il loro duplice obiettivo. Come organizzazione religiosa, tentarono di imporre, spesso con la forza, un certo rigore nella pratica religiosa. Si scontrarono, per esempio, con dei correligionari che, a loro avviso, non praticavano la loro religione in modo abbastanza rigoroso, e cominciarono a far uso del terrore. Come organizzazione politica, avevano per obiettivo quello di strappare a Roma l'indipendenza del proprio paese. Gli obiettivi religiosi di questa organizzazione erano indissolubilmente legati a quelli politici.

L'idea di purezza – politica e religiosa – fa qui la propria comparsa. Si ritroverà la stessa dinamica in quasi tutti i movimenti di questo tipo. Allo stesso modo, sarà l'idea di purezza ad animare Robespierre. Quanto alla combinazione religione-politica, essa è quasi sistematicamente presente, in una forma o nell'altra, nella maggioranza dei movimenti che facciano uso del terrorismo. Nel XIX e XX secolo, la religione secolare, cioè l'ideologia – marxista, trotzkista, maoista, fascista, nazista ecc. – fu onnipresente, prima che la religiosità tradizionale facesse il suo ritorno alla fine del XX secolo. In genere, le organizzazioni terroristiche esclusivamente politiche sono rare, nella storia, così come i gruppi di rivendicazione religiosa privi di una qualche finalità politica. Maxime Rodinson riassume bene questa sinergia politico-ideologica:

I movimenti ideologici sono alla confluenza di due serie di lotte, conflitti, aspirazioni. Da una parte c'è la dinamica politica, quella dell'eterna lotta per il potere, che incontriamo ovunque si trovi una società umana... e anche in alcuni tipi di società animali. Dall'altra, si ha l'aspirazione non meno eterna a essere guidati nella vita privata e pubblica da un sistema di norme, di regole, che dispensa dall'infinita pena che si proverebbe a costruirsi ogni giorno e in ogni occasione un modello di condotta da seguire, a rimettere costantemente tutto in questione. Questo sistema si può chiamare ideologia.

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Capitolo 7
Lenin, Stalin e il terrorismo di Stato
di Gérard Chaliand e Arnaud Blin



Lenin e il terrorismo strategico

Nelle sue varie forme, il terrorismo russo aveva contribuito a indebolire lo Stato russo e a preparare il terreno alla Rivoluzione del 1917. Con essa, la tecnica del terrore doveva ben presto diventare tutt'uno con lo Stato sovietico. Lenin avrebbe messo in piedi un sistema che Stalin portò poi alle sue estreme conseguenze.

Per il giovane Lenin, il terrore è solo uno dei mezzi della rivoluzione. Se nel 1899 egli ne respinge l'uso, è perché pensa che in quel momento a essere fondamentali siano i problemi organizzativi. Nel 1901, in un articolo sull'«Iskra», scrive di non aver respinto il «principio del terrore», pur criticando i rivoluzionari socialisti per il loro utilizzo del terrorismo, senza alcuna considerazione per le altre forme di lotta.

Per Lenin, la tecnica terroristica si inscrive nel contesto di una strategia politico-militare, e il suo impiego deve avvenire con metodo e circospezione, cosa che i rivoluzionari socialisti non hanno compreso: per loro, il terrorismo è diventato un fine in se stesso. Ai suoi occhi, il terrore non è lo strumento principale della lotta rivoluzionaria. Non dovrebbe dunque diventare un «metodo regolare» per la lotta armata.

Affinché la tecnica terroristica fosse efficace, secondo Lenin occorreva superare lo stadio degli attentati commessi da individui o gruppuscoli. Era il terrorismo delle masse popolari che doveva sfociare nel rovesciamento della monarchia (e del capitalismo), quando le forze armate si fossero unite al popolo. Lenin era risolutamente ostile al terrorismo regicida, per il quale non vedeva alcun avvenire. Al secondo congresso del Partito operaio socialdemocratico del 1903, fece un rabbioso intervento contro il terrorismo. Fu in quell'occasione che il partito si scisse in due, con i bolscevichi da un lato e i menscevichi dall'altro.

