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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 13 1. PAGINE PER GLI AMICI E LA FAMIGLIA 15 Assunta (racconto) 17 Assunta 2 (racconto) 20 Gli occhi di tuo padre sono di nuovo azzurri 25 2. STRANI INCONTRI 29 Un colpo di Stato (racconto) 31 La Famiglia Lyman (racconto) 55 Finché il mio sangue non sia puro (racconto) 62 Il geomante cinese 70 3. AMICI 79 George Ortiz 81 Kevin Volans 86 Howard Hodgkin 94 A cena con Diana Vreeland 104 4. INCONTRI 105 Nadezda Mandel'stam: una visita 107 Madeleine Vionnet 110 Maria Reiche: l'enigma della Pampa 119 Konstantin Mel'nikov: architetto 133 André Malraux 144 Werner Herzog nel Ghana 171 5. RUSSIA 187 George Costakis: la storia di un collezionista d'arte nell'Unione Sovietica 189 Il Volga 210 6. CINA 237 Cavalli Celesti 239 Il mondo di Rock 252 Invasioni nomadi 264 7. PERSONE 281 Shamdev: il ragazzo-lupo 283 La tristissima storia di Salah Bougrine 292 Donald Evans 319 8. VIAGGI 327 Sulle orme dello yeti 329 Lamento per l'Afghanistan 347 9. ALTRE DUE PERSONE 357 Ernst Jünger: un esteta in guerra 359 In viaggio con Mrs G. 381 10. CODA 409 L'albatro 411 Chiloé 415 11. STORIE DEL MONDO DELL'ARTE 423 Il duca di M**** 425 Il Bey 429 La mosca 434 Il mio Modi 437 Nota bibliografica 441 |
| << | < | > | >> |Pagina 31Quando cominciò il colpo di Stato, noi eravamo su un taxi, in viaggio verso un altro Paese. Avevamo superato l'Hôtel de la Plage, superato la Sùreté Nationale, e poi passammo sotto una bandiera che sventolava stancamente e sulla quale era scritto, in lettere rosse, che il marxismo-leninismo era l'unica e sola guida. Di fronte al Palazzo presidenziale c'era un posto di blocco. Un soldato ci fece segno di fermare e poi ci fece segna di proseguire. «Pourriture!» disse il mio amico Domingo, e fece una smorfia. Domingo era un giovane mulatto dalla pelle color miele, con una faccia piatta e cordiale, un paio di baffetti ricci e una fila di denti abbaglianti. Era un discendente diretto di Francisco Felix de Souza, un mercante di schiavi brasiliano sul quale stavo scrivendo un libro. Domingo aveva due mogli. La prima moglie era vecchia e la pelle le cadeva in tante pieghe giù per la schiena. La seconda moglie era poco più che una bambina. Eravamo diretti nel Togo, per andare a vedere una partita di calcio e far visita al suo prozio, che conosceva una quantità di antiche storie sul negriero. Il furgone che faceva da taxi era stipato di tifosi di calcio. Alla mia destra era seduto un vecchio nerissimo, avvolto in una veste di cotone verde e arancio. Aveva i denti dello stesso color arancione, a forza di masticare noci di cola, e ogni tanto sputava. Davanti al Palazzo presidenziale era appeso un enorme manifesto con la faccia del Capo dello Stato, e altri due, molto più piccoli, raffiguravano Lenin e Kim Il-Sung. Dopo il posto di blocco svoltammo a destra e attraversammo il vecchio quartiere europeo, dove c'erano case di legno a un piano e riquadri di buganvillee accanto agli ingressi. Sui lati della striscia di asfalto le donne andavano al mercato camminando in fila indiana e tenendo in equilibrio sulla testa ceste e catini. «Che cosa succede?» domandai. C'era una certa agitazione davanti a noi, dalla parte dell'aeroporto. «Un incidente!» disse Domingo stringendosi nelle spalle. Le donne strillavano, lasciavano cadere qua e là i loro yam e ananas, e correvano a cercare riparo nei giardini. Una Peugeot bianca sfrecciò in mezzo alla strada sterzando a destra e a sinistra per non investire le donne, e poi sentimmo il crepitare delle armi da fuoco. «C'est la guerre!» urlò il nostro autista, e il taxi fece un testa-coda. «Lo sapevo». Domingo mi agguantò un braccio. «Lo sapevo». Il sole era ormai alto quando arrivammo nel centro di Cotonou. Al parcheggio dei taxi la folla si era fatta prendere dal panico e aveva rovesciato un braciere. Una catasta di casse aveva preso fuoco. Un poliziotto soffiava nel fischietto e chiedeva acqua a gran voce. Sopra i tetti si vedeva salire una colonna di fumo nero. Stanno dando fuoco al Palazzo» disse Domingo. «Presto! Di corsa!». Corremmo, urtammo altre sagome che correvano, e continuammo a correre. Un uomo gridò: «Mercenario!» e si avventò