Autore Johann Chapoutot
Titolo Nazismo e management
SottotitoloLiberi di obbedire
EdizioneEinaudi, Torino, 2021, Passaggi , pag. 128, cop.fle., dim. 13,5x20,8x1,1 cm , Isbn 978-88-06-24753-9
OriginaleLibres d'obédir. Le management, du nazisme à aujourd'hui
EdizioneGallimard, Paris, 2020
TraduttoreDuccio Sacchi
LettoreRiccardo Terzi, 2021
Classe storia economica , economia aziendale , economia criminale , lavoro , paesi: Germania , storia contemporanea , storia: Europa , storia criminale












 

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Indice


VII Prologo


    Nazismo e management

  3 I.    Pensare l'amministrazione del Grande Reich

 11 II.   Bisogna farla finita con lo Stato?

 23 III.  La «libertà germanica»

 35 IV.   Gestire e preservare la «risorsa umana»

 47 V.    Dalle SS al management

          L'Akademie für Führungskräfte di Reinhard Höhn

 59 VI.   L'arte della guerra (economica)

 69 VII.  Il metodo di Bad Harzburg

          Libertà di obbedire, obbligo di riuscire

 81 VIII. Il crepuscolo di un dio

 89 Epilogo


103 Note
113 Bibliografia
121 Indice dei nomi

 

 

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Pagina VII

Prologo


Decisamente estranei e stranamente vicini, quasi nostri contemporanei: cosí ci sembrano i criminali nazisti, di cui un ricercatore in storia, specialista di quel periodo, osserva la vita e le azioni, legge gli scritti, ricostruisce l'universo mentale e il percorso.

A renderceli decisamente estranei sono le idee e le esperienze di vita. Noi non siamo guerrieri brutali o cani da guerra come un Dirlewanger o un Krüger, veterani delle trincee diventati professionisti del massacro e del terrore. Non siamo quei maniaci della violenza e del controllo, quei professori dell'omicidio che sono stati Heydrich o Himmler. La loro durezza, il loro fanatismo, ma anche la loro mediocrità, ci appaiono tanto lontani quanto suggeriscono il bianco e nero delle immagini o il taglio delle uniformi.

Per Herbert Backe vale lo stesso discorso. Backe è uomo di altri tempi e di altri luoghi, reso vago e distante da uno stato civile insolito e da una vita che nessuno di noi conosce o immaginerebbe. È nato nel 1896 nell'impero degli zar, perché era lí che il padre, commerciante, aveva le sue attività. Ha frequentato il liceo di Tiflis, capitale della Georgia, dove viveva anche il giovane Stalin. A causa della cittadinanza tedesca, è stato incarcerato dal 1914 al 1918, prima di poter raggiungere la Germania e studiare agronomia. Sedicente specialista della Russia, di cui millantava un'ottima conoscenza, è diventato un razzista convinto, che non aveva dubbi sulla superiorità biologica e culturale dei tedeschi, destinati secondo lui a imporre il loro dominio sui vasti spazi fertili dell'Europa orientale. Membro del Partito nazista e imprenditore agricolo, ha fatto carriera in politica. È stato responsabile di sezione e deputato al Landtag di Prussia, senza trascurare per questo il lavoro teorico. Nell'opuscolo del 1931 intitolato Contadino tedesco, svegliati! Backe invoca la colonizzazione dell'Europa dell'Est ed esprime un aperto disprezzo per le popolazioni locali, semplici strumenti, nel migliore dei casi, della prosperità tedesca.

Dietro agli occhiali cerchiati dalla montatura sottile e alla finezza dei lineamenti, Backe è un violento e un estremista. Due qualità che piacciono a Himmler, capo delle SS, e anche al suo esperto in problemi agrari, Richard Darré, che Backe segue come segretario di stato al ministero dell'Agricoltura nel 1933, e poi sostituisce come ministro in carica nel 1942. Nel frattempo, a partire dal 1936 è diventato l'esperto di agricoltura dell'amministrazione del Piano quadriennale diretto da Hermann Goering, al quale suggerisce, nel 1941, una strategia di sistematica riduzione alla fame dei territori orientali che il Reich si prepara a conquistare e colonizzare. Ideatore di un «Piano fame» (Hungerplan) che prevede di nutrire il Reich prelevando il cibo delle popolazioni sovietiche, Herbert Backe si assume freddamente la responsabilità della morte, probabile e secondo lui addirittura auspicabile, di trenta milioni di persone nel medio periodo. Un nazista integrale che, ancora nella prigione di Norimberga, continua a commuoversi per le parole di lode e di incoraggiamento prodigategli da Hitler. Ministro, generale delle SS e responsabile della pianificazione degli approvvigionamenti nell'Est, Backe fece una fulgida carriera sotto il Terzo Reich, di cui gli fu impossibile accettare il crollo. Si tolse la vita in cella nel 1947, a quarant'anni esatti dal suicidio del padre.

