Autore Sophie Chen Keller
Titolo La voce delle cose perdute
EdizioneNord, Milano, 2018, Narrativa 737 , pag. 330, cop.rig.sov., dim. 14,5x22x3 cm , Isbn 978-88-429-3034-1
OriginaleThe Luster of Lost Things
EdizionePenguin, New York, 2017
TraduttorePatrizia Spinato
LettoreAngela Razzini, 2018
Classe narrativa cinese , narrativa statunitense












 

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Sulla banchina della metropolitana di 14th Street c'è una piccola scultura di un omino in bronzo, in attesa di un treno che non passa mai. Speravo sempre di trovare posto sul sedile accanto a lui, per osservare il mio riflesso sulla sua testa calva e luccicante. Mia madre, Lucy Lavender, diceva sempre che ero identico a mio padre, Walter Lavender Sr, che avevo i suoi stessi occhi e la stessa disponibilità all'ascolto, la stessa curiosità rispettosa e cortesia. A prescindere dalla superficie nella quale mi specchiavo e dall'attenzione con cui studiavo i miei lineamenti, però, io vedevo soltanto la mia, di faccia, del tutto scialba e comune, un'espressione che, insieme col silenzio, gli altri attribuivano alla stupidità; per loro ero un ragazzino gentile, ma un po' tardo.

In genere non me la prendevo, perché così potevo dedicarmi all'osservazione. Libero dalle distrazioni del dialogo e dell'attenzione altrui, potevo concentrarmi maggiormente su quello che gli altri dicevano agli altri e a se stessi. Potevo studiare meglio la pelle del mondo che scorreva e si allungava e, se ero abbastanza ricettivo e sveglio, riuscivo a intravedere un barlume delle ossa e degli ingranaggi che copriva, affinando così la mia comprensione dei meccanismi segreti della vita.

All'asilo, la maestra leggeva ad alta voce Anna dei miracoli, obbligandoci a stare al buio finché non sentivamo un formicolio alle orecchie e alle dita e riuscivamo a sentire e ad annusare cose alle quali non facevamo mai caso. Mi domandavo se a me non fosse successo proprio quello, col silenzio che s'insinuava tra le pieghe del mio cervello, dando vita a un unico senso capace di raggiungere la zona di confine tra la realtà e l'immaginazione, per distinguere gli echi dell'impercettibile.

Da che avevo memoria, tenevo la bocca chiusa e gli occhi bene aperti; più profondo e cupo diventava il mio silenzio, più cominciavo a percepire al di là di esso: tracce di luce, movimenti della materia, correnti sotterranee. Quando, ormai più grande, avevo capito che Lucy non vedeva la realtà nel mio stesso modo, quella percezione era ormai parte di me, niente di cui stupirsi.

Mi accorgevo di dettagli minuscoli ed effimeri, che potevano facilmente passare inosservati: graffi o infiorettature della realtà, indizi a mostrare il cammino verso le verità più grandi seppellite sotto la superficie, come l'imperfezione sul fondo in metallo di un vaso di gigli che rischiava di rovesciarsi o, se si trattava della gente, lo sfrigolio deluso di qualcosa che si era spento prima di poter essere detto. Più tardi, su consiglio di Lucy, avevo cominciato ad annotare quelle verità su un taccuino, affinché i pensieri non rimanessero imprigionati nella mente.

«Scrivici le cose che noti e che il resto di noi si perde. In quel modo non ne dimenticherai nemmeno una, e un giorno potrai dirmele tutte.»

Il taccuino era il mio migliore amico, prima che trovassi Milton. Era diventato parte di me, un osservatore, un testimone. Quando notavo un particolare e lo mettevo nero su bianco, era come se stessi parlando a qualcuno che mi ascoltava.