per colpirmi alla spalla. Lo schivai e deviammo per una traversa. Un ragazzo in camicia rossa mi fece cenno di entrare in un bar. Dentro era buio. La gente era raccolta intorno a una radio. Poi il barista sbraitò (selvaggiamente, in africano) al mio indirizzo. E all'improvviso mi trovai di nuovo sulla strada rossa di polvere, a ripararmi la testa con le braccia, mentre quattro omaccioni che puzzavano di sudore mi prendevano a pugni e mi spingevano contro il muro ruvido dell'edificio. Rimasi lì finché i gendarmi vennero a prendermi e mi portarono via su una jeep. «È per la sua incolumità personale» mi disse l'ufficiale che li comandava, mentre le manette mi scattavano intorno ai polsi. Vidi Domingo un'ultima volta, in mezzo alla strada, in lacrime, mentre la jeep si allontanava; poi scomparve in un turbinare di sgargianti abiti di cotone. [...] Fuori di sé per la calura e l'eccitazione, la folla che si era radunata per assistere alla scena invocava a gran voce: «Mort aux mercenaires!... Mort aux mercenaires!...», e il pensiero mi tornò in un baleno agli orrori del vecchio Dahomey, prima che arrivassero i francesi. Pensai alle guerre degli schiavi, ai sacrifici umani, alle pile di teschi spaccati. Pensai a quell'altro zio di Domingo, «il Brasiliano», che ci aveva ricevuti sulla sua sedia a dondolo, con un paio di pantaloni bianchi e un casco coloniale. «Sì,» aveva detto con un sospiro «i dahomeyani sono un popolo affascinante e intelligente. Il loro unico difetto è una certa nostalgia per le teste tagliate». No. Non era questa la mia Africa. Non questa Africa fatta di pioggia e frutta marcia. Non questa Africa di sangue e massacri. L'Africa che amavo era la regione delle savane, a nord, lunga e ondulata, la terra a macchie di leopardo», dove le acacie dalla cima piatta si stendevano a perdita d'occhio, e c'erano buceri bianchi e neri, e grandi termitai rossi. Infatti, ogni volta che tornavo in quell'Africa e vedevo una carovana di cammelli, una fila di tende bianche o un solo turbante blu in lontananza nella caligine infocata, sapevo che il paradiso, checché ne dicessero i Persiani, non è mai stato un giardino, ma una distesa di biancospini. «Sto sognando» disse a un tratto Jacques «una perdrix aux choux». «Io ordinerei una dozzina di belons e una bottiglia di Krug». «Non parla!». Il caporale agitò il fucile, e mi preparai al peggio. Ormai c'era da aspettarsi che il calcio mi piombasse sul cranio.
E allora? Che importanza poteva avere se già mi sembrava che mi avessero
spaccato il cranio in due? Che fosse stato un colpo di sole? C'era da stupirsi
se, mentre cercavo di concentrarmi sul muro, ogni frammento di pula mi riportava
alla mente qualche ricordo chiaro e specifico di cose da mangiare o da bere?
Nella Svezia centrale c'era un lago, e in mezzo al lago un'isola sulla quale nidificavano i falchi pescatori. Il primo giorno della stagione dei gamberi vogammo fino alla capanna del pescatore e tornammo indietro portando a strascico, dentro la rete, circa centocinquanta gamberi. Quella sera i gamberi uscirono dalla cucina ed entrarono nel soggiorno, una montagna scarlatta coperta di aneto. La luce del sole nordico rimbalzava dal lago dentro la stanza di un bianco abbagliante. Bevemmo akvavit in bicchierini piccoli come ditali e concludemmo il pasto con una torta di lamponi. Sentivo ancora il sapore delle sardine alla griglia che avevamo mangiato sul quai di Douarnenez e rivedevo mio padre che dava una dimostrazione di come suo padre mangiava le sardine à la Mordecai: prendeva per la coda una sardina viva e la inghiottiva. Oppure le anguille filiformi che avevamo gustato a Madrid, fritte nell'olio con aglio e mezzo peperoncino rosso. Era un freddo mattino di primavera, e avevamo passato due ore al Prado, a contemplare i Velázquez, abbracciandoci tra noi perché era così bello essere vivi: avevamo disdetto le nostre prenotazioni per un aereo che era precipitato. O le aragoste comprate a Cape Split Harbour, nel Maine. Nella baracca sul molo, in una bacheca per gli avvisi, era affisso un biglietto in cui una vedova ringraziava gli amici del marito per le loro offerte e pregava, pregava il Signore che, quando dovevano alare le nasse, fossero ben legati alla barca.