Rispetto alla nostra sensibilità questo tipo di percorso, di idee e di personalità risulta di un'estraneità assoluta. Neppure lo storico ormai familiarizzato con questi individui e con i testi che hanno prodotto, che tenta di capire in che modo degli esseri umani possano arrivare a pensare e ad agire cosí, riesce, quando solleva il capo dai documenti, posa gli occhiali e frappone un minimo di distanza tra sé e l'oggetto di studio, a evitare la nausea e lo sgomento che provocano le parole e le immagini del piccolo uomo raffinato, dell'ideologo convinto, del tecnico coscienzioso.

Esplorare la vita e l'universo di queste persone conduce in terre straniere, lontane, fatte di angoscia e brutalità, appartenenti a un tempo passato, considerato definitivamente concluso nel 1945.

Ci sono tuttavia, se ci si fa caso, alcune impressioni di contemporaneità, momenti in cui, alla lettura di una parola o di una frase, il passato appare presente. Ho avuto questa sensazione qualche anno fa mentre leggevo e commentavo un testo di Backe che per la sua sferzante brevità deve essere annoverato tra i suoi scritti piú violenti. Alla vigilia dell'attacco all'Unione Sovietica, per preparare e accompagnare la conquista e la colonizzazione dell'Est, il segretario di stato al ministero dell'Approvvigionamento e dell'Agricoltura del Reich redige un vademecum di tre pagine composto di dodici punti, un elenco di istruzioni destinato ai funzionari tedeschi del Piano quadriennale e agli agenti del suo ministero che si apprestano a ricoprire un incarico nei territori dell'Est. All'estraneità, presente nel testo, abbiamo già fatto cenno: il razzismo nei confronti dei russi, questi individui «dialettici», bugiardi, fanatici, arretrati; l'esaltazione del «signore e padrone» (Herrenmensch) tedesco rispetto al sotto-uomo (Untermensch) sovietico; la brutalità colonialista, che sa di frusta e di campo di prigionia. Ma in questo testo ci sono anche elementi familiari, cose che ci sembra di aver sentito o letto altrove, in altri contesti. Herbert Backe esige «efficienza» dai suoi agenti: «L'importante è agire», «prendere le decisioni rapidamente», «senza perdersi in scrupoli burocratici» («keine Aktenwirtschaft»). «Non parlate, agite», senza «protestare o lagnarvi nei confronti degli organi direttivi» («nach oben»). Gli organi direttivi stabiliscono un «obiettivo» (Endziel) che gli agenti devono raggiungere senza perdite di tempo, senza richieste di strumenti supplementari, senza affliggersi o abbattersi di fronte alla difficoltà del compito. Quel che conta è che la missione sia compiuta, poco importa il modo. Backe raccomanda la «massima elasticità nei metodi» adottati. Questi «metodi sono lasciati alla valutazione di ciascuno». In termini militari questa concezione del lavoro ha un nome, coniato nel XIX secolo: Auftragstaktik, tattica di missione, basata sull'obiettivo. All'ufficiale viene assegnata una missione: spetta a lui portarla a termine nei modi che preferisce e che ha a disposizione, purché l'obiettivo sia raggiunto.

«Elasticità» (si sarebbe potuto dire anche «flessibilità», «iniziativa», o «agilità»), «efficienza», «obiettivo», «missione»: eccoci su un terreno conosciuto. L'allosauro Backe, quel mostro arcaico e distante in uniforme da SS, torna a far parte del nostro tempo e dei nostri luoghi: ne usa infatti i vocaboli, ne adotta le categorie, ne elabora e ne applica le nozioni. L'immagine che ha di sé è quella di un «uomo efficiente» (Leistungsmensch), ed è cosí che si sente, rammaricandosi che invece il suo protettore e superiore Darré, a suo giudizio troppo molle, sia un «perdente» (Versager): un loser, potremmo tranquillamente tradurre.