A volte, però, abbassavo gli occhi su quanto avevo scritto, incomprensibile a chiunque tranne che a me - con quelle lettere deformi e storte, come la torre del Jenga -, e dentro mi montava la rabbia per quei pensieri che non significavano niente, che non potevo condividere con nessuno. Ero intrappolato nel mio ruolo di osservatore, separato da chiunque altro e incapace di fare parte della storia.

Le cose erano cambiate qualche settimana prima del mio settimo compleanno. Avevo capito di poter fare qualcosa, che la mia capacità di scorgere lampi di verità mi aiutava a ritrovare le cose. La prima volta, Lucy aveva appena battuto lo scontrino di un vassoio di profiterole al cheesecake alla fragola, quando la cliente si era portata una mano al lobo e si era accorta di avere perso uno dei suoi orecchini di diamante.

Non avevo ancora formulato le regole delle ricerche, ma in quel caso era stato facile scorgere il segno rivelatore. Mentre Lucy si affannava attorno al bancone e la donna si accovacciava per setacciare il pavimento, avevo notato un sottile filo d'argento che le scendeva lungo il braccio, un segno che lei non sembrava scorgere. Lo avevo seguito sino alla fine e avevo allungato la mano per liberare l'orecchino intrappolato nel maglione. Era cominciata così.

La volta successiva, passando davanti a un volantino su un paio di occhiali da sole smarriti, mi ero fermato a copiare quelle informazioni sul taccuino. Di lì a poco, oltre ai casi di smarrimento nei quali incappavo per caso, mi ero messo a setacciare la città in cerca di volantini, o ad appenderne io stesso - HAI PERSO QUALCOSA? VIENI DA THE LAVENDERS -, e mi lanciavo in soccorso quando vedevo qualcuno che cercava qualcosa in metropolitana, per le strade o da noi in negozio.

Mi sentivo obbligato a portare il mio aiuto, poiché sapevo bene cosa significasse perdere qualcosa. Avevo perso Walter Lavender Sr prim'ancora di nascere: era scomparso durante un volo diretto a Bombay del quale era vice pilota; le squadre di ricerca avevano lavorato tutto l'inverno fino a primavera, in cerca di quell'aereo svanito. Non avevano trovato traccia né del velivolo, né di mio padre, nonostante gli sforzi. Alla fine, la tragedia era stata archiviata e lui si era dissolto nelle grigie nebbie del mar Arabico.

Tre giorni dopo avergli detto addio, Lucy aveva salutato il mio arrivo, il cuore sul punto di scoppiare e in bocca il sapore delle lacrime. Piangevo raramente e dormivo spesso; prima che Lucy potesse rendersene conto, avevo compiuto cinque mesi e al di sopra della porta del negozio era stata appesa la piccola insegna in legno. Ogni lettera di THE LAVENDERS riluceva di un denso e appetitoso color cioccolato. In basso, i caratteri dorati di PICCOLA PASTICCERIA ammiccavano al sole come penny nuovi di zecca.

Quel pomeriggio, Lucy aveva spalancato la porta e si era piantata sulla soglia ad aspettare, con un sorriso audace. Era il negozio dei suoi sogni, quello che dipingeva a Walter Lavender Sr e che aveva aperto dando fondo ai risparmi e alla liquidazione. Mentre mi appoggiava meglio sul fianco, doveva aver pensato, con una speranza devastante quanto la disperazione, che quello poteva essere un nuovo inizio.

Per me era stato l'inizio di tutto: noi due sulla soglia, col negozio vuoto alle spalle. I miei occhi erano due pozze grigie che già allora scrutavano ovunque, i piedini curvi come minuscoli punti interrogativi. Forse speravo ancora di veder apparire l'omonimo che non ho mai conosciuto, quando tutti gli altri avevano abbandonato le speranze da un pezzo.