Talvolta Lenin è visto come poco favorevole al terrorismo perché denunciò sistematicamente il terrorismo dei rivoluzionari socialisti. Di fatto, fin dai suoi esordi di attivista politico egli fu un apostolo del terrore, ma in una prospettiva del tutto differente. Se infatti criticava questi «duelli» contro le autorità zariste, che portavano solo all'apatia delle masse, le quali finivano per aspettare, da spettatrici, il «duello» successivo, questa era la sua posizione, che sarebbe rimasta immutata fino alla presa del potere per opera dei bolscevichi nel 1917: «Il terrore, ma non adesso». L'attesa avrebbe solo fatto moltiplicare la forza con cui il terrore sarebbe stato scatenato, una volta che il potere fosse stato nelle mani di Lenin. Egli non criticava, infatti, gli eccessi del terrore, al contrario. Per essere applicato con efficacia, il terrore doveva essere un terrore di massa, rivolto contro gli avversari della Rivoluzione.

Dal 1905 e dal terzo congresso del Partito socialdemocratico, che si tiene a Londra in primavera – la Rivoluzione del 1905 si è svolta nel mese di gennaio –, Lenin comincia a parlare di terrore di massa, facendo riferimento alla Rivoluzione francese. Per evitare molte «Vandee», una volta scatenatasi la Rivoluzione, Lenin sostiene che sarebbe insufficiente giustiziare lo zar. Perché la Rivoluzione riesca, occorre fare «prevenzione», al fine di soffocare sul nascere ogni forma di resistenza antirivoluzionaria. Per raggiungere questo scopo, la tecnica del terrore è la più appropriata. Per schiacciare la monarchia russa, è dell'idea che si debba agire come i giacobini, attraverso il «terrore di massa».

Sempre nel 1905, Lenin redige le sue istruzioni per la presa del potere in modo rivoluzionario. Inneggia a due attività essenziali, le azioni militari indipendenti e la direzione delle folle. Incoraggia il moltiplicarsi di atti terroristici, ma in una prospettiva strategica, perché continua a denunciare gli attentati terroristici opera di individui isolati e privi di rapporto con le masse popolari:

Il terrorismo spicciolo, disordinato e non preparato, quando viene spinto all'estremo, può solo spezzettare e disperdere le forze. Questo è vero, e naturalmente non si deve dimenticare. Ma d'altra parte non si deve in nessun caso nemmeno dimenticare che adesso la parola d'ordine dell'insurrezione già è data, l'insurrezione già è cominciata. Iniziare l'attacco quando esistono condizioni favorevoli non è solo un diritto, ma un dovere per ogni rivoluzionario.

Per Lenin, il fallimento della Rivoluzione del 1905 è dovuto a carenza di volontà, di fermezza e di organizzazione. Bisogna andare più lontano e scatenare una violenza generalizzata. Ma all'epoca Lenin è un uomo impotente, che deve contentarsi di redigere critiche virulente ai rivoluzionari dal suo remoto esilio (in Finlandia, poi in Svizzera). Nel 1907, invia questo messaggio ai rivoluzionari socialisti: «Il vostro terrorismo non è il risultato della vostra convinzione rivoluzionaria. Θ la vostra convinzione rivoluzionaria che si limita al terrorismo».

L'anno seguente, egli approva l'assassinio del re Carlo di Portogallo (e di suo figlio), ma si rammarica del fatto che questo genere di attentati sia un fenomeno isolato e senza un fine strategico preciso: sempre questa mancanza di visione strategica fra i terroristi, malgrado il loro coraggio. La Rivoluzione del 1917 rafforza i suoi ammonimenti: solo al momento opportuno, quando la situazione è abbastanza «matura», l'azione diretta giunge a far precipitare gli eventi.

Quando scoppia la guerra, Lenin si distanzia ancor più dalle altre correnti socialiste, con cui rifiuta ogni collaborazione. Nel suo classico saggio L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, espone la propria posizione: la rivoluzione socialista può realizzarsi in un paese economicamente arretrato se è diretta da un partito di avanguardia pronto ad andare fino in fondo, cioè pronto a ricorrere a mezzi di una violenza estrema e senza paura di procedere a un massiccio spargimento di sangue. Θ il momento propizio per la dittatura del proletariato (di fatto, del partito di avanguardia).