Backe era convinto che la vita fosse una lotta in cui a imporsi era solo chi dimostrava determinazione ed efficienza: un gioco a somma zero, insomma, in cui i «perdenti» pagano a caro prezzo il conto della loro inferiorità e delle loro debolezze. Come tutti i suoi colleghi di lavoro e compagni di partito, anche lui era un darwinista sociale, che equiparava il mondo a un'arena. Essendo le risorse limitate, gli individui e - nella sua visione razzista - le specie si fanno una guerra all'ultimo sangue per accedere ad esse e mantenerne il controllo. L'agronomo Backe, il cui nome rimanda in tedesco al verbo «cuocere» (backen), ragiona in termini di spazi da conquistare e cibo da procurare, ossessioni peraltro piú che comprensibili per un tedesco che aveva abitato in un paese che ha conosciuto la carestia durante la Grande Guerra, ma molto lontane per noi, che siamo abituati a trovare di tutto e di piú sugli scaffali dei nostri negozi di alimentari; a meno che le conseguenze piú nefaste del cambiamento climatico non riportino il problema all'ordine del giorno. Backe, insomma, ha ossessioni e idee da nazista, ma parla una lingua usata anche dal nostro mondo, dalla nostra organizzazione sociale, dalla nostra economia.

Nell'ambito delle sue responsabilità e in ragione dei ruoli apicali che ha ricoperto, Herbert Backe si è interessato all'organizzazione del lavoro, alla leadership (Menschenführung), a quello che oggi chiamiamo management. Non fu il solo: tutt'altro. A guerra conclusa, come vedremo, alcuni nazisti faranno di questo interesse addirittura una professione e un'attività. Non c'è da stupirsene. La Germania era sede di un'economia complessa e sviluppata, con un'industria potente e abbondante, in cui gli ingegneri consulenti, come peraltro in Francia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in altri paesi d'Europa, riflettevano sul modo ottimale di organizzare la forza lavoro. Il management ha una storia che precede di molto l'avvento del nazismo, ma che ha conosciuto un'evoluzione pratica e un arricchimento concettuale proprio durante i dodici anni del Terzo Reich, èra "manageriale", ma anche contesto che ha fatto da matrice alla teoria e alla pratica della gestione aziendale postbellica.

La presa di coscienza, dopo il 1945, del fatto che il crimine di massa era stato un' industria ha dato luogo a riflessioni severe e aspre sull'organizzazione capitalistica e sulla nostra modernità. Un sociologo e pensatore dell'avvedutezza di Zygmunt Bauman ha destato grande impressione con la pubblicazione di Modernità e Olocausto, con cui ha fatto capire che l'orrore assoluto dei crimini nazisti era forse un fenomeno piú contemporaneo che arcaico: una particolare organizzazione economica e sociale e un controllo sconvolgente della logistica hanno reso possibile, se non favorito, una serie di crimini che spontaneamente verrebbe da attribuire alla piú arretrata delle barbarie anziché alla raffinata programmazione di un'impresa indubitabilmente moderna. Le riflessioni di un Bauman o, in ambito filosofico, di un Giorgio Agamben - che, tra altre perspicaci intuizioni, vede nel «campo» il luogo paradigmatico del controllo sociale, della gerarchizzazione e della reificazione che contrassegnano, nella sua visione, la nostra modernità - sono molto probabilmente servite a far cadere le inibizioni degli storici, lasciandoli sempre piú liberi di interessarsi alla contemporaneità del nazismo, al modo in cui questo fenomeno si inseriva nel nostro tempo e nelle sue tendenze, rivelandosene come il segno o il sintomo. Autori come Gótz Aly hanno visto nei crimini contro l'umanità la traduzione concreta di progetti politici ed economici razionali, decisi da un gruppo di tecnocrati e di manager - parola che vediamo apparire sempre piú spesso negli studi storici su questo periodo - che spostavano popolazioni, affamavano territori e predicavano lo sfruttamento delle energie vitali fino all'esaurimento totale con un distacco professionale e una freddezza - una «compostezza» diceva Himmler - veramente impressionanti. Questi tecnocrati e manager sono stati oggetto di alcuni studi approfonditi, come ad esempio quelli dedicati a Oswald Pohl, capo dell'ufficio centrale dell'Economia e dell'Amministrazione delle SS, a Hans Kammler, direttore del dipartimento «Costruzioni» dello stesso ufficio e responsabile, dopo il 1943, della messa in sicurezza delle produzioni strategiche nell'impero concentrazionario (in questa veste installò a Mittelbau-Dora la fabbrica delle V2), o anche ad Albert Speer , recentemente al centro di diverse biografie. Per quanto riguarda Speer, l'odierno interesse storico non si concentra tanto sull'architetto o sul testimone compiacente, quanto su colui che dal 1942 è 11 grande organizzatore dell'economia di guerra, il tecnico modernista, l'accorto amministratore e, insomma, il manager supremo delle industrie del Reich.