Negli anni, Lucy mi avrebbe raccontato molte storie su Walter Lavender Sr; le inghiottivo come acini d'uva, una alla volta. Ce n'era una, però, che gustavo in modo particolare, poiché aveva il sapore di un ricordo, più che di un racconto, come se mi avesse accompagnato da un mondo all'altro, un'impressione vivida e infinitesimale di cieli vorticanti, costellazioni in movimento e io che scalcio, inghiottito da un mulinello; una voce profonda tuona attraverso il mio cielo e il vortice rallenta affinché io possa ascoltare. Era l'ultima storia che aveva raccontato a Lucy, a me, prima di salire su quell'aereo, e chiedevo a Lucy di ripeterla all'infinito.


C'era una volta un ragazzino che non avrebbe mai immaginato di poter volare lontano. Viveva qui vicino, dall'altra parte dell'East River, in un caseggiato sotto il quale passava la metropolitana, accanto a un banco dei pegni e a una rivendita di liquori. Ogni giorno, dopo cena, scendeva in spiaggia, finché una sera non trovò qualcun altro al suo solito posto.

Così ricoperta di cristalli di sale, con le alghe attorcigliate ai capelli, la donna sembrava una sirena selvaggia e, benché non lo fosse, sarebbe diventata tale nei ricordi degli anni a venire. All'inizio si era tenuto sulle sue e aveva camminato finché l'Atlantico non gli aveva lambito i piedi, costringendolo a fermarsi.

La sirena aveva osservato il ragazzo che fissava le onde e aveva abbozzato un ritratto, non di com'era in quel momento, ma di come, nella sua visione, sarebbe potuto diventare. Lo aveva chiamato, e lui le aveva detto di non avere soldi. Lei aveva infilato il disegno in una cornice e glielo aveva regalato: un piccolo aereo che planava sull'acqua e, a uno dei minuscoli oblò di quel minuscolo velivolo, un ragazzino con un sorriso da roditore.

Se fino a quel momento si era sentito intrappolato in una vita che non faceva per lui, in quelle ali il ragazzino vide una via di fuga. Da quella sera in poi, quando scendeva alla spiaggia e si fermava al limite dell'acqua, cominciò a vedere un inizio, piuttosto che una fine, in quel punto.

Il ragazzino diventò grande e, quando se ne andò per realizzare il sogno di volare, gli sembrò di aver raggiunto, più che lasciato, un posto che sentiva suo. Continuò a viaggiare attraverso innumerevoli terre, oceani e montagne, sperando di poter ringraziare la sirena, ma non l'avrebbe mai più rivista. Un giorno perse il disegno che lei gli aveva regalato, ma non avrebbe mai dimenticato che un gesto di gentilezza ha il potere di cambiare una vita.


«Piccolino, per ora basta», mi aveva detto, quand'ero ancora nella pancia di Lucy. «Devo andare, ma ricorda che tornerò presto. Lo sapevi che negli aeroporti ci sono i segnali luminosi, e che li si vede da una distanza incredibile? Cercherò la luce per ritrovare la strada del ritorno, e sarò di nuovo qui prima che tu te ne renda conto. Sarò qui ad accoglierti. Croce sul cuore. Quindi non essere triste.»

Non avevo ancora trovato una traccia di lui nel mio riflesso, né in nessun altro posto là fuori, ma avevo letto che il mondo era pieno di strani avvenimenti e di miracoli, mari che bruciavano e guarivano le piaghe, fonti che gorgogliavano e sbuffavano dentro i ghiacciai, alberi che si attorcigliavano e camminavano sull'acqua. In mancanza di prove, di qualcuno che sapesse con certezza che cosa fosse stato di Walter Lavender Sr, avevo creato io stesso una luce, un segnale luminoso che lo guidasse nel ritorno a casa. Avevo usato un barattolo e lo avevo messo davanti alla finestra; rabboccavo l'olio, sostituivo lo stoppino e stavo attento alla fiamma, mentre i giorni diventavano anni.