I bolscevichi, con Lenin alla testa, si gettano a capofitto nel gigantesco spazio liberatosi all'improvviso con il brutale crollo della Russia. In questo vuoto politico, i bolscevichi, con meno di venticinquemila membri, si impadroniscono del potere dopo che gli altri movimenti politici rivoluzionari si sono dimostrati incapaci di dominare il corso degli eventi susseguitisi alla rivoluzione di Febbraio.

La storiografia sulla Rivoluzione di Ottobre segue, in qualche modo, quella sulla Rivoluzione dell'Ottantanove. La tesi dell'«incidente» ha alimentato la scuola storica russa dal crollo dell'Unione Sovietica nel 1991, dopo che per decenni la scuola sovietica ha interpretato questo evento come il naturale esito storico di una rivoluzione delle masse popolari intrapresa tramite l'operato dei bolscevichi. Fra le due, la tesi dello «sbandamento» mette a fuoco una rivoluzione avviata dalle masse, ma fatta poi propria da un piccolo gruppo che abusa del suo potere. Noi sottoscriviamo piuttosto l'analisi di Nicolas Werth, per il quale nella Rivoluzione del 1917

sembrano momentaneamente convergere due movimenti: l'ascesa al potere politico, dovuta a una minuziosa preparazione insurrezionale, di un partito che si distingue da tutti gli altri attori della rivoluzione nel modo più radicale, per la prassi, l'organizzazione e l'ideologia; e una vasta rivoluzione sociale, multiforme e autonoma.

Comunque sia, il minuscolo Partito bolscevico si ritrovava alla testa di un immenso paese alle prese con una crisi che stava portando alla guerra civile, nel bel mezzo della più grande guerra che l'Europa avesse conosciuto fino a quel momento! Il Partito bolscevico era però costituito in modo tale da poter resistere ai colpi combinati che gli arrecavano tutte queste forze, e da potersi mantenere al potere, grazie all'abilità dei propri dirigenti.

Ben presto, Lenin fece vedere il suo carattere e le sue convinzioni politiche. Quando il congresso dei Soviet decise di abolire la pena di morte (26 ottobre/8 novembre 1917), Lenin giudicò «inammissibile» questo «errore» e si affrettò a ristabilirla. Poco dopo, queste poche linee dell'«Izvestija» annunciavano in tono sommesso la creazione di uno dei più formidabili strumenti di terrore mai concepiti:

Per decreto del Soviet dei commissari del popolo del 7 dicembre 1917, viene creata la Ceka panrussa di lotta contro il sabotaggio e la controrivoluzione. La sede della Ceka è in via Gorokhovaya n° 2. Ricevimento: dalle 12 alle 17 tutti i giorni.

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Capitolo 9
Dal 1968 all'islamismo radicale
di Gérard Chaliand e Arnaud Blin



Per lo storico del terrorismo contemporaneo, quattro date segnano delle rotture. Anzitutto il 1968, con le due matrici, latino-americana e palestinese: la prima inaugura la cosiddetta strategia della guerriglia urbana, la seconda dà il via al terrorismo volto a propagandare idee politiche, prima di sfociare nella violenza propriamente detta. Come si è già rilevato, entrambe queste matrici adottano azioni di carattere terroristico quale surrogato di una guerriglia che nessuna delle due è in grado di portare avanti.

Il 1979 è un momento di svolta. Da una parte si ha la rivoluzione iraniana, che segna l'eclatante successo dell'islamismo radicale nella sua versione sciita, per influssi diretti (Hezbollah in Libano) o indiretti (l'adozione dell'attentato suicida, facilitata da una tradizione in cui la figura del martire è valorizzata al massimo grado) – vi si ispirano gli islamisti radicali di obbedienza sunnita (Hamas, Al Qaeda ecc.). Dall'altra parte, c'è l'intervento sovietico in Afghanistan, che appare agli americani l'occasione ideale per far subire ai sovietici una sconfitta militare simile a quella in cui loro sono incappati nel Vietnam.