Sulla scia di questi lavori, si è potuto ipotizzare che il management e la «gestione» delle «risorse umane» abbiano in sé qualcosa di criminale, come ha suggerito con insistenza, e non senza maestria, il film La Question humaine. La sequenza che porta dall'oggettificazione di un essere umano - degradato alla condizione di «materiale», «risorsa», o «fattore di produzione» - fino al suo sfruttamento e alla sua distruzione, ha una sua logica, di cui il campo di concentramento, luogo di distruzione attraverso il lavoro (a partire dal 1939) e di produzione economica, è la sede paradigmatica.

Questa problematica richiederebbe una lunga e dettagliata discussione, ma non è questo l'obiettivo del nostro lavoro. Né questo libro vuole essere una requisitoria contro i manager, il management, i responsabili delle risorse umane o gli auditor delle società di consulenza: ce ne sono di abominevoli, ma molti hanno intrapreso la professione per il gusto delle cose umane e fanno del loro meglio per alleviare la sofferenza lavorativa dei dipendenti che dirigono o per cui lavorano. Alcuni di loro, com'è noto, sono diventati addirittura esimi sociologi del lavoro.

Qui, piú semplicemente, in un momento in cui il management è al centro dell'attenzione come una volta lo era il problema della salute, e in cui le «direzioni del personale» si sono trasformate in «gestioni delle risorse umane», la questione è sia allargare la prospettiva di osservazione sia approfondirla: per quale motivo, in quale contesto e per rispondere a quali esigenze, alcuni nazisti hanno riflettuto sull'organizzazione del lavoro, sulla suddivisione dei compiti e sulla struttura delle istituzioni nell'amministrazione pubblica e nell'economia privata? Che tipo di visione del management hanno sviluppato? Che cosa diventavano in queste riflessioni il lavoro, l'individuo e lo stesso servizio pubblico?

Sono interrogativi interessanti di per sé, in quanto apportano un contributo alla tesi della modernità del nazismo, della sua appartenenza al nostro tempo e al nostro luogo, il mondo contemporaneo. Ma diventano ancor piú interessanti qualora si osservi che la concezione nazista del management si è prolungata e perpetuata oltre il 1945, in pieno «miracolo economico» tedesco, e che ex gerarchi delle SS ne sono stati i teorici, ma anche i fortunati praticanti, capaci di portare a compimento una riconversione tanto spettacolare quanto remunerativa.

Il nostro proposito non è né ontologico né genealogico: non si tratta di affermare che il management ha origini naziste - sarebbe falso, dal momento che precede l'avvento del Terzo Reich di diversi decenni -, e neppure che è un'attività intrinsecamente criminale.

Vogliamo semplicemente proporre lo studio di un caso, che si basa su due constatazioni degne d'interesse per la nostra riflessione sul mondo in cui viviamo e lavoriamo. Primo: un gruppo di giovani giuristi, accademici e alti funzionari del Terzo Reich ha riflettuto molto sui problemi del management, sollecitato dall'enormità dei problemi che l'impresa nazista doveva affrontare in termini di mobilitazione delle risorse e organizzazione del lavoro. Secondo: paradossalmente, questo gruppo ha elaborato una concezione del lavoro non autoritaria, in cui l'impiegato e l'operaio acconsentono al proprio destino e approvano la propria attività, in uno spazio di libertà e autonomia incondizionate incompatibile con il carattere illiberale del Terzo Reich: un modo di lavorare «con gioia» («durch Freude») che si è diffuso dopo il 1945 e che oggi, in un'epoca in cui si ritiene che l'«impegno», la «motivazione» e il «coinvolgimento» dipendano dal «piacere» di lavorare e dalla «benevolenza» della struttura, ci è ormai familiare.

Avendo diritto di scegliere i mezzi in autonomia, ma non potendo partecipare alla definizione e alla scelta degli obiettivi, l'esecutore finiva per essere ancor piú responsabile - e quindi, nella fattispecie, colpevole - in caso di insuccesso.

Ma non mettiamo troppa carne al fuoco. Procediamo passo passo, e vediamo come a giuristi e amministratori sia venuta questa idea. La prima domanda che si pone e si impone alla loro attenzione è questa: come fare ad amministrare un Reich in continua espansione, date le magre se non magrissime risorse di mezzi e di personale?