Fino a quando, o Signore, fino a quando? Fino a quando sarei riuscito a
reggermi in piedi, ora che tutto il mondo si era messo a roteare...?
Fino a quando non lo saprò mai, perché ho un buco nella memoria. La prima cosa che ricordo è che barcollavo intontito attraverso la piazza d'armi, con un braccio sulla spalla del caporale e l'altro su quella di Jacques. Poi Jacques mi diede un bicchiere d'acqua e subito dopo mi aiutò a rivestirmi. «Sei svenuto» disse. «Grazie» dissi io. «Non preoccuparti» disse lui. «È davvero tutta una messinscena». Ormai era pomeriggio inoltrato. Il caporale si era un po' rabbonito e ci permise di sederci davanti al corpo di guardia. Il sole bruciava ancora. La testa continuava a dolermi, ma la folla si era ammansita, e per nostra fortuna quel particolare reparto dell'Esercito Proletario del Benin aveva trovato una nuova fonte di divertimento – sotto forma di tre ornitologi belgi che erano stati catturati, in un acquitrino, con un obiettivo Leica grosso come un mortaio. Il capo della spedizione era un tipo corpulento, con la barba rossa. Era convinto, evidentemente, che con gli africani si dovesse sempre e soltanto urlare. Jacques gli consigliò di chiudere la bocca: ma quando uno dei graduati cominciò ad armeggiare con la Leica, il belga non ci vide più. Come osavano? Come osavano toccare la sua macchina fotografica? Come osavano pensare che loro fossero dei mercenari? Avevano forse l'aria di mercenari? «E immagino che anche loro siano mercenari!». Agitò le braccia verso di noi. «Le ho detto di chiudere la bocca» gli ripeté Jacques. Il belga non si diede per inteso e continuò a sbraitare che dovevano liberarlo. Subito! Ora! Altrimenti... Aveva capito? Sì. Il graduato aveva capito, e gli sferrò un pugno in piena faccia. Non ho mai visto nessuno crollare così rapidamente. Il sangue gli colava a fiotti giù per la barba, e stramazzò. Mentre era a terra, il graduato lo prese a calci. Il belga rimase a piagnucolare sul pavimento sporco. «Idiota!» ringhiò Jacques. «Povero Belgio» dissi io. | << | < | > | >> |Pagina 70L'uomo col quale avevo appuntamento era in piedi accanto a uno dei due leoni di bronzo che ringhiano nel cortile esterno della nuova Hongkong and Shanghai Bank. Portava una cravatta di Nina Ricci, di seta azzurra, un orologio d'oro con cinturino di coccodrillo e un immacolato abito grigio di lana pettinata.
Mi porse il suo biglietto, sul quale era scritto in rilievo:
Il palazzo - a cui gli operai stavano dando gli ultimi tocchi — ha quarantasette piani (compreso l'eliporto sul tetto) e sorge dove prima la banca aveva la propria direzione centrale, sul lato sud di Victoria Square, con vista sul Cenotafio. È opera dell'architetto inglese Norman Foster ed è un'impresa straordinaria da ogni punto di vista. Ho sentito varie definizioni di questa banca: «La forma del futuro»; «Un atto di fede nell'avvenire di Hong Kong»; «Un palazzo uscito da Guerre stellari»; «Una cattedrale del denaro»; «Un incubo per la manutenzione» e «Il salto dei suicidi». Dopo aver superato di tre volte il preventivo, spendendo la bellezza di seicento milioni di dollari americani, la nuova Hongkong and Shanghai Bank si è anche conquistata il privilegio di essere il più costoso palazzo per uffici mai costruito. Dal punto di vista architettonico, a me sembrava che non fosse tanto una «visione del futuro» quanto piuttosto uno sguardo retrospettivo, per non dire nostalgico, a certi esperimenti degli anni Venti (quando si costruivano palazzi sul modello delle navi da guerra e l'Uomo stesso era visto come una macchina perfettibile): costruzioni come i PROUN di El Lisickij e il progetto di Vesnin per gli uffici della «Pravda» – i sogni irrealizzati dei primi costruttivisti sovietici. Il signor Lung, dal canto suo, è un modesto cultore della venerabile arte cinese della geomanzia, o feng-shui. Al momento di varare il progetto la banca l'aveva chiamato perché esaminasse il luogo, scoprisse eventuali presenze malefiche o demoniache e si accertasse che il progetto stesso nascesse sotto auspici favorevoli. Qualunque architetto avessero scelto, qualche preoccupazione ci sarebbe sempre stata; giacché la Hongkong and Shanghai Bank è il perno