Con l'aiuto finanziario dell'Arabia Saudita e la collaborazione del Pakistan (nodo di raccordo logistico, santuario, centro di formazione), gli Stati Uniti sostengono fortemente i combattenti afghani decisi a resistere. Fin dall'inizio della guerra, vengono a partecipare a questa jihad, in una forma o nell'altra, islamisti radicali provenienti dal Medio Oriente e da altre regioni musulmane. Molti di loro vi si formano sul piano religioso e militare. Militanti di provenienza sunnita, serviranno anche, per gli Stati Uniti come per l'Arabia Saudita e il Pakistan, a fare da contrappeso all'aura della rivoluzione sciita iraniana.

Notiamo come fra i vari movimenti che compongono la resistenza afghana, gli Stati Uniti scelgano di aiutare il più radicale fra gli islamisti, Gulbuddin Hekmatyar, che dirige lo Hezb Islami.

Meno di dieci anni dopo essere entrati in Afghanistan, i sovietici si ritirano. I mujaheddin afghani si vantano di aver sconfitto l'esercito sovietico. Questa idea dovrà subire un serio ridimensionamento.

I sovietici, a partire dall'ascesa al potere di Mikhail Gorbaciov, nel 1985, fanno guerra solo in modo sporadico. Si appoggiano sui servizi afghani, il Khad, e fanno leva sulle rivalità tribali, nel quadro di quelle etno-strategie care al XIX secolo coloniale. I loro effettivi, dal numero iniziale di 120 mila uomini, rimangono, da un capo all'altro della guerra, sullo stesso livello, al contrario degli americani in Vietnam, che aumentano il loro contingente fino a 200 mila uomini, o ai francesi in Algeria, che ne hanno il doppio.

Infine, i sovietici non hanno mai portato avanti, in alcun momento, una seria offensiva anti-insurrezionale. Si entrava in Afghanistan senza difficoltà (quanti stranieri in otto anni sono stati uccisi o fatti prigionieri? Ben pochi, in una guerra per moltissimi aspetti «coperta»). I sovietici hanno essenzialmente usato, più che altro, il pugno di ferro per togliere di mezzo le sacche di resistenza troppo attive (Panshir, regione di Kandahar, Paktia ecc.).

L'errore dei sovietici è stato quello di voler fare questa guerra con dei coscritti. Errore analogo a quello degli americani in Vietnam. Le guerre di tipo coloniale devono essere condotte da professionisti, preferibilmente volontari.

Quanto ai combattenti afghani, sobri, robusti e motivati, formavano truppe abituate a guerreggiare, ma senza disciplina, senza coesione di gruppo e, in definitiva, poco capaci di trasformarsi in forza combattente omogenea. Dopo il ritiro sovietico, malgrado tutto l'aiuto materiale di cui disponevano, hanno avuto bisogno di quasi tre anni per reimpossessarsi di Kabul!

In questo contesto, le forze tagiche del comandante Massud rappresentavano un'eccezione, poiché questi si era ispirato alle tecniche organizzative del marxismo-leninismo.

Sul piano del terrorismo internazionale, se per questi anni ci limitiamo all'essenziale, bisogna insistere sull'importanza in Libano degli attentati suicidi del 1983 a Beirut, e più in particolare dei due che uccisero 241 marine americani e 53 paracadutisti francesi.

Questi attentati, che si devono a Hezbollah, determineranno la partenza delle truppe occidentali: essi rappresentano il maggior successo del terrorismo internazionale fra 1968 e 2000. Questa volta, infatti, lo choc psicologico è pareggiato, se non superato, dalle conseguenze degli attentati: il ritiro dell'avversario.

La lezione non andrà perduta. Faceva forse parte del calcolo di Saddam Hussein, quando ha rifiutato di cedere nei mesi antecedenti la prima guerra fra l'Iraq e la coalizione condotta dagli Stati Uniti (1991). Nell'epoca della dottrina della guerra con perdite umane nulle, si poteva dissanguare abbastanza l'avversario perché le sue retrovie crollassero?

