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| << | < | > | >> |Indice5 Prefazione di Federico Rampini 19 Introduzione di Chen Guidi, Wu Chuntao PUÒ LA BARCA AFFONDARE L'ACQUA? 31 Cronologia 35 Il martire 59 Il tiranno del villaggio 93 Tutta la verità sulla "rivolta fiscale" 117 La lunga marcia 153 Il circolo vizioso 207 Alla ricerca di una via d'uscita 237 Gli autori |
| << | < | > | >> |Pagina 19Nel 2001 iniziammo a lavorare al nostro reportage La vita dei contadini cinesi (Zhongguo nongmin diaocha). Benché avessimo discusso l'idea per più di dieci anni, fu quando Wu stava dando alla luce nostro figlio a Hefei che capimmo di non dover più aspettare altro tempo: in quell'occasione, fummo costretti ad assistere alla morte di una donna incinta e del suo bambino perché la famiglia era troppo povera per poterle fornire un'assistenza medica adeguata durante il parto. Visitammo oltre cinquanta villaggi e città lungo tutta la provincia dello Anhui, andammo più volte a Pechino per parlare con le autorità e intervistammo migliaia di contadini. Ogni nostro risparmio lo spendemmo per scrivere e pubblicare il libro. La vita dei contadini cinesi è un'inchiesta sulla disuguaglianza e l'ingiustizia che grava sulla nostra classe contadina, uno strato di popolazione che comprende all'incirca 900 milioni di persone. Quel che tentiamo di descrivere è il circolo vizioso che tiene in trappola i contadini della Cina, un paese in cui tasse ingiuste e azioni arbitrarie — quando non la più totale indifferenza — portano a volte ad atti di violenza estrema. Dopo più di tre anni, anni lunghi e pieni di sfide, la nostra opera di reportage narrativo giunse al termine. Una versione abbreviata - circa 200.000 battute invece di 320.000 - uscì nel novembre del 2003 sulla rivista letteraria «I nostri tempi», e l'edizione andò esaurita nell'arco di una settimana. Fu come gettare un fiammifero su dell'erba secca, come guardare un incendio spargersi rapido e inarrestabile: passato appena qualche giorno, questa versione era già stata riproposta in internet, su vari siti in patria e all'estero. Ancora oggi, molti lettori la scambiano per il libro completo. Un mese più tardi, nel dicembre del 2003, la versione integrale fu pubblicata e distribuita dalla casa editrice della Letteratura del Popolo. Con quel suo titolo buttato giù semplicemente in sei caratteri in stampatello su di uno sfondo di colore giallo, bisogna ammettere che il volume non aveva un aspetto dei più accattivanti; e tuttavia, pure così, fece furore alla Fiera del Libro di Pechino e, in capo appena a tre giorni, ne furono ordinate ben 60.000 copie. La prima edizione, stampata in 100.000 esemplari, andò esaurita nell'arco di un mese. Per un'opera di carattere non letterario – un reportage su un argomento che difficilmente si sarebbe potuto considerare alla moda – era un successo fenomenale, persino per gli standard di una casa editrice affermata come quella della Letteratura del Popolo. I1 professor Wang Damin del Dipartimento di Letteratura Cinese dell'Università dello Anhui descrisse bene come «i lettori lo divorarono avidamente, e apertamente ne discussero; l'ondata del tam tam mediatico continuava a spargersi, mentre i circoli culturali si abbandonavano a discussioni appassionate». Notò tra l'altro il professor Damin: «Quanto ai corridoi del potere, se ne restavano calmi, imperturbabili», senza lasciar trasparire la benché minima reazione. Solo più tardi ci rendemmo conto di quanto quest'osservazione potesse essere avventata. Il libro vendette più di 150.000 copie prima di essere improvvisamente portato via dagli scaffali delle librerie dalle autorità, nel marzo del 2004. Da quel momento, fu possibile trovare soltanto edizioni pirata in vendita lungo le strade, 8 milioni delle quali furono vendute in ogni parte della Cina. Nel frattempo, la reazione dei inedia fu davvero