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Pagina 23

Capitolo terzo

La «libertà germanica»


Il rifiuto e il ripudio da parte nazista della nozione e dell'esistenza stessa dello Stato ha di che sorprendere, tanto è scontato che un «totalitarismo» presupponga, come sembrerebbe evidente, uno «Stato totalitario».

Lo Stato invece, agli occhi di tutti i pensatori, gli ideologi, i teorici e gli «intellettuali da combattimento» su cui può contare il movimento nazista, è ben altro che qualcosa di puramente inutile: è anche e soprattutto qualcosa di nefasto e fatale.

Ancora una volta, come quasi sempre, i nazisti attingono a una tradizione e a un patrimonio ben precisi, quelli del darwinismo sociale, del razzismo e dell'eugenetica della seconda metà del XIX secolo, tre movimenti culturali e ideologici che hanno prosperato in una sinergia che ha avuto effetti devastanti per quella parte di umanità ritenuta mal riuscita, insana e «indegna di vivere».

Dal darwinismo sociale originato dal pensiero ultraliberale di Herbert Spencer i nazisti hanno ereditato l'idea che lo Stato ostacola, o addirittura impedisce del tutto, la logica e la dinamica della natura. Quest'ultima, è fin troppo noto, lascia deperire o fa soccombere ciò che non è in grado di vivere. Ecco però che in Germania lo Stato, con la sua attività di ridistribuzione delle ricchezze e un precoce sistema di previdenza sociale, assicura la sopravvivenza di chi invece non sarebbe in grado di sopravvivere. Opponendosi alla logica implacabile, e sana, della «selezione naturale», di cui la selezione sociale costituisce la trasposizione in ambito umano, lo Stato assume un ruolo controselettivo, o antiselettivo, che fa prosperare l'infermo e l'inetto, l'insano insomma, a scapito del sano. Fin dagli anni Ottanta dell'Ottocento il cancelliere Bismarck, traendo ispirazione dalle idee di giustizia del pietismo protestante, ma anche dai socialisti, che voleva indebolire prosciugandone la base elettorale, aveva istituito in Germania una serie di garanzie sociali che ponevano grossi problemi: il disoccupato, questo professionista dell'ozio, era incoraggiato a indulgere nel suo vizio anziché essere abbandonato alla propria sorte, vale a dire a una fame rinvigorente che alla fine gli avrebbe insegnato a vivere e a lavorare. Quanto ai «malati ereditari», si vedevano protetti da una legislazione che, in barba a tutte le conquiste della scienza, ne permetteva e prescriveva la sopravvivenza, la crescita e la prolificazione: mentre c'erano famiglie tedesche sane e laboriose che vivevano in misere stamberghe, alcuni trisomici, paraplegici o idrocefalici prosperavano in ospizi lussuosi, finanziati sí, il piú delle volte, dalla beneficenza privata, ma sorti grazie a una legislazione di Stato antinaturale in quanto controselettiva.

Muoia ciò che deve morire, proclamano i darwinisti sociali e i loro discepoli nazisti: e l'esortazione vale sia per un'attività non redditizia sia per una mente e un corpo «inefficienti».

Lo Stato, purtroppo, è quell'istituzione artificiale che fa trionfare l'inchiostro della legge sul sangue della razza, l'artificio sulla natura: imponendo la sopravvivenza e la proliferazione dei deboli, degli inutili, dei falliti, incoraggia una cancrena che alla fine si rivelerà fatale per il «corpo del popolo» (Volkskörper), metafora organicista che designa la «comunità del popolo» e che, in realtà, è a tal punto letterale da non essere piú una metafora.

A rendere lo Stato ancor piú nefasto e letale è il piacere maligno che sembra provare nell'ostacolare e soffocare le «forze vive» con una regolamentazione cavillosa, applicata da tutti i passacarte privi di immaginazione e da tutti gli eunuchi servili che popolano la funzione pubblica: questo grumo di regolamenti e questa infezione amministrativa fanno rapprendere il sangue, i flussi e le dinamiche della razza germanica, invece di fluidificarne e facilitarne la circolazione. In queste condizioni la trombosi è inevitabile, e in assenza di una svolta salutare la morte è certa. I molteplici appelli alla «semplificazione» delle regole e delle norme, le incessanti condanne dello «spirito burocratico», la stigmatizzazione violenta dei funzionari e dei giudici che hanno ancora il cattivo gusto di applicare la legge, sono tutti sviluppi dell'eredità del darwinismo sociale accomunati da un ideale di liberazione di una germanicità che è ancora troppo intralciata da leggi concepite e promulgate da ebrei.