Per quanto ci riguarda, in Francia il 1986 e il 1995 sono stati contrassegnati da due sanguinose campagne terroristiche, la prima condotta dagli iraniani, la seconda dal GIA.

La terza data importante, ora che abbiamo una prospettiva, si colloca fra 1991 e 1993. Corrisponde al mutamento verificatosi all'interno dell'Afghanistan. Da strumento utilizzato dagli Stati Uniti con il fine di indebolire l'Unione Sovietica, l'islamismo radicale, perseguendo la sua dinamica e i suoi fini, diventa, in parte come conseguenza della guerra contro l'Iraq del 1991, un orientamento politico-militare indipendente dalle molteplici ramificazioni.

Questa fase è contraddistinta dalla jihad intrapresa sotto i migliori auspici in Algeria, e presto dalla partecipazione alle guerre di Bosnia (1993-1995), di Cecenia e del Kashmir. Il 1993 è anche l'anno del primo attentato – con camion-bomba – al World Trade Center, il quale, pur non avendo prodotto gli effetti desiderati, mostrava che gli Stati Uniti erano ormai divenuti un bersaglio per gli islamisti combattenti. Gli Stati Uniti sottovaluteranno l'importanza dell'attentato di Khobar in Arabia Saudita nel 1995, nel quale muoiono 19 soldati americani. L'anno dopo, sempre in Arabia Saudita, c'è l'attentato di Dahran, ed è appunto l'anno in cui Osama bin Laden intima agli USA di lasciare il sacro territorio d'Arabia. Nel frattempo (1994-1996) i talebani, formati e sostenuti dal Pakistan con l'avallo degli Stati Uniti, sono divenuti padroni dell'Afghanistan. Progressivamente, l'influsso della cellula di bin Laden e degli egiziani Ahmed al Zawahiri e Mohamed Atef sul regime dei talebani comincia a fare il suo effetto. Nel febbraio 1998, Osama bin Laden decreta la guerra contro «i crociati e gli ebrei». Θ l'anno degli attentati contro le ambasciate americane in Africa orientale, seguiti due anni più tardi da quello, marittimo, contro la USS Cole al largo di Aden.

La quarta data è ovviamente quella dell'11 settembre 2001, che segna lo stadio ultimo del terrorismo classico. Essa determina a sua volta la più importante operazione di controterrorismo mai condotta: la guerra d'Afghanistan, destinata a sradicare questo pericoloso santuario.

Dopo questa data, è l'Amministrazione Bush, fortemente influenzata dai civili del Pentagono, a prendere l'iniziativa. Le sembra saggio portare a termine una «guerra incompiuta» in Iraq.

Questa guerra, di scelta e non di necessità, è stata intrapresa preventivamente per lottare contro un eventuale terrorismo di distruzione di massa, la cui esistenza era ipotetica, malgrado le asserzioni dei britannici, volte a dar manforte al grande alleato.

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Tipologia dei terrorismi

Per render conto del termine «terrorismo», che designa una notevole quantità di movimenti e gruppi alquanto differenziati, è necessario istituire una tipologia sommaria.

Al di fuori del terrorismo di Stato, bisogna oggi distinguere:

— I gruppi terroristi fondati su un'ideologia politica di sinistra o di destra. A tale riguardo, è utile ricordare che il terrorismo è una tecnica, e non ha in sé e per sé una connotazione politica.

— Movimenti nazionalisti, siano essi separatisti o autonomisti.

— Sette politico-religiose.


In tutti questi casi, il terrorismo è una strategia politica. Se la guerra è fondata sulla coercizione fisica, il terrorismo mira a produrre sugli animi un impatto psicologico. Rispetto alla guerriglia, il terrorismo è una negazione del combattimento. Non si tratta più di colpire di sorpresa gli elementi di un esercito regolare, ma di colpire un avversario disarmato.