Ma al tempo stesso mi preparavo all'altro possibile epilogo della storia, nel quale lui non poteva bussare alla porta. Tenevo d'occhio i giornali e la cassetta delle lettere, in attesa di nuovi sviluppi, rileggevo vecchi articoli e chiedevo a Lucy di raccontarmi altre cose di lui, raccoglievo tutte le informazioni possibili, studiandole in cerca d'indizi su dove e cosa cercare. In quel modo, sarei stato in grado di riconoscere il segno, quando lo avessi visto, il segno che non sarebbe tornato.

Le cose smarrite si possono ritrovare; Walter Lavender Sr però non era semplicemente scomparso: finché non avessi scoperto cosa gli era successo, sarebbe rimasto in cerca della strada del ritorno e al tempo stesso perso per sempre.

Col passare degli anni, poiché lui non tornava e io non trovavo un solo indizio che puntasse nella sua direzione, cominciai a chiedermi se non fosse lui a non voler essere rintracciato. Forse si vergognava di me perché non ero come lui, né come la maggior parte delle persone, che parlavano senza pensare, limitandosi ad aprire la bocca e a buttar fuori raffiche di parole. Potevo soltanto sperare nel contrario, che sapesse che stavo imparando l'unica lezione avuta da lui, su come la gentilezza possa cambiarti la vita.


Per Lucy, i mesi successivi all'apertura erano stati addirittura peggiori di quelli seguiti alla scomparsa di Walter Lavender. Il vuoto attorno a lei sembrava allargarsi all'infinito - l'eco del pavimento, il soffitto cavernoso - e un lento autunno si era trasformato in un inverno che aveva visto poche vendite nei giorni di festa, solo temperature così basse da segnare nuovi record e una neve inarrestabile. Le porte avevano gelato, e sulla sciarpa di Lucy si erano formati cristalli di ghiaccio, come una barba amara, mentre lei spalava il marciapiedi e grattava il ghiaccio dai vetri del negozio; di sopra, nel nostro appartamento, mi avvolgeva nelle coperte, s'infilava i due cappotti che aveva e abbassava il riscaldamento per risparmiare, in attesa che passasse la bufera.

Finché, una notte di gennaio, in negozio non era piovuta una sconosciuta.

Lucy iniziava sempre così la storia della rinascita, quando faceva da cicerone a qualche nuovo cliente. Nel buio dell'inverno, a un'ora imprecisata tra mezzanotte e l'alba, si era svegliata e aveva visto che stava nevicando.

Si era avvicinata alla finestra, osservando dall'alto la strada immersa nel silenzio, attenta a non fare il minimo rumore, come se temesse di turbare qualcosa di fondamentale. Il fiato aveva appannato il vetro. L'aveva pulito passandoci la mano e aveva notato un'ombra che si muoveva sotto il tendalino del negozio.

Aveva premuto la fronte sul cristallo, sentendo il morso del freddo, e si era resa conto che quell'ombra era una donna: stava cercando di costruirsi un riparo coi sacchi della spazzatura, attorno a uno sgabello sul quale erano accatastate alcune tele. Una folata di vento aveva scosso il vetro della finestra e fatto crollare le tele della donna, che si era affannata per recuperarle mentre scivolavano sul ghiaccio nero, la treccia che dondolava seguendo i suoi movimenti. Si era inginocchiata per raccogliere le ultime, quando un taxi aveva svoltato sulla strada, puntandole addosso i fari, e Lucy era riuscita a scorgere uno dei disegni.

Un aereo che planava al di sopra delle onde.

Lucy aveva sentito il respiro farsi ghiaccio, allargandosi nel petto. Non aveva mai visto il ritratto di cui parlava la storia di Walter Lavender; era andato perso tanto tempo prima, ma doveva essere molto simile: la luce increspava l'acqua e si rifletteva sul vetro della cabina di pilotaggio, sempre che quel bagliore non fosse il sorriso del pilota, luminoso quanto il sole.

