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| << | < | > | >> |IndicePrefazione dei curatori 11 I. «HORREUR DU DOMICILE» Ho sempre desiderato andare in Patagonia 17 Un posto per appendere il cappello 30 Una torre in Toscana 37 Andato a Timbuctù 42 II. RACCONTI Latte 51 Le attrattive della Francia 62 Il patrimonio di Maximilian Tod 70 Beduini 88 III. «L'ALTERNATIVA NOMADE» Lettera a Tom Maschler 93 L'alternativa nomade 104 Questo nomade nomade mondo 121 IV. RECENSIONI Abele il Nomade 131 Gli anarchici della Patagonia 137 La via delle isole 152 Variazioni su un'idea fissa 164 V. L'ARTE E L'ICONOCLASTA Tra le rovine 177 La moralità delle cose 197 Note 215 Ringraziamenti 223 |
| << | < | > | >> |Pagina 17 [ inizio libro ]Bruce è un nome di cane in Inghilterra (non in Australia), ed era anche il cognome dei nostri cugini scozzesi. L'etimologia di «Chatwin» è oscura, ma lo zio Robin, suonatore di fagotto, sosteneva che in anglosassone chette-wynde voleva dire «sentiero tortuoso». Il nostro ramo della famiglia risale a un fabbricante di bottoni di Birmingham, ma in un angolo remoto dello Utah esiste una dinastia di Chatwin mormoni, e di recente ho avuto notizia di un signor Chatwin e signora, trapezisti. Quando mia madre sposandosi entrò nella famiglia, i Chatwin appartenevano alla «buona borghesia di Birmingham», erano cioè professionisti, architetti e avvocati, che non si occupavano di commercio. Sparsi tra i miei progenitori e parenti c'erano tuttavia non pochi personaggi leggendari, le cui storie m'infiammavano l'immaginazione: 1. Un nebuloso antenato francese, Monsieur de la Tournelle, coinvolto, pare, nell'affaire della collana della Regina. 2. Il trisavolo Mathieson, che all'età di settantun anni aveva vinto la gara di «lancio del tronco» negli Highland Games, morendo lì per lì per un colpo apoplettico. | << | < | > | >> |Pagina 81La biblioteca di Mr Tod - almeno, la sua parte visibile - non era una biblioteca nel senso corrente ma una raccolta di testi che avevano per lui un significato speciale. Erano legati in carta grigia e custoditi in una cassetta da viaggio di zigrino. Li elencherò nell'ordine in cui erano disposti, perché quest'ordine dà di per sé una certa idea della personalità del proprietario: il trattato di Cassiano sull'accidia; il poema irlandese antico La capanna dell'eremita; il saggio poetico di Hsien Yin Lung Sul vivere nelle montagne; un facsimile del De arte venandi cum avibus dell'imperatore Federico II; lo scritto di Abu'l Fazl su Akbar e i suoi piccioni viaggiatori; le Notes on the Colour of Water and Ice di John Tyndall; L'ironia delle cose di Hugo von Hofmannsthal; Landor's Cottage di Poe; il Pellegrinaggio di Caino di Wolfgang Hammerli; il poemetto in prosa di Baudelaire con il titolo inglese Anywhere out of this World!; e l'edizione 1840 dell' Etude sur les glaciers di Louis Agassiz, con l'appendice di cromolitografie della Jungfrau e di altri ghiacciai svizzeri.Dovrebbe essere chiaro, anche per il lettore più sbadato, che Maximilian Tod sono io. La mia storia è priva di importanza. Detesto le confidenze. D'altronde, sono convinto che un uomo è la somma delle sue cose, anche se alcuni fortunati sono la somma di un'assenza di cose. Qualche dato biografico può tuttavia giovare a mettere le mie acquisizioni in una sequenza cronologica. Sono nato il 13 marzo 1921 nel palazzo di granito dei miei avi americani a Bucksport, Maine. (La casa conteneva un mediocre ritrattò di Copley e una collezione di vasi attici che neanche da bambino eccitavano la mia cupidigia). Mio padre era Caleb Saltonstall Todd e mia madre Maria Gräfin Henkel von Trotschke, di Ückermünde, nella Prussia Orientale. I Todd di Bucksport dovevano la loro fortuna all'esportazione di ghiaccio in India. I miei antenati tedeschi entrarono nella storia in seguito alle invasioni mongole. Mio padre era un discepolo di Madison Grant e citava di continuo Il tramonto della grande razza di quell'autore. Studente universitario a Harvard dal 1910, lesse e ingurgitò la filosofia razziale di Ernst Haeckel, i cui tentativi di spiegare la storia alla luce di un crudo determinismo biologico sono un affronto alla logica e al senso comune. | << | < | > | >> |Pagina 104| << | < | > | >> |Pagina 115Lo sciamanismo è un'ideologia religiosa propria di cacciatori e pastori. Sembra essere di origine nord-asiatica, ma è diffuso in tuta l'America del Nord e del Sud, in Oceania, Indonesia e Australia. Pratiche sciamaniche sono storicamente documentate in terre fra loro lontanissime quali la Cina, l'Irlanda dell'Età del Ferro, la Scandinavia pagana, tra gli sciti e i traci, nella Grecia classica dopo l'apertura della via commerciale del Mar Nero, e anche in Siberia nel XIX secolo. I tratti fondamentali dello sciamanismo sono un Essere Celeste identificato con il cielo, la