sul quale tutta Hong Kong si regge o crolla. Con il 1997 all'orizzonte, floridezza e fortuna dovevano arrivare «in un futuro molto prossimo – o mai più. Era un pomeriggio nuvoloso e un vento pungente soffiava dal porto. Salimmo sulla scala mobile che portava al primo piano e ci rifugiammo nell'ufficio cassa. Era come entrare in una macchina da guerra: il grigio uniforme, l'assenza di «arte», il sordo ronzio dell'attività computerizzata. Faceva anche freddo. Se l'immobile fosse sorto nella Russia sovietica, ci sarebbe stato, se non altro, un tocco di rosso. Dietro un bancone nero scintillante erano seduti i cassieri – senza alcuno schermo o protezione, poiché in caso di rapina entra in azione una sorta di saracinesca che taglia in due la sala e intrappola i rapinatori all'interno. Alcune palme in vaso erano dislocate qui e là, apparentemente a casaccio. Mi sedetti su una lastra di marmo nero che in un ambiente meno austero si sarebbe potuta chiamare panchina. Il signor Lung non era molto alto. Rimase in piedi. L'atmosfera era palesemente troppo austera per molti dipendenti della banca, e ai piani alti, negli uffici dei dirigenti, avevano già srotolato i tappeti persiani, mentre le segretarie erano appollaiate su sedie in stile Chippendale. «Questo» attaccò il signor Lung in tono da padrone «è uno dei Primi Dieci Edifici del Mondo. La sua costruzione è particolarmente ingegnosa». «Infatti» assentii guardando in alto i piloni cilindrici e le colossali traverse a forma di X che tengono rigida la struttura. «Dunque, per prima cosa,» continuò «vorrei sottolineare gli aspetti positivi. Per quanto riguarda il feng-shui, la situazione è perfetta; anzi, è la migliore di tutta Hong Kong». Feng-shui significa «vento-e-acqua». Fin dai tempi più remoti i cinesi credono che la Terra sia uno specchio dei Cieli e che l'una e gli altri siano esseri senzienti e vivi, percorsi in ogni parte da correnti di energia - alcune positive, altre negative –, come i messaggi che attraversano il nostro sistema nervoso centrale. Le correnti positive – quelle che portano buon chih, o «forza vitale» – sono note come «linee-drago». Si pensa che seguano il flusso delle acque sotterranee e la direzione dei campi magnetici presenti sotto la superficie della Terra. Il compito del geomante è quello di sincerarsi, con l'aiuto di una bussola magnetica, che un edificio, una stanza, una tomba o un talamo nuziale si trovino in corrispondenza di questa o quella «linea-drago» e al riparo dalle pericolose correnti contrarie. Senza il beneplacito di un esperto di feng-shui anche l'uomo d'affari cinese più «occidentalizzato» va soggetto a crisi di nervi, per non parlare dei suoi collaboratori più giovani. A un pranzo mi capitò di dire a un inglese, un «veterano della Cina», che la banca aveva seguito le indicazioni di un geomante. «Sì» replicò lui. «E il genere di cose a cui loro credono». Eppure tutti noi sentiamo che certe case sono «felici» e che altre hanno un'«atmosfera sgradevole». Solo i cinesi hanno proposto spiegazioni convincenti di questo stato di cose. Chiunque pensasse di beffarsi del feng-shui come di un anacronismo superstizioso dovrebbe rammentare il contributo essenziale che esso ha fornito alla fisionomia del paesaggio cinese, nel quale le case, i templi e le città erano sempre collocati in armonia con gli alberi e le colline e l'acqua. Forse si può andare oltre e dire che il radicamento della civiltà cinese, il suo senso di appartenenza alla Terra, la capacità che i cinesi hanno di vivere senza attriti in grandi masse – sono tutte conseguenze, in fin dei conti, della loro adesione ai princìpi del feng-shui. | << | < | > | >> |Pagina 359Il 18 giugno 1940 Winston Churchill concluse il suo discorso alla Camera dei Comuni con le parole: «Questa è stata la loro ora più bella!», e quella sera stessa un personaggio molto diverso, con l'uniforme grigia di ufficiale della Wehrmacht, si sedette nello studio della duchessa de la Rochefoucauld al castello di Montmirail. Quell'ospite non invitato era un uomo di quarantacinque anni, basso di statura ma atletico, con la bocca fissa in un'espressione di stima per se stesso e con occhi azzurri di una tonalità particolarmente