senza precedenti. I produttori di tutti i più importanti talk show, come Faccia a faccia, Dillo così com'è – il famoso speciale per la Festa di Primavera – e gli altri programmi della Televisione Centrale Cinese, tutti in grado di raggiungere milioni di spettatori, ci invitarono nei loro studi. La Compagnia di Trasmissione Centrale parlò a lungo del libro durante il suo programma di prima serata. In due mesi, dalla fine del 2003 all'inizio del 2004, fummo intervistati da più di cento reporter di giornali, riviste, reti televisive e stazioni radio, così come da siti web di tutto il paese. Apparvero recensioni sulla stampa e ricevemmo una valanga di lettere dai nostri lettori. La pubblicazione di La vita dei contadini cinesi è stata paragonata al fragore di un tuono. Il riscontro pubblicitario, alla sua scarica elettrica. Un tale livello di attenzione pubblica ci aveva colti assolutamente di sorpresa. Eravamo convinti che, in un'epoca di consumismo imperante, le opere letterarie non potessero più avere un vero impatto sulla società, né tantomeno far clamore. Certo, il nostro libro non era esattamente "letterario" nel senso stretto della parola. Il vicedirettore di «La sera di Pechino», il signor Yan Liqiang, riassunse con molto garbo La vita dei contadini cinesi, affermando: «Il fatto è che, trattando un argomento del genere, nessun testo [...] può essere allo stesso tempo letterario e analitico. È un'azione meritevole [...] quella di approfondire un discorso tanto pesante, complesso, delicato, al livello a cui si sono spinti [gli autori]. L'opera abbonda dei segni della lotta [che hanno affrontato] per venire a capo del problema». L'impatto che il nostro reportage ha avuto sulla nazione non è dovuto al suo valore letterario, ma al fatto che ha messo in evidenza la dura realtà della Cina rurale. Ha affrontato un insieme di problemi a cui in genere ci si riferisce con la formula "tre agri" (san-nong): il problema dell'agricoltura, il problema delle aree agricole e il problema degli agricoltori. In ultima analisi, le "tre agri" non sono nient'altro che il problema della Cina. Non solamente una questione economica o agricola, quanto piuttosto il tema più scottante che l'odierna classe dirigente cinese si trova a dover fronteggiare. Un problema che è sotto gli occhi di ognuno. Eppure, per anni, tutto quel che abbiamo avuto dai media non sono stati che brillanti discorsi riguardo al nostro "raggiante futuro". La gente di città sa poco o niente dei contadini. L'impatto del nostro libro veniva solo dal fatto che vi raccontavamo la pura e semplice verità intorno alla vita dei braccianti cinesi, cosa che suscitò in ogni genere di lettore non solo un vero e proprio choc, ma anche una certa simpatia nei confronti di questi uomini privati di ogni bene. Mentre il nostro lavoro sul libro stava giungendo al termine, conducemmo alcuni studi sulle reazioni dei lettori e ci convincemmo così che, se soltanto il manoscritto fosse stato pubblicato e fosse riuscito a raggiungere gli scaffali delle librerie, non sarebbe passato inosservato. La ragione era proprio il suo taglio particolare. Come scrisse il critico He Xilai nella sua introduzione alla prima edizione: «Questo non è un libro di buone notizie, né tantomeno un libro che tenta di addolcire le notizie cattive. Questo libro sbatte in faccia al lettore la nuda e cruda verità senza usare mezzi termini. È un testo che mette in evidenza il problema delle "tre agri" in tutta la sua complessità, la sua urgenza, la sua gravità, e la sua pericolosità latente». I fatti che qui vengono narrati sono stati raccolti quasi esclusivamente dalle più spaventose "aree proibite" della scrittura e del giornalismo. Vi sono inclusi i principali casi di crimini perpetrati nelle zone rurali, casi che hanno allarmato il Comitato Centrale del Partito Comunista ma dei quali il pubblico è stato tenuto