• Si possono annoverare fra i gruppi terroristici a vocazione rivoluzionaria, soprattutto di sinistra, ma anche di destra, le seguenti organizzazioni o gruppuscoli: Weathermen, Symbionese Liberation Army (Stati Uniti), Rote Armee Fraktion (Repubblica Federale Tedesca), meglio nota come «Baader-Meinhof», dal nome di coloro che ne furono i dirigenti insieme a Gudrun Ensslin e Horst Mahler, così come – molto meno celebre – il gruppuscolo anarchico «Movimento del 2 giugno» (Bewegung Zwei Juni, o B2J), il cui nome commemora la data in cui uno studente fu ucciso dalla polizia nel corso di una manifestazione contro la presenza dello scià d'Iran in Germania;

— le Brigate Rosse, o Brigate Rosse italiane, e all'estrema destra svariate organizzazioni fascisteggianti italiane;

— in Francia e in Belgio: Action directe e Cellule comuniste combattenti;

— in Giappone, l'Armata rossa giapponese.

• Fra i movimenti etnici – separatisti o autonomisti – si possono citare, in Occidente:

— il Fronte di Liberazione del Québec (FLQ), effimero, ma che si fece notare per il rapimento e l'uccisione di un ministro;

— gli irlandesi dell'IRA, íl movimento dotato delle basi più ampie, fra quelli della nostra lista;

— i baschi dell'ETA, branca militare;

— infine, i più caricaturali, che vanno affermando di trovarsi in una situazione coloniale: movimenti e gruppuscoli corsi, i quali approfittano del lassismo dello Stato francese per scimmiottare un movimento di liberazione.

• I movimenti autonomisti o separatisti che utilizzano anche il terrorismo sarebbero classificati dall'Amministrazione americana come movimenti terroristi. Ora, molti di essi sono anzitutto, ed essenzialmente, dei movimenti di guerriglia:

— In America latina, è questo il caso delle due organizzazioni colombiane – Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC) ed Esercito di liberazione nazionale (ELN), meno forte –, come pure di Sendero Luminoso, o di ciò che ne resta, dopo l'arresto del suo .cor leader Abimael Guzman, detto «il Presidente» Gonzalo.

— Nel Vicino e nel Medio Oriente, fu il caso del Partito democratico del Kurdistan iraniano (PDKI), diretto, fino al suo assassinio per mano degli iraniani, da A.R. Ghassemlou. Questo movimento, dal 1979 al 1984, data in cui è stato costretto a ritirarsi in Iraq, non ha mai commesso atti di carattere terroristico.

— Ci risulta che questa classificazione riguardi anche i movimenti combattenti curdi d'Iraq fra il 1968 e il 1991, si tratti del Partito democratico del Kurdistan o dell'Unione Patriottica del Kurdistan. Il PKK (Partito dei lavoratori di Turchia), attivo sul territorio turco dal 1984 all'arresto del suo capo Ocalan, detto Apo, nel 1998, era anzitutto un movimento di guerriglia. Per una quindicina d'anni, questo movimento, operante su una parte considerevole del sud-est della Turchia, ha costretto Ankara a mobilitare fino a 150.000 uomini per sradicare la guerriglia. Il PKK ha, d'altronde, effettivamente utilizzato il terrorismo come mezzo d'azione. Dal canto suo, l'esercito turco ha utilizzato degli squadroni della morte per liquidare ogni opposizione, compresa quella non violenta.

— I palestinesi, a qualunque credo appartengano, sono ridotti a utilizzare solo il terrorismo.

— I cecení sono meno facilmente caratterizzabili, rispetto ad altri. Da una parte, nel loro movimento ci sono indiscutibilmente dei nazionalisti attaccati all'idea dell'indipendenza, e che combattono una guerriglia. Dall'altra, la Cecenia è una delle jihad in cui si affollano islamisti combattenti venuti da diversi paesi: il più celebre è il giordano Basaev, che tentò, senza successo, di trascinare il Daghestan nella lotta. Fatto è che i ceceni (nazionalisti o islamisti radicali che siano) ricorrono al terrorismo, come indica la presa degli ostaggi nel teatro di Mosca nel 2002.

— Senz'ombra di dubbio, l'organizzazione più efficace del mondo in materia di terrorismo è il LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam), le Tigri tamil. Ma questa organizzazione è in primo luogo un movimento di guerriglia, capace perfino di orchestrare delle operazioni classiche contro l'esercito dello Sri Lanka.