artica. Sfogliava i libri della duchessa col tocco sapiente del bibliomane e notò che molti recavano la dedica di famosi scrittori. Da un volume scivolò e cadde a terra una lettera – una deliziosa lettera scritta da un ragazzo di nome François che voleva diventare pilota. Si domandò se ora il ragazzo fosse davvero un pilota. Alla fine, calata la notte, si accinse a scrivere il suo diario. Fu una lunga nota – quasi duemila parole – perché la giornata, anche per lui, era stata densa di avvenimenti. Al mattino aveva discusso dei rischi di finire bruciati vivi con un carrista che indossava una tuta impregnata di benzina: «Ho avuto l'impressione che Vulcano con la sua "etica del lavoro" s'incarnasse in quelle figure marziali». Dopo pranzo, nel cortile della scuola, aveva visto sfilare una colonna di diecimila prigionieri francesi e belgi: «un'immagine dell'onda oscura del Destino stesso ... uno spettacolo interessante e istruttivo», nel quale si avvertiva «la seduzione meccanica e irresistibile propria delle catastrofi». Aveva lanciato ai prigionieri scatolette di carne e biscotti, e da dietro una grata di ferro aveva assistito alle loro zuffe; la vista di quelle mani era stata particolarmente inquietante.
Poi aveva scoperto un gruppo di ufficiali con decorazioni della Grande
Guerra e li aveva invitati a cena. Erano sul punto di crollare, ma l'idea di un
buon pasto li aveva rianimati come se la fortuna fosse cambiata di colpo. Gli
avevano chiesto se era in grado di spiegare le ragioni della loro sconfitta.
«Ho detto che la consideravo il Trionfo del Lavoratore, ma non credo che abbiano
capito il senso della mia risposta. Che potevano sapere degli anni che abbiamo
passato dal 1918 in poi? Delle lezioni che abbiamo imparato come in un
altoforno?».
La duchessa assente aveva motivo di ringraziare l'uomo che metteva il naso nelle sue faccende private. Il capitano Ernst Jünger era, in quel momento, il più illustre scrittore tedesco in divisa. Non c'era catastrofe che potesse sorprenderlo, giacché da vent'anni la sua opera insisteva sulla necessità filosofica di accettare la morte e la guerra totale come l'esperienza quotidiana del ventesimo secolo. Ma stemperava il suo consenso alla distruzione con una venerazione da antiquario per i mattoni e la malta; e aveva salvato il castello. In realtà, durante il Blitzkrieg aveva salvato un'infinità di cose. Una settimana prima aveva salvato la cattedrale di Laon dai saccheggiatori. Aveva salvato la biblioteca della città con i suoi manoscritti dei re carolingi. E aveva assunto un sommelier disoccupato per mandarlo a ispezionare alcune cantine private e per mettere da parte qualche buona bottiglia per sé. È vero, erano cadute delle bombe nel parco dei La Rochefoucauld: un padiglione era andato a fuoco, lasciando in una finestra un frammento di vetro che «riproduceva esattamente la testa della Regina Vittoria». Ma per il resto, dopo una bella rassettata, la casa era proprio come l'avevano lasciata i proprietari. E poi, il capitano Jünger aveva altri motivi per sentirsi soddisfatto. «Le massime di La Rochefoucauld sono da un pezzo il mio livre de chevet. Salvare il salvabile è stato un atto di gratitudine spirituale. Per beni così preziosi l'essenziale è proteggerli nei giorni critici». Si fa presto a dirlo! «La strada dell'invasione è cosparsa di bottiglie: champagne, chiaretto, borgogna. Ne ho contata almeno una a ogni passo, per non parlare dei campi, dove si poteva dire che fossero piovute bottiglie. Orge simili sono nella migliore tradizione delle nostre campagne in Francia. Ogni invasione di un esercito tedesco è accompagnata da libagioni paragonabili a quelle degli dèi nell' Edda».
Un ufficiale subalterno aveva fatto un'osservazione: era strano che i
soldati, nei saccheggi, distruggessero per prima cosa gli strumenti musicali.
«Questo particolare mi ha rivelato, in modo simbolico, quanto Marte sia
contrario alle Muse ... e poi mi è tornato in mente il grande quadro di Rubens
che illustra lo stesso tema». Ed era anche strano che lasciassero intatti gli
specchi. Il motivo, secondo quell'ufficiale, era che gli uomini volevano
radersi – ma per Jünger potevano esservi anche altri motivi.