all'oscuro. Abbiamo abbattuto per la prima volta gli ostacoli e abbiamo scavato all'interno di storie relative alla spinta del governo per una nuova politica agricola e fiscale, la cosiddetta "politica dei balzelli" per mezzo della quale le tasse sono state trasformate in balzelli e servizi da pagare. Né abbiamo avuto qualche reticenza sull'identità delle persone implicate: tutti i protagonisti – dal segretario generale del Comitato Centrale del Partito Comunista al presidente del Consiglio di Stato, dai vari capi dei Ministeri ai funzionari di livello provinciale, municipale, di contea e comunale, giù fino ai semplici contadini dei villaggi – sono chiamati con il loro nome. Era un'operazione senza precedenti per scrittori e lettori che, come noi, vivevano in territorio cinese, una nazione che pure avrebbe dovuto essere abituata alla libertà di parola. Malgrado fossimo ovviamente interessati alle sorti del nostro libro, essere catapultati in una tale frenesia mediatica non ci rese felici. Conoscevamo la Cina e sapevamo fin troppo bene com'è che vanno le cose quaggiù per sentirci tranquilli. Le nostre preoccupazioni erano giustificate: appena due mesi dopo la sua pubblicazione e nel bel mezzo del clamore pubblicitario, La vita dei contadini cinesi fu messo al bando per ordine del Dipartimento di Propaganda del Comitato Centrale e venne fatto sparire da tutte le librerie. Ogni riferimento al libro scomparì nell'arco di una notte. Era come se non fosse mai stato scritto, come se tutto l'interesse che aveva suscitato non fosse stato che un sogno. Per noi il trauma fu schiacciante: sembrava tutto irreale, come se stessimo vivendo un incubo. Ancora oggi non riusciamo a capire che cos'era, esattamente, che non andasse nel testo; nessuno ci ha mai spiegato la ragione del bando. Ricevevamo pressioni da tutte le parti, e l'unica scelta che avevamo era quella di restarcene in silenzio. Con nostra grande meraviglia, tuttavia, milioni di copie pirata iniziarono a farsi strada verso i lettori di ogni angolo del paese, e ciò, per noi, fu in qualche modo una consolazione. Come se non bastasse, furono pubblicati un sostanzioso numero di articoli sul libro: un altro spunto d'incoraggiamento. Scrisse Dang Guoyin, noto studioso dell'Accademia Cinese di Scienze Sociali: «Di qui a cent'anni, i nostri discendenti non riusciranno a capire l'epoca in cui stiamo vivendo. Eppure abbiamo vissuto davvero in tempi del genere, tempi in cui bisognava avere coraggio per dire la verità, tempi in cui si correvano dei rischi per aver detto la verità, tempi in cui la gente voleva ascoltare la verità e tuttavia era difficile, porche la verità era sommersa dal frastuono di mille compiaciutissimi luoghi comuni. È per questo che siamo grati alla coppia Chen Guidi e Wu Chuntao per aver scritto questo libro». In effetti, la verità era soffocata e le bugie prosperavano. Poco dopo il bando, Zhang Xide, un funzionario nominato all'interno del reportage, si fece vivo e ci citò in giudizio, dicendo che il nostro resoconto dell'"incidente del comune di Baimiao", che avevamo descritto nel quarto capitolo (La lunga marcia), aveva un carattere diffamatorio. A seguito della denuncia, una corte locale raccolse il caso di Zhang Xide e lo trasformò in un'imputazione politica nei confronti del libro e dei suoi autori. La corruzione nel sistema legale è un problema di vecchia data; una volta caduti nelle spire della burocrazia, ci si può anche considerare spacciati. I nostri lettori, tuttavia, continuarono a sostenerci e a incoraggiarci. Era d'altronde opinabile che la descrizione dell'"incidente del comune di Baimiao" potesse davvero essere considerata diffamatoria. A ogni modo, era ovvio che questa diffamazione ipotetica non aveva nulla a che vedere con la messa al bando del libro. Ci dicevamo che la chiarezza è sempre il miglior antidoto alla corruzione e