comunicazione diretta fra cielo e terra, e una regione infera connessa con questi luoghi da un asse cosmico.Uno sciamano, secondo la definizione del professor E.R. Dodds, è «una persona psichicamente instabile che è stata chiamata a vita religiosa. In seguito a questa vocazione egli subisce un periodo di rigorosa preparazione, che di solito comporta solitudine e digiuno, e a volte un mutamento psicologico di sesso. Dal suo "ritiro" religioso egli emerge con il potere, reale o presunto, di entrare a volontà in uno stato di dissociazione mentale». Ogni trance, che lo sciamano ottiene con il digiuno seguito da una danza al monotono battito di un tamburo, ripete la sua morte simbolica. Spesso egli fa ricorso a farmaci, alla canapa, al fungo sciamanico - l'Agarico moscario, che è probabilmente il Soma dei testi vedici. Gli sciamani ostiachi e voguli mangiano questo fungo e volano al cielo, «dove vivono nei raggi del sole come insetti nei capelli umani». Erodoto descrive sciti «urlanti di gioia» in un bagno che pare fosse una sorta di sauna, con i benefici supplementari della canapa. Strabone parla di sciamani o veggenti «che camminano nel fumo», e la prima parte delle Nuvole di Aristofane sembra essere poco più che una parodia moralistica di una seduta sciamanica. | << | < | > | >> |Pagina 121In uno dei suoi momenti cupi, Pascal dice che tutta l'infelicità dell'uomo proviene da una causa sola, non sapersene star quieto in una stanza. «Notre nature» egli scrive «est dans le mouvement ... La seule chose qui nous console de nos misères est le divertissement». Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo, amore e paesaggio. Ne abbiamo bisogno come dell'aria che respiriamo. Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono. L'uomo che se ne sta quieto in una stanza chiusa rischia di impazzire, di essere tormentato da allucinazioni e introspezione. Neurologi americani hanno fatto l'encefalografia a non pochi viaggiatori. E' risultato che cambiare ambiente e avvertire il passaggio delle stagioni nel corso dell'anno stimola i ritmi cerebrali e contribuisce a un senso di benessere, di iniziativa e di motivazione vitale. Monotonia di situazioni e tediosa regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi, apatia, disgusto di sé e reazioni violente. | << | < | > | >> |Pagina 164| << | < | > | >> |Pagina 168Lorenz non dà segno di abbandonare la sua visione della Grande Città come aia macroscopica che favorisce la selezione di devianti genetici, il cui comportamento sconsiderato ripugna non meno del loro misero aspetto. Quando andai a trovarlo, alcuni anni fa, mi disse: «Da quando abito qui ad Altenberg ho notato una progressiva cochonification dei ragazzi che nuotano nel Danubio. Come si può tradurre? Maializzazione! Ragazzi grassi e uomini grassi! Lo stesso negli animali domestici... Completa mancanza di selettività nelle abitudini nutrizionali!».«Ma certo,» dissi io «questo è colpa dell'industria alimentare. Non è un fatto genetico». «Non m'importa se si tratta di involuzione culturale o di involuzione genetica. Io so che l'involuzione culturale è dieci volte più rapida di quella genetica. Ma una cultura si comporta esattamente come una specie!». Ora, se vi lasciate portare oltre su questa strada da Lorenz, potreste trovarvi spinti a concludere che i più begli esemplari di umanità, gli «uomini forti e virili» da lui sempre vagheggiati, hanno il dovere di sopprimere gli inferiori; e che questo, a dirla in breve, è lo scopo dell'«impulso aggressivo». Ma chi si è fatto irretire da Il cosiddetto male avrebbe forse avuto di che riflettere se avesse saputo che ampi tratti di quel libro somigliano fortemente a un saggio scritto nel 1942, quando la Soluzione Finale era in pieno corso e Lorenz era professore di psicologia all'Università di Königsberg nella Prussia Orientale. Il saggio Le forme innate dell'esperienza possibile omesso nei due volumi di saggi lorenziani pubblicati in inglese, evocava la percezione gestaltica e i principi dell'etologia per caldeggiare una «consapevole politica razziale a base scientifica», intesa a eliminare i degenerati che corrodono il corpo sano della società come la crescita parassitaria di un tumore maligno. Arbitri dell'applicazione di tale politica dovevano essere «i nostri individui migliori» (Führer-Individuen), i cui spietati giudizi di valore avrebbero deciso chi era o non era affetto da decadimento. Lorenz rifiutava la conclusione pessimistica di Spengler, secondo il quale le nazioni decadono per una logica insita nel tempo. La biologia applicata avrebbe prevenuto l'«inevitabile fato» spengleriano. Allora, come oggi, veniva chiamata in causa l'oca selvatica. | << | < | > | >> |Pagina 197| << | < | > | >> |Pagina 198E noi non aspiriamo tutti a rovesciare i nostri altari e a liberarci dei nostri