Nell'ambito dell'ordine interno, dunque, lo Stato è ciò che intralcia e soggioga la razza germanica: è stasi che nega la dinamica della vita; è generalità, o universalità, che non si mette al servizio del particolare (dell'identità razziale); è artificio che nega la natura. È morte che ghermisce la vita.

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Pagina 33

Sotto ogni aspetto e in tutti i campi, il Reich è dunque il regno della libertà. Il Führer non è un dittatore, né tanto meno un despota. Con la sua persona, il suo percorso e la sua azione, costituisce l'incarnazione vivente della libertà germanica. Non comanda per diritto di primogenitura o di nascita, non comanda per decreto amministrativo o volere divino, comanda perché meglio di ogni altro ha compreso le leggi della natura e della storia e per questo è il piú qualificato a proteggere e accrescere la stirpe tedesca. A tutti i livelli, gli innumerevoli Führer militari, paramilitari, politici, economici e civili sono anch'essi gli eletti della natura, designati dalle loro capacità e dai loro talenti. I loro seguaci (la Gefolgschaft) sono liberi, dal momento che gli ordini dei capi sono espressione della volontà profonda e delle necessità del destino della razza germanica.

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Pagina 35

Capitolo quarto

Gestire e preservare la «risorsa umana»


Il lavoro teorico di alcuni giuristi nazisti sulla «direzione degli uomini» - quella Menschenführung che traduce e germanizza il termine americano management - è inscindibile da un'ambizione che è diventata ossessione: mettere fine alla «lotta delle classi» per mezzo dell'unità razziale e del lavoro comune, a beneficio della Germania e della Volksgemeinschaft («comunità del popolo»). L'idea che il gruppo umano sia una società composta di individui e attraversata da conflitti di classe è secondo i nazisti un'aberrazione di cui sono responsabili tanto i rivoluzionari francesi e i loro ispiratori ( Rousseau in primo luogo) quanto Karl Marx e i giudeo-bolscevichi tedeschi e russi.

[...]

Per i nazisti e per tutti coloro che condividono la loro sensibilità, l'uomo germanico è l'uomo della «comunità» (Gemeinschaft) e del «lavoro» (Arbeit). Un uomo ansioso di produrre oggetti (per esempio armi, o alimenti) e figli che gli permettano di restituire alla «comunità del popolo» ciò che essa gli ha dato (le cure infantili, la prima istruzione...) e, grazie alla sua efficienza, di restituirlo centuplicato. Quando sia necessario questa prestazione deve essere potenziata dalla chimica, altra importante realizzazione del genio germanico, come testimonia il consumo massiccio di metanfetamine, assunte sotto forma di pillole di Pervitin, e prescritte a operai e soldati per accrescere tempi di veglia, acutezza psichica e presenza fisica.

Questa visione dell'individuo - un individuo che di per sé non esiste, dal momento che «l'individuo è niente, il suo popolo è tutto».- è al tempo stesso utilitaristica e reificante. Trasforma tutti in cose (res), in oggetti, che devono avere un'utilità per vedersi riconosciuto il diritto di vivere ed esistere. L'individuo germanico diventa un utensile, un materiale (Menschenmaterial). Diventa un fattore - di produzione, di crescita, di prosperità.

Quello nazista è un razzismo eugenetico: non basta avere il sangue giusto e il giusto colore della pelle, occorre anche essere pienamente utilizzabili come produttori e riproduttori. Non esistendo ancora la prognosi genetica prenatale, era l'epoca della diagnosi: tutti coloro che sono considerati malati ereditari devono essere esclusi dal ciclo procreativo (400000 sterilizzazioni forzate tra il 1933 e il 1945), o addirittura assassinati, come avviene a partire dal 1939 (200000 morti fino al 1945) nel quadro dell'operazione T4 e dei suoi prolungamenti: come si vede, il crimine contro l'umanità e il massacro di massa colpiscono anche la biologia - o letteralmente la biomassa - «germanica» quando questa è giudicata insoddisfacente o difettosa. Gli «esseri inefficienti», «improduttivi», «non redditizi» (leistungsunfähige Wesen) sono «esseri indegni di vivere» (lebensunwürdige Menschen), sono semplici «involucri umanoidi vuoti» (leere Menschenhülsen) che devono essere esclusi dal «patrimonio genetico tedesco» (deutsche Erbmasse). E i medici si fanno ancor meno scrupoli a collaborare a questa impresa di ingegneria biopolitica o, per usare l'espressione di un giurista nazista, «bionomica», dal momento che ritengono che il soggetto di cui prendersi cura non debba essere l'individuo, ma il «corpo» della «comunità del popolo» nel suo insieme, di cui gli individui sono soltanto le membra.