— In Nepal, il movimento maoista è di guerriglia. Proprio come a Sumatra l'organizzazione che lotta per l'indipendenza di Aceh. Θ anche il caso di movimenti più deboli, ma che portano avanti una lotta armata sul loro terreno nelle Molucche e in Papuasia - Nuova Guinea.

— Per finire, nelle Filippine, il Front Moro a Mindanao, che rappresenta il 4% dei musulmani all'interno di una schiacciante maggioranza di cattolici, rivendica da decenni l'autonomia – per non dire l'indipendenza. Questo movimento nel corso degli anni è stato aiutato dalla Libia e da altri paesi arabi. Oggi, è largamente influenzato dall'Islam combattente. A questa corrente appartiene il gruppo Sayyaf.

— Poiché nessuna tipologia restituisce la complessità del reale, è in quest'ambito, in mancanza di meglio, che si può collocare un movimento atipico e senza domani, quello degli armeni, attivo fra 1975 e 1983.


• Fra le sette politico-religiose che fanno uso del terrorismo – al primo posto, gli islamisti radicali combattenti formatisi in Afghanistan, e che hanno partecipato a varie lotte armate –, alcune non si limitano affatto ad atti di carattere terroristico: Bosnia, Algeria, Cecenia, Kashmir ecc. Vi si può aggiungere la lunga lista delle organizzazioni islamiste, che vanno da qualche decina di membri al migliaio. Le origini di questi movimenti si situano in quasi tutti i paesi musulmani – fatta eccezione, in genere, per l'Africa subsahariana. Il movimento Hezbollah in Libano, classificato come terrorista dagli Stati Uniti, è in primo luogo un movimento politico combattente. Gli atti terroristici non sono la sua caratteristica principale. Bisogna infine segnalare, fra le sette millenariste (non è l'unica), Aum Shimrikyo, che si è messa in luce a Tokyo, nel 1995, con l'utilizzo di gas sarin nella stazione della metropolitana, uccidendo 12 persone e colpendone, in vario modo, parecchie migliaia. Le organizzazioni islamiste raggruppano poi decine di movimenti, attraverso il mondo musulmano.


• Infine, per non lasciare da parte il terrore di Stato nel corso del periodo preso in esame, richiamiamo a titolo d'esempio, per l'America latina:

— gli squadroni della morte in Brasile;

— la sistematica repressione degli indios in Guatemala;

— le vessazioni dei militari argentini, dalla loro presa del potere alla caduta;

— gli inizi (in particolare) del regime di Pinochet in Cile;

— il controterrorismo e la controinsurrezione particolarmente feroce, all'epoca della presidenza Fujimori in Perù.


Per l'Africa:

— l'esercito algerino e i suoi metodi;

— l'uso del terrore durante i quattordici anni della dittatura di Charles Taylor in Liberia;

— le dittature di Macias (ex Guinea spagnola) e di Idi Amin Dada (Uganda), la guerra civile in Sierra Leone;

— il terrore in Burundi sotto i tutsi;

— il genocidio del Ruanda e il suo impatto sul vicino Congo.


Per il Medio Oriente:

— il terrore di Stato esercitato dalla Turchia nel quadro della controinsurrezione: squadroni della morte, politica sistematica di deterritorializzazione nella regione curda;

— la liquidazione a Hama di 10 mila sunniti per mano del regime di Hafez el Assad nel 1982;

— l'utilizzo sistematico del terrore su tutti i livelli da parte di Saddam Hussein, in particolare nei confronti dei curdi (operazione Anfal; uso del gas chimico a Halabja nel 1988 e repressione contro curdi e sciiti nel 1991).


Per l'Asia del Sud-est e orientale:

— massacri di massa di tipo genocidiario in Cambogia;

— terrore durante la rivoluzione culturale in Cina;

— benché si situino qualche anno prima del 1968, ricordiamo il massacro di 300-500.000 comunisti o presunti tali a opera del regime di Suharto (1965) in Indonesia.


Questa lista non è esaustiva.

Infine, ricordiamo che l'uso della tortura è la «forma estrema del terrore individualizzato», per riprendere l'espressione dello specialista britannico Paul Wilkinson.

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