speravamo che i giornalisti che ci avevano sostenuti fino ad allora non sarebbero rimasti in silenzio e che anzi avrebbero raccontato lo svolgimento del processo, che eravamo sicuri di vincere. Dietro richiesta degli alti membri del Comitato del Partito Comunista di Hefei, che fecero appello al nostro spirito patriottico, promettemmo di non rilasciare alcuna intervista alla stampa straniera. Tuttavia un giorno, all'improvviso, ci rendemmo conto che, intorno a tutta la questione, i media erano stati imbavagliati. Più dispiaciuti che arrabbiati, ci domandammo che cosa fosse mai accaduto a quello "stato di diritto" di cui la Cina si era tanto vantata. Il blackout mediatico significava che gli sviluppi del processo non sarebbero mai stati sottoposti al giudizio dell'opinione pubblica: ai nostri lettori era negato ogni diritto d'informazione sul caso. La stampa rimase in silenzio. Nessuna si azzardò a difenderci. Messi ormai con le spalle al muro, non avevamo altra scelta se non quella di rompere la nostra promessa e iniziare a rilasciare interviste ai giornalisti stranieri, così che almeno il mondo avrebbe conosciuto i fatti. A ben guardare, stavamo solo esercitando i nostri diritti costituzionali ed eravamo comunque sinceramente convinti che una Cina aperta alle relazioni estere non potesse essere una Cina ridotta al silenzio. Lu Xun, il decano delle lettere cinesi moderne, ha detto che solo la voce della verità ha il potere di smuovere i popoli, che soltanto così il popolo cinese sarà in grado di vivere fianco a fianco con il resto del mondo. Verso l'ottobre del 2005 il chiasso attorno al processo per diffamazione si placò, e ora come ora non ci resta che attendere pazientemente il verdetto. Abbiamo difeso la nostra causa a lungo e tra mille difficoltà, e che i fatti siano stati resi pubblici costituisce già di per sé una vittoria. Il processo si è concluso da più di un anno, ma siamo ancora in attesa della sentenza. Possiamo solo immaginare quel che sta succedendo al riparo dagli occhi del pubblico. Durante questo periodo d'attesa, intanto, un nuovo segretario di Partito della provincia dello Anhui, Gao Jinlong, ci ha denunciati in un'intervista rilasciata alla tv di Hong Kong. In tale occasione, il segretario criticò apertamente il nostro libro definendolo un'opera di pessima qualità che stravolgeva la realtà dei fatti e che infangava il buon nome del popolo dello Anhui. Non molto tempo dopo, qualcuno incominciò a tirare pietre contro casa nostra. L'attacco andò avanti per più di venti giorni. Nessuno intervenne, nessuno svolse alcuna indagine, malgrado avessimo ripetutamente chiesto aiuto alla pubblica sicurezza locale. Poi, a Chen Guidi fu chiesto di rassegnare le dimissioni dal proprio posto di lavoro. Allo stesso tempo, tuttavia, non ci mancò qualche segnale d'incoraggiamento. Ricevemmo il "Lettre Ulysses Award" per l'arte del reportage, fummo nominati "Leader di prima linea nella battaglia per il cambiamento in Asia" dal «Business Week», e ci venne assegnato il titolo di "Eroi dell'Asia" dalla rivista «Time» nell'ottobre del 2005. Dopo che il libro venne messo al bando in Cina, dovunque andassimo venivamo abbracciati da persone di ogni livello, specialmente contadini. Il governo centrale cinese è oggi più che mai impegnato nel tentativo di risolvere il problema delle "tre agri", e questo è in parte anche dovuto ai nostri sforzi. Ma qualsiasi cosa ci aspetti nei giorni a venire, non ci pentiremo mai di aver parlato in favore dei contadini della Cina. Abbiamo dato voce a chi una voce non aveva. Provincia dello Anhui, marzo 2006 CHEN GUIDI, WU CHUNTAO | << | < | > | >> |Pagina 153Tra i tanti episodi di abusi e sopraffazioni avvenuti nello Anhui, uno dei più choccanti fu certamente la tragedia del villaggio di Shensai, un tipico caso di estorsione fiscale che portò, in ultimo, anche alla morte di due contadini