Questi diari – i primi tre volumi – sono riapparsi recentemente in Francia, dove la traduzione dell'opera di Jünger è una piccola industria letteraria. In altri Paesi, comunque, i lettori conoscono Jünger grazie a due libri: Tempeste d'acciaio (1920), una spietata esaltazione della guerra moderna, e Sulle Scogliere di marmo, l'allegorico «capriccio» antinazista del 1939 che descrive il tentativo di assassinare un tiranno e, letto retrospettivamente, ha tutta l'aria di una profezia sul complotto del luglio 1944 legato al nome del colonnello Stauffenberg. Eppure i partigiani di Jünger – più francesi, forse, che tedeschi – rivendicano per lui lo status di «grande scrittore», di un pensatore di saggezza goethiana, le cui propensioni politiche per l'estrema destra lo hanno privato dei riconoscimenti che merita. Senza dubbio la sua erudizione ha proporzioni titaniche: la fermezza delle sue idee è incrollabile, e anche a ottantacinque anni continua a lavorare sui temi che hanno tenuto occupata la sua attenzione per più di sessant'anni. È – o è stato – soldato, esteta, romanziere, saggista, l'ideologo di un partito politico autoritario e un attento studioso di botanica tassonomica. Per tutta la vita ha coltivato lo hobby dell'entomologia; infatti, ciò che per Nabokov erano le farfalle sono per Jünger i coleotteri – e soprattutto lo scarabeo corazzato. È anche un intenditore di allucinogeni e ha fatto un discreto numero di «viaggi» col suo amico Albert Hofmann, lo scopritore dell'acido lisergico. Scrive in una prosa dura e lucida che spesso lascia nel lettore un'impressione dell'imperturbabile considerazione che l'autore ha per se stesso, un'impressione di dandismo, di sovrana freddezza e, alla fine, di banalità. Ma anche le pagine meno promettenti s'illuminano all'improvviso per un lampo di genialità aforistica, e le descrizioni più strazianti sono attenuate da un desiderio di valori umani in un mondo disumanizzato. Per un uomo che unisce così acute capacità di osservazione a una sensibilità anestetizzata il diario è la forma perfetta. | << | < | > | >> |Pagina 415L'isola di Chiloé è famosa per le sue terribili tempeste e la terra nera, per i suoi boschetti di fucsia e bambù, le chiese dei gesuiti e le mani d'oro dei suoi intagliatori. Tra i suoi crostacei c'è un enorme cirripede – il pico de mar – che sul piatto sembra un Monte Fuji in miniatura. La popolazione è un misto di indios Chonos, spagnoli e marinai di ogni colore, e la loro immaginazione è tutto un ribollire di tormentate mitologie. La cattedrale di Castro, costruita in lamiera ondulata, è dipinta di un arancione aggressivo in onore dell'Anno Santo. Trabaccoli con le vele ocra erano in panne nella baia. In un caffè del porto era seduto un uomo immensamente distinto, con capelli argentei e lunghe gambe ben dritte. Era un sikh. Molto tempo fa – ma lui preferiva non ricordarlo – era attendente di un colonnello inglese ad Amritsar. Una delle sue incombenze era quella di portare la figlia del colonnello a fare delle passeggiate a cavallo. I loro sguardi s'incontrarono. Lei fu scomunicata dalla sua famiglia, lui dalla sua. La loro vita in Inghilterra fu un susseguirsi di padrone di casa ostili. Un giorno lui si tagliò i capelli e la barba, e partirono per il Sudamerica. A Chiloé lui e sua moglie erano stati felici. Lei era morta da poco. «Non avrei voluto vivere in nessun altro modo» diceva. Due laghi — il lago Huillinco e il lago Cucao — tagliano l'isola quasi in due, confluendo l'uno nell'altro, acqua scura in acqua azzurra, per poi sfociare nel Pacifico. I laghi sono lo Stige di Chiloé. Si dice che le anime dei morti si riuniscano nel villaggio di Huillinco, da dove il Battelliere le traghetta fino a destinazione. La strada per Huillinco era bianca e si snodava attraverso campi di grano maturo. Al mio passaggio i contadini che vagliavano il grano mi gridavano il loro saluto. Casette argentee, ricoperte di assicelle, erano circondate da pini e pioppi. A Haensel e Gretel sarebbe piaciuto molto vivere lì. Sotto un albero carico di fiori bianchi che sembravano di cera un giovanotto grasso era seduto a mangiare more. Hector Dyer García rientrava dalle corse. Aveva perso dei soldi. «Conosce Notting Hill Gate?» mi domandò. Verso la fine del secolo scorso Alfred Dyer-Aulock aveva disertato la sua nave ed era approdato tra le braccia di una ragazza chilote. Sul letto di morte raccomandò ai familiari di scrivere ai cugini in Inghilterra. Loro non sapevano come fare. Hector fantasticava su un'eredità rimasta nei forzieri di una banca di Londra senza che nessuno la rivendicasse. «Altrimenti dovrò andare in Venezuela» disse. Camminammo adagio, fermandoci a una casupola azzurra per bere sidro con la famiglia di un intagliatore. Al tramonto arrivammo a Huillinco — un grappolo di case, un molo e poi il lago d'argento. I fedeli, con voci nasali, cantilenavano al suono di una chitarra. Hector entrò in casa sua di soppiatto, come se si trovasse sulla scena di un delitto. Aveva una moglie. Era il doppio di lui e aveva il doppio dei suoi anni. Strillandogli insulti — tra un boccone di formaggio e l'altro —, lo costrinse alla penosa confessione. Aveva perso alle corse il denaro con cui avrebbe dovuto fare la spesa.