I fari del taxi si erano allontanati e il vetro si era di nuovo appannato; Lucy si era sentita piombare addosso una stanchezza che offuscava la mente, e aveva deciso di lasciarsi andare. Io mi ero agitato nel sonno e lei aveva intonato il Valzer delle candele a bocca chiusa, finché non mi ero calmato, addormentandomi di nuovo. Lei però non riusciva a prendere sonno; stava pensando a Walter Lavender Sr e alla storia che tanto significava per lui, quella su come avesse trovato le ali e sulla sirena che non era riuscito a ringraziare.

Anche quella sirena era una pittrice, e la fermata di Brighton Beach era ad appena quaranta minuti di metropolitana. Lucy continuava a pensare al ritratto smarrito. E se fosse lei? si chiedeva. E poi: No, è impossibile, ma poi rivalutava l'ipotesi e si diceva: Perché no? Alla fine, che importanza aveva se era lo stesso disegno oppure no, ora che lo aveva visto?

Quando si era riavvicinata alla finestra, aveva notato che la treccia della donna, lunga e pesante, dondolava in modo strano. Sembrava proprio la coda di un pesce, si era detta.

Mi aveva portato di sotto con sé, aveva acceso le luci e aperto la porta, e una luce dorata si era riversata sul marciapiedi. «C'è posto per tre.»

La donna tuttavia esitava, sospettosa di fronte a quel colpo di fortuna.

Lucy aveva lasciato l'uscio spalancato e mi aveva portato in cucina. Con la mano libera, aveva fatto sciogliere il cioccolato fondente in una casseruola per poi aggiungere latte e maizena; al di sopra del rimestio e del sibilo della fiamma blu, aveva sentito la porta che si richiudeva e una sedia stridere sul pavimento, e aveva sospirato. Quando la cioccolata era diventata abbastanza densa da rimanere attaccata al dorso del cucchiaio, Lucy aveva aggiunto un pizzico di sale e un pezzetto di vaniglia, ed era andata a fare compagnia alla sua ospite.

Sedute allo stesso tavolo, avevano bevuto dalle tazze, guardando la tormenta che spazzava le strade deserte. La cioccolata calda sembrava scorrere attraverso le braccia di Lucy, e di sicuro anche in quelle della donna, irrobustendone le vene come se fossero state tralci di vite; era bello essere lì ed essere vive, a guardare il crudele spettacolo della notte che si congelava in un'alba desolata.

Quel giorno non si erano visti clienti, e Lucy aveva apprezzato la compagnia della donna, benché fosse rimasta in silenzio a disegnare e stendere colori sulle pagine di un libro rivestito in pelle. All'ora della chiusura aveva dato il libro a Lucy che, quando lo aveva aperto alla prima pagina, aveva sentito un tuffo al cuore e la pelle d'oca. Lo aveva richiuso, dicendo: «È troppo». Ma l'altra aveva insistito affinché lo tenesse. Era un regalo. Quella era una storia che doveva essere raccontata, le aveva detto.

Lucy aveva scorso le pagine, commossa; quando aveva risollevato lo sguardo per ringraziarla, l'altra se n'era già andata, senza una parola. Non avrebbe mai dimenticato quel momento: la donna che sollevava la testa per mostrarle il volto, gli occhi che ardevano nelle brume del crepuscolo e il libro nella mano tesa.

Lo aveva posato su uno scaffale e aveva chiuso il negozio; l'indomani si era alzata prima dell'alba, a mescolare e ad aromatizzare pastelle, come sempre, ignara che tutto fosse cambiato. Non aveva impiegato molto a capirlo, comunque. Quando aveva dato un'occhiata alle prime infornate, qualunque proposito di controllare il punto di cottura e regolare le forme era svanito, poiché ciò che si era trovata davanti era incredibile, oltre che inequivocabile.

Quella stessa mattina, il negozio aveva preso vita. I dolci si svegliavano sbadigliando dopo la cottura o il raffreddamento, come se forni e frigoriferi avessero insufflato in essi la vita col loro respiro caldo o freddo, ma era il Libro a veicolare la magia, assumendo il proprio posto al centro del negozio, e della mia vita.