Le lenti biologiche naziste deformano cosí non solo gli allogeni, gli estranei alla razza, percepiti come inferiori o pericolosi, ma anche la stessa umanità tedesca, che deve dimostrare la propria eccellenza. A tal punto che nel marzo del 1945, quando ormai i tedeschi avranno perso la guerra, Hitler non esiterà a ritenere che la totalità del suo popolo poteva tranquillamente soccombere, in ragione dell'inferiorità di cui aveva dato prova.

L'ingegneria sociale, biologica e medica si scaglia brutalmente contro «gli esseri inefficienti» e le «entità indegne di vivere», ma anche contro gli «asociali» - vagabondi, sognatori, originali di vario tipo o funzionari facili al romanticismo, la cui esistenza continua a non essere «remunerativa» per la «comunità del popolo». A partire dal 1936, varie operazioni di polizia e delle SS prelevano migliaia di fannulloni o presunti tali per depositarli in campi di lavoro o di concentramento.

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Pagina 89

Epilogo


[...]

Il management, o come si diceva una volta in Francia l' organisation, l'«organizzazione», è una riflessione che si occupa di strutture occupazionali, di attribuzioni di compiti, di definizioni di competenze e responsabilità. In questa veste ha potuto diffondersi, a partire dalla fine dell'Ottocento, in alcuni contesti liberali capitalistici, ad esempio in Francia, con Fayol , o negli Stati Uniti, con Taylor , ma anche nella Russia Unione Sovietica della Rivoluzione bolscevica o nella Germania nazista. Al pari della scienza, potremmo dire (ma la scienza lo è mai veramente?), è uno strumento neutro, che può essere utilizzato, con o senza cognizione di causa, per far funzionare bene una casa di cura per bambini malati cosí come una fabbrica di carri armati. Tutto questo è probabilmente vero, ma non è tutto.

Il management, infatti, una volta diventato a tutti gli effetti una disciplina autonoma, teorica e pratica, che dà origine a scuole specializzate («di commercio» in Francia, di business, sempre in Francia, oppure, semplicemente, di «management»), a studi di consulenza e a impieghi specifici, è anche l'indicatore o il sintomo di una particolare organizzazione sociale. «L'èra dei responsabili», o «secolo dei capi», e il tempo dei «processi» (o dei processes, termine inglese generalmente preferito a quello di «procedura») corrispondono all'epoca delle grandi strutture di produzione, della «gestione» delle masse dell'èra industriale, della frammentazione del lavoro - a partire dalla seconda metà del XIX secolo - in mansioni e funzioni specializzate.

In quei frangenti si rese evidente che ciò che funzionava nella bottega, nel laboratorio e magari anche nella fabbrica - l'intuizione, la relazione interpersonale, l'improvvisazione di un certo tipo - non serviva piú nelle grandi unità di produzione popolate da nutrite schiere di lavoratori. L'èra della produzione di massa fu certamente l'èra dei capi, ma anche quella degli ingegneri consulenti e successivamente dei consulenti in organizzazione, in direzione aziendale e in management. In un mondo per larga parte disincantato, in un mondo di materia da trasformare e di natura da dominare, l'orizzonte, puramente immanente, viene tutto riassunto nella produzione e nel profitto o, per essere piú precisi, nell'incremento della prima e nell'ottimizzazione del secondo. In effetti è cosí dappertutto: dalle officine Renault di Billancourt, o dalle fabbriche Citroën di Javel, alla colossale fucina della Ford T di Detroit, dall'Urss stalinista dei piani quinquennali, in piena «ripresa» industriale, alla Germania nazista.

Quest'ultima ci offre un punto di osservazione interessante per pensare il management e la nostra modernità. Questo paese, conquistato da un'ideologia che si esprime in atti, fu la sede paradossale di una «modernità reazionaria» che mise al servizio di un progetto in parte arcaico (ritorno alle origini, guerra zoologica) tutte le risorse della modernità scientifica, tecnica e organizzativa. Altrettanto paradossale, dal nostro punto di vista, è la volontà di suscitare il consenso e addirittura di generare adesione in un paese che a partire dal 1933 tendiamo a considerare come un'immensa prigione a cielo aperto, come un enorme campo di concentramento - e che tale fu per una parte della popolazione, ma non per la sua stragrande maggioranza, a patto che fosse ritenuta di «buona razza» e che se ne stesse politicamente tranquilla. Ben lungi dall'essere una semplice alleanza di microfono (propaganda) e manganello (repressione) che operava all'ombra delle torrette di guardia dietro al filo spinato, la Germania nazista fu invece un'organizzazione complessa in cui il potere cercò di comprare il consenso offrendo in cambio appagamento, e fu quasi costantemente in trattativa - per lo meno tacita - con la popolazione, fino all'esplosione della violenza che travolse i tiepidi e i titubanti, se non i resistenti, nell'autunno del 1944, al culmine della guerra e del disastro.