Passai la serata al bar con Hector e i suoi amici, giocando a domino.
Al mattino una nebbia lattiginosa soffocava il villaggio. Dall'altra sponda del lago giungeva il suono delle scalmiere e il latrare smorzato di un cane. Un uomo, stropicciandosi gli occhi assonnati, disse che il traghetto per Cucao sarebbe arrivato alle tre del pomeriggio. Passeggiai lungo la riva del lago, in mezzo a mimose, gaultherie e alberi fiamma. Colibrì color smeraldo suggevano le corolle imbutiformi di caprifogli scarlatti. Su un cespuglio c'erano delle bacche violacee. Si sentiva intorno odore di bruciato. Alle tre avvistarono dal villaggio il traghetto, un puntino nero dall'altra parte del lago. Lungo il molo sostavano dei cavalli con le gerle assicurate ai fianchi. La gente di Cucao scaricava i suoi prodotti: balle di lana nera, mitili e fastelli di alghe e scalogno. Il Battelliere, un omino con la pelle scura e lucida, aveva una bocca quasi circolare. Era uno degli ultimi Chonos purosangue. A parte me, l'unico passeggero per Cucao era Dona Lucerina, una signora dalla mascella energica, tutta vestita di nero dalla testa ai piedi. Era la proprietaria dell'unica locanda del villaggio. Il Battelliere aveva cominciato a scaricare l'acqua fuori bordo quando due ragazzi corsero verso la riva portando una bara di legno bianco. Avevano gli occhi arrossati dal pianto. Erano andati a chiamare un prete per la madre moribonda: il prete aveva rifiutato di muoversi. Erano rimasti davanti alla sua casa una notte e un giorno: lui rifiutava di muoversi. Poi arrivò la notizia che la madre era morta; e ancora il prete non voleva muoversi. Faceva molto caldo. La madre cominciava a decomporsi, senza sepoltura né assoluzione. «Quando è morta?» s'informò Dona Lucerina. «Venerdì». «A che ora?». «Alle dieci del mattino». «Cuore?». «Polmoni». «Ah!» esclamò, con il sorriso di chi sa il fatto suo. «Tubercolosi!». Aggiunse: «Cattiva alimentazione. Per la tubercolosi bisogna bere latte. Così la malattia non può entrare in casa». «Era malata da anni» disse il minore dei ragazzi. «Avrebbe dovuto bere più latte prima, quando era giovane».
Il traghetto entrò nel lago Cucao scivolando sull'acqua. Il Battelliere
depositò i ragazzi su una spiaggia di pietra bianca. Noi li osservammo, due
figure nere che portavano la bara alla loro fattoria, in mezzo agli alberi
morti.