innocenti. Shensai, parte del comune di Zhonggang, contea di Funan, sulle rive del fiume Huai, è conosciuto dappertutto come una sorta di "cisterna", un bacino di raccolta delle acque del fiume. Ogni volta che lo Huai straripa, gli abitanti del villaggio sono costretti a veder diventare i propri campi un enorme serbatoio in cui converge tutta l'acqua e a vedere le loro case portate via dalla furia dell'inondazione. Anno dopo anno i contadini sopportano questo sacrificio così che, più in là, la città di Bengbu, le miniere di carbone lungo il corso più basso del fiume, la grande città di Shanghai e le ricche province dello Jiangsu e del Zhejiang possano essere risparmiate. Anno dopo anno, i contadini devono rassegnarsi a vedere tutto ciò per cui hanno lavorato venire distrutto nell'arco di un giorno. Quelli con cui parlammo ci dissero che il cielo avrebbe di certo punito chiunque avesse mai osato approfittarsi di questa povera gente che aveva già sofferto tanto. Evidentemente, il capo Partito del villaggio di Shensai, Shen Keli, si doveva sentire tanto potente da non temere neanche l'ira del cielo, visto quello che successe. Un tempo, Shen era stato un bravo ragazzo. Era entrato volontario nell'esercito e, poco dopo, si era iscritto al Partito. Tornato a casa, i compaesani avevano pensato che fosse la persona giusta e lo avevano eletto capo del Comitato di villaggio. All'inizio, in effetti, egli s'era impegnato davvero a fare il proprio dovere, guadagnandosi presto la stima generale. Divenne in breve capo Partito e capo villaggio, e fu persino eletto delegato presso il Congresso del Popolo del comune. Ma ecco che, appena iniziò a far carriera, Shen capì meglio com'è che gira il mondo. Si rese conto che le istituzioni pubbliche, grandi o piccole che fossero, benché dovessero "servire il popolo", venivano in realtà usate solo per rubare soldi sotto forma di tasse, balzelli, multe, imposte e "raccolte fondi" obbligatorie dietro questo o quel pretesto. In poche parole, "servire il popolo" ormai voleva dire semplicemente "servire il grande dio Denaro". Shen imparò fin troppo bene la lezione e incominciò ad agire di conseguenza. Tra imbrogli, traffici e appropriazioni indebite, fece la sua brava scalata al potere e alla ricchezza. Dopodiché spostò la propria attenzione, per così dire, in campo bellico: assegnò a suo fratello maggiore Shen Kexin il ruolo di capitano della milizia e al secondo, Shen Kehuí, quello di membro permanente, e regalò loro un buon campionario di armi da fuoco e pungoli elettrici. Al fratello più piccolo, Shen Chaoquin, spettò invece un bel posto da dirigente di una delle brigate di produzione del villaggio. Con questa mossa, Shen Keli s'era assicurato il controllo del Partito, dell'amministrazione civile e di quella militare, divenendo in pratica il capo assoluto del villaggio di Shensai. In un tale scenario, il 4 novembre 1995 ebbe luogo un infame episodio di attacco armato, mirato a estorcere denaro per le famigerate "riserve di denaro del villaggio", che portò a ben due morti e a un ferito. L'incidente attirò l'attenzione del Comitato Centrale e del Consiglio di Stato. Focus, un noto programma della Televisione Centrale Cinese, trasmise un resoconto dell'accaduto, cosa che contribuì a sollevare l'opinione pubblica sulla necessità di adottare seri provvedimenti contro i colpevoli e stabilire ogni responsabilità dei dirigenti di alto livello coinvolti nel caso. Sia Shen Keli che suo figlio furono privati a vita dei loro diritti politici. Il capitano della milizia Shen Kexin, principale responsabile dell'incidente, fu condannato a morte per omicidio premeditato, mentre lo stesso Shen Keli riuscì a salvarsi solo grazie alla condizionale. L'Alta Corte provinciale aveva appena confermato la sentenza e ordinato l'esecuzione immediata di Shen Kexin, quando da Pechino giunse l'ordine di aspettare