Questa realtà politica, partecipativa piú che repressiva, aveva una motivazione ideologica: in opposizione alla società della lotta tra le classi, si trattava di realizzare l'avvento della comunità dei «compagni del popolo di razza» (Volksgenossen), di una Germania unita nella lotta per la vita, alleggerita dal peso delle idee false e nefaste dell'individualismo liberale o del marxismo.

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[...] Reinhard Höhn rimase fedele a questa idea di retaggio nazista, quella per cui nella lotta per la vita cosí come nella guerra economica è necessario essere efficienti e incoraggiare l'efficienza. Era un darwinista sociale inveterato che, su questo piano, si trovò benissimo nel mondo del «miracolo economico» tra gli anni Cinquanta e Settanta: crescita, produttività, competizione erano idee che i nazisti avevano portato al punto d'incandescenza nella loro insaziabile corsa alla produzione e al dominio. Essere redditizi / efficienti / produttivi (leistungsfähig) e affermarsi (sich durchsetzen) in un universo concorrenziale (Wettbewerb) per trionfare (siegen) nella lotta per la vita (Lebenskampf): questi vocaboli tipici del pensiero nazista furono i vocaboli di Höhn dopo il 1945, cosí come oggi sono troppo spesso anche i nostri. Non sono stati i nazisti a inventarli - sono termini ereditati dal darwinismo sociale militare, economico ed eugenista sviluppatosi in Occidente tra il 1850 e la fine degli anni Trenta del Novecento -, ma sono stati i nazisti ad averli incarnati ed esaltati in un modo che dovrebbe indurci a riflettere su ciò che siamo, che pensiamo e che facciamo.

Non dobbiamo forse, macchine tra le macchine, indurirci come acciaio (stählern) dentro a veri e propri sportifici? Non dobbiamo «lottare» ed essere dei «combattenti»? Non dobbiamo forse «gestire» le nostre vite, i nostri affetti e le nostre emozioni e dimostrarci efficienti nella guerra economica? Sono idee che comportano la reificazione di sé, dell'altro e del mondo - la trasformazione generalizzata di ogni esistenza, di ogni essere, in «oggetti», in «fattori» (di produzione), fino all'esaurimento e alla devastazione.

Il caso - estremo - di Reinhard Höhn lo conferma: il «management» e il suo regno non sono neutri, sono del tutto solidali con un'epoca delle masse, della produzione e della distruzione che ha conosciuto i suoi decenni d'oro, in Europa e negli Stati Uniti, tra il 1890 e il 1970. A infliggere a quest'epoca un primo colpo sono state le crisi petrolifere del 1973 e del 1979, mentre una seconda fase critica ha forse avuto inizio con gli anni Duemila e con la progressiva presa di coscienza del fatto che la nostra civiltà termoindustriale, il nostro modo di vita e di produzione minacciano a breve termine la nostra stessa vita sulla Terra.

La perdita di connessione con la natura e con la realtà delle produzioni, oltre che con il lavoro come strumento di realizzazione umana, e l'evaporazione crescente del significato e del piacere che ognuno può trovare nel proprio lavoro stipendiato lasciano ai nostri contemporanei soltanto questa curiosa astrazione della «struttura» e dei problemi che genera. La produzione tradizionale, quella dell'agricoltore e dell'artigiano, si scontrava con le difficoltà concrete e reali poste dalla terra e dalla materia. Nell'età del terziario e del virtuale galoppante, l'organizzazione del lavoro sembra essere diventata la sola realtà: ottenere un «job», essere valutati e valutare gli altri è spesso diventato l'unico orizzonte di una «carriera» completamente autoreferenziale, che non ha piú altro fine se non se stessa, sempre che non sia semplicemente percepita dallo stesso lavoratore dipendente come perfettamente inutile, come un bullshit job, che però bisogna pur fare per pagare le bollette, per passare il tempo, per soddisfare un determinato imperativo di normalità sociale. In un mondo cosí il «management» è sovrano, e i problemi piú dolorosi in cui ci imbattiamo (dai dolori fisici e psichici al suicidio) sono proprio quelli che sembrano creati dallo stesso management.

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