possessi? Non guardiamo con freddezza ciò che ci ingombra, dicendo: «Se questi oggetti esprimono la mia personalità, allora io odio la mia personalità»? Che cosa, infatti, stando all'evidenza, arricchisce la vita meno di un'opera d'arte? Ce ne stanchiamo. Non possiamo mangiarla. E' una compagna incomoda. La custodiamo, e ci sentiamo obbligati a goderne anche se da un pezzo non ci diverte più. Sacrifichiamo la nostra libertà d'azione per diventare i suoi guardiani privilegiati, e finiamo per esserne prigionieri e schiavi. Tutte le civiltà sono per loro stessa natura «orientate verso le cose», e il principale problema della loro stabilità consiste nell'escogitare nuove equazioni fra l'impulso di ammassare cose e l'impulso di sbarazzarcene.Ma le cose hanno un loro modo di insinuarsi in ogni vita umana. Alcuni attraggono più cose di altri, ma nessuno, per quanto mobile, è senza cose. Uno scimpanzé usa pietre e bastoni come strumenti, ma non ha beni da custodire. L'uomo sì. E le cose a cui si affeziona di più non servono a nessuna funzione utile. Sono, invece, simboli, o ancore emotive. La domanda che vorrei fare (senza essere necessariamente in grado di rispondervi) è: «Perché i veri tesori dell'uomo sono inutili?». Se capissimo questo, riusciremmo anche a capire i complicati rituali del mercato dell'arte. Le persone che conoscono e davvero amano le cose - le persone, diciamo, che hanno gusto - di solito inveiscono contro il filisteo che compra un'opera d'arte con la stessa emozione con cui mangerebbe un uovo. Lo accusano di far collezione per procurarsi senza pena una rispettabilità intellettuale, o per farsi ammirare di riflesso nello specchio delle sue cose. Ma Freud e gli psicoanalisti accennano a magagne molto peggiori nel collezionista d'arte coatto. Il vero collezionista, suggeriscono, è nella vita un voyeur, che si protegge con un'imbottitura di possessi da coloro che vorrebbe amare, dotato di sentimenti delicatissimi per le cose e di una sensibilità glaciale per le persone. E' il classico pesce freddo. Succhia la vitalità di epoche passate per compensare l'impotenza del presente. E difende le sue cose con le unghie e coi denti contro i lupi umani che le minacciano. (Per il borghese, diceva Marx, la distruzione di mattoni e calcina è fonte di sgomento più dello spargimento di sangue). In altre parole, il collezionista si crea un sistema morale da cui esclude gli esseri umani. Possiamo chiamarlo la moralità delle cose. L'acquisizione di un oggetto diventa di per sé una Ricerca del Graal - la caccia, l'identificazione della selvaggina, la decisione di comprare, il sacrificio e la paura della rovina finanziaria, la Nube Oscura dell'Incertezza («sarà un falso?»), l'impacchettamento, il viaggio a casa, l'estasi di disfare l'involucro, il disvelamento dell'oggetto della ricerca, la notte in cui non si va a letto con nessuno, ma si veglia, contemplando, accarezzando, adorando il nuovo feticcio - il compagno, l'amante, ma ben presto il seccatore, da cacciar via o da rivendere quando un'altra cosa più desiderabile lo soppianta nei nostri affetti. Ho notato spesso che nelle collezioni veramente grandi gli oggetti migliori si adunano come una schiera di angeli custodi intorno al letto, e il letto stesso è pietosamente angusto. Il vero collezionista ospita uno stuolo di amanti inanimati per puntellare le macerie della vita. In un'autoanalisi di precisione chirurgica, Mario Praz, nel suo La casa della vita, spiega che sulle persone non si può mai fare assegnamento. Bisogna, invece, circondarsi di cose, perché loro non ti abbandonano mai. | << | < | > | >> |Pagina 209Vi chiederò ora di ammettere che un'opera d'arte è un'affermazione metaforica di territorio, e un'espressione della gente che ci vive. La statua africana di un antenato, non meno di un Gainsborough, proclama la legittimità di un uomo, di una famiglia o di una tribù nella sua sede particolare. Ora, abbiamo sentito tutti l'idea che il collezionismo d'arte è formazione di territorio. Il collezionista disegna la sua zona come un cane marca una serie di lampioni. E possiamo congetturare che la fissazione dell'uomo per le cose, che Freud bolla come una perversione, sia semplicemente il suo modo di demarcare un luogo in cui vivere. Per noi le cose sembrano avere un'importanza vitale; esserne privi è causa di smarrimento o di squilibrio.
D.W. Winnicott ha dato un altro nome al feticcio. Lo ha
chiamato «oggetto transizionale». Per i nostri bambini
questo oggetto può essere un orsacchiotto, l'angolo di un
lenzuolo o un pezzo di legno. Winnicott sostiene che al
bambino deve essere consentito di giocare con le cose;
altrimenti egli non si formerà un proprio spazio personale e
non saprà staccarsi dalla madre per orientarsi nel mondo
esterno.
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