finché non fosse arrivata la televisione: la morte del condannato avrebbe dovuto esser trasmessa in diretta così da dare «un chiaro messaggio alla nazione»! Non si era mai sentito nulla di simile in tutta la storia della Cina. Tutto ciò finì per avere alcune conseguenze interessanti, dando qualche grattacapo al governo locale. Si era deciso che la lettura della sentenza di morte e l'esecuzione sarebbero entrambe avvenute nella sede della contea invece che, come di consueto, nella capitale provinciale. Le autorità di contea non erano troppo a loro agio davanti alla prospettiva di avere tra i piedi i giornalisti: liberi di andarsene in giro, sarebbero magari andati a ficcare il naso nel villaggio di Shensai e, in questo caso, nulla avrebbe potuto impedir loro di vedere l'immensa povertà che, praticamente ovunque, regnava sovrana. Fu così che si pensò di ospitare tutta la troupe nel miglior hotel della contea, con tanto di belle cameriere ad allietarli. Eppure, anche così, i reporter riuscirono a farsi un giro nel villaggio di Shensai e a fare qualche ripresa. Il giorno fatale in cui migliaia, se non milioni, di spettatori guardarono Shen Kexin andare al patibolo in diretta tv, Focus annunciò che erano state prese misure disciplinari nei confronti dei dirigenti della prefettura, della contea e del comune. La trasmissione si concluse con le parole di Zhu Rongji, presidente del Consiglio di Stato: «Da oggi in poi, chiunque ignorerà le regole e continuerà a estorcere soldi ai contadini dovrà rispondere delle proprie azioni!» Il Comitato Centrale e il Consiglio di Stato firmarono un documento congiunto sull'incidente di Shensai che richiamò l'attenzione nazionale sul problema fiscale nelle aree rurali. Questa Relazione sui gravi incidenti del 1995 relativi alla tassazione eccessiva dei contadini rivelò che, nell'arco di quell'anno, c'erano stati ben tredici episodi di abusi fiscali in otto province, spesso finiti con la morte di qualche bracciante. Il caso del villaggio di Shensai era soltanto uno dei tanti, e venne usato come esempio per mandare un segnale di sicura efficacia. Il documento fu diffuso tra i vari livelli dell'amministrazione pubblica così che tutti sapessero che, da quel momento, non si sarebbe tollerata più alcuna infrazione, eppure questo non bastò a prevenire la tragedia del villaggio di Zhang (cfr. capitolo 2, Il tiranno del villaggio), in cui quattro contadini persero la vita e un altro venne ferito. Dopo i fatti di Zhang, vennero registrati altri otto episodi simili nell'arco del '99 (tre casi nello Hunan, due nel Sichuan e uno in ognuna delle province dello Hubei, del Gansu e dello Henan). Non siamo in grado di dire, comunque, di quanti altri casi non si venne a conoscenza: sono moltissimi i contadini morti nel disperato tentativo di resistere alla pressione fiscale. Nel frattempo, il Partito e il governo hanno emesso una direttiva dopo l'altra, stabilendo sempre nuove regole e proibizioni, ma senza riuscire a evitare che le tasse continuassero ad abbattersi sui contadini.
Esaminando i documenti ufficiali, ci si può rendere facilmente conto di come
essi si limitassero spesso a stabilire semplici principi generali o a suggerire
un vaghissimo "spirito" di governo: è evidente come la pratica non potesse
essere controllata affatto da qualche blando consiglio e, di conseguenza,
tali proibizioni non avessero un vero peso legale. Fu così
che ciò che doveva essere abolito continuò a essere una pratica comune, e ciò
che doveva essere cambiato rimase esattamente come prima. I problemi fiscali che
i regolamenti del Partito e del Consiglio di Stato prendevano di mira divennero
un po' come le erbacce del proverbio, "più le tagli e più
ricrescono". O, se vogliamo: più direttive ci sono a proibire
le tasse, più le tasse aumentano. Un vero circolo vizioso.
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