A Cucao, su un prato, c'erano due chiese di legno: potevano essere opera di antichi monaci celtici. I martin pescatori volavano avanti e indietro. Il Battelliere ormeggiò accanto a una fila di casette. Gli pagai il mio obolo. Dona Lucerina mi fece strada lungo un sentiero sabbioso: le nostre gambe sfioravano piante di gunnera dalle foglie giganti. Risalimmo il promontorio. Il sole al tramonto colorava di un verde dorato e lattiginoso le onde lunghe del Pacifico. La sabbia della baia era nera. Un peschereccio che attraversava la barriera pareva una mezzaluna scura in mezzo alla schiuma. La casa di Dona Lucerina era bassa e lunga, con il tetto di assicelle e i muri rivestiti di assi color crema. «Tutto mio!» disse lei con un gesto che abbracciava la riva da una parte all'altra. «Duecento ettari, la casa e varie miniere d'oro. Devo vendere. Mio marito è malato». Nella cucina verde scuro era seduto il suo inquilino, Don Antonio: un vecchio dal portamento fiero, con occhi bruni che brillavano in mezzo alla lanugine delle sopracciglia. «Racconta qualche storia a questo giovanotto» disse Dona Lucerina. «Vuole sentire delle storie». In uno spagnolo dolce e musicale Don Antonio raccontò del Basilisco e della Fiura, delle Sirene e della Pincoya. «Ah! A me piace tanto la Pincoya» disse Dona Lucerina battendo le mani. La Pincoya era una ninfa marina: una fanciulla che rideva e invitava i molluschi a moltiplicarsi. A volte la si vedeva ballare sulla sabbia, con il suo vestito di alghe che scintillava di perle e i capelli di fiamma che ondeggiavano al vento. «Raccontagliene un'altra, vecchio» disse Dona Lucerina. «Raccontagli quella del Re della Terra». «Tanto tempo fa» attaccò Don Antonio «a Cucao c'era tutto – mucche, cavalli, pecore, capre, tutto –, e nel resto di Chiloé non c'era niente. Un giorno nacque una pecora con tre corna, e la voce si sparse rapidamente. Uno straniero venne a vedere la pecora e si trattenne per la notte. Al mattino la gente si svegliò e scoprì che tutti gli animali erano spariti. Ne seguirono le orme e arrivarono a un fiume. C'era un vecchio seduto sulla riva. «Hai visto il ladro che ha rubato i nostri animali?» gli chiesero. «Ma quello non era un ladro» rispose l'uomo. «Quello era il Re della Terra». «E da quel giorno la gente di Cucao non ha più nulla e il resto dell'isola è ricco». «Un'altra!» disse Dona Lucerina. «Raccontagli di Millalobo». «Ricorda le casette vicino all'imbarcadero?» mi chiese il vecchio. «Sì». «Nella seconda casetta» riprese «viveva una famiglia: madre, padre, figlia. Noi li conoscevamo molto bene... «Un giorno la madre disse alla ragazza di andare alla sorgente a prendere un po' d'acqua per il caffè... por un cafecito no mas. La ragazza non voleva andarci: c'era uno straniero al villaggio, diceva. Ma la madre insistette, e la ragazza non ritornò più. La madre chiamò e chiamò e cercò in ogni dove. Arrivò alla sorgente, e c'era del sangue... sangue dappertutto... para sangre. I vicini dissero che sì, avevano visto uno straniero. Era alto e biondo come te, inglese. La madre capì che Millalobo le aveva rapito la figlia... «Un anno dopo la ragazza tornò con un bambino tra le braccia. La donna era tutta eccitata per quel nipotino, e preparò una culla. Una mattina la figlia uscì di casa raccomandando alla madre di non guardare il bambino. "Ricorda quello che ti ho detto, madre" ripeté mentre chiudeva la porta. Ma la donna moriva dalla voglia di vedere il nipote, e tirò indietro il copriletto. Dalla vita in giù il bambino era una foca. Poi si trasformò in una stella e rimbalzò qua e là per la stanza, e poi di colpo uscì dalla finestra, ronzando come un tafano. «La ragazza udì quel ronzio. Capì che suo marito aveva stregato il bambino e l'aveva mandato a vivere in cielo. Vagò lungo la spiaggia gridando: "Cucao! Cucao!". S'inoltrò nell'acqua e scomparve sotto la superficie... «Millalobo costruì per lei un palazzo sul fondo della laguna. Una volta l'anno la libera, e lei sale a galla, e quando vede il prato e le chiese si mette a cantare: «"Cucao! Cucao! Cucaooooooooooo!"». «Adesso raccontagli del Battelliere» insistette Dona Lucerina. Ormai Don Antonio era stanco: ma si alzò, andò alla finestra e mi indicò una fila di tre rocce nere, simili alle pietre di un guado, dall'altra parte della baia. «Quelle rocce» disse «sono l'Approdo del Battelliere. Una volta conoscevo un uomo che se ne rideva della storia del Battelliere. Si piantò su una delle rocce e urlò: "Battelliere! Battelliere!" — e il Battelliere arrivò». La notte scendeva su Cucao. La luna piena illuminò i frangenti. Il falò acceso dai cercatori d'oro apriva un buco di fuoco nell'oscurità. Mi avviai tra la sabbia. Mi spinsi verso l'Approdo del Battelliere ma resistetti alla tentazione di gridare. |