«A quel punto, come se avessi premuto un interruttore, la gente ha cominciato ad arrivare. Quella capace di andare oltre la superficie per scorgere un pizzico di magia», raccontava Lucy ai clienti, che pendevano dalle sue labbra.

La notizia si era diffusa col passaparola, ma la gente aveva comunque le proprie abitudini, un sacco di cose da fare, il peso immane di mille preoccupazioni e timori sulle spalle, per cui non tutti venivano a cercare il negozio; tra quelli che lo facevano, non tutti lo trovavano e, tra quelli che lo trovavano, non tutti lo avevano cercato.

La scoperta iniziale era stata sconvolgente. Nessuno di noi riusciva a capire quale fosse la logica seguita dal locale; l'unica cosa di cui ero sicuro era che a volte, quando arrivava una data persona che cercava proprio noi e magari aveva un certo appetito, il negozio decideva di farsi trovare. Prima di firmare il contratto d'affitto, Lucy aveva saputo dal proprietario - un tizio energico, con le mani macchiate d'inchiostro e una faccia pelosa - che l'edificio era stato costruito nel XIX secolo e aveva custodito i segreti di contrabbandieri, amanti e contestatori che operavano nella clandestinità, quindi per me era logico che, per sopravvivere, quel posto avesse dovuto imparare a nascondersi e a farsi trovare.

Da fuori appariva piccolo e semplice, di un grigio-blu uniforme che tendeva a passare inosservato. Ma il giorno in cui finalmente lo vedevi, oltrepassavi la soglia e ammiravi le finiture in ottone, i lampadari a piatto, la scacchiera bianca e nera del pavimento e le vetrine scintillanti ne rimanevi incantato.

All'interno profumava di burro montato, di luce e di zucchero, e sembrava che ci danzasse un refolo costante di allegria. Nelle vetrine a specchio, i pasticcini erano disposti come se fossero gioielli; i lucidi ripiani scuri erano rallegrati dai vecchi oggetti che Lucy aveva raccolto durante i primi viaggi con Walter Lavender Sr: qui una giraffa dal manto marezzato intagliata in Sudafrica da un ramo di jacaranda; là un coloratissimo tanka tibetano.

La vera magia però avveniva nell'intervallo di tempo in cui i vol-au-vent cuocevano in forno o aspettavano la farcitura: quando infine apparivano in vetrina, ripiene di mascarpone ai fichi e decorate con baffi, orecchie e coda di cioccolato, prima di essere scelte e gustate, quelle minuscole sorprese si fiutavano l'un l'altra con fare vivace, squittivano, a volte si sollevavano sulle zampette posteriori e saltellavano.

Non erano solo i topi, però, a prendere vita con un carattere tutto loro. C'erano crostatine alla crema pasticciera al lime ricoperte di panna che si mettevano in posa davanti allo specchio all'interno della vetrina, ammirandosi le gonnelline pieghettate verde acido; amaretti che danzavano sul caffè che vorticava nelle tazze e che spesso si tuffavano con fare invogliante nel liquido infuocato; tortine capovolte alla pera e zenzero che facevano capriole dentro e fuori da stampi e contenitori; quadrotti croccanti di riso soffiato che scoppiettavano, stiracchiandosi pigri come gatti.

C'erano biscotti bianchi e neri a forma di pinguino, aromatizzati al rum, che ciondolavano e si buttavano a terra; torte alla nocciola ipercompetitive che galoppavano lungo la vetrina calpestando i rotoli con cannella, noci pecan e melassa, i quali scivolavano via con estremo contegno, e dolci con qualità altrettanto peculiari: palline di gelato alla zucca e alle cinque spezie che non si scioglievano finché non le mangiavi; gallette triangolari alla mela selvatica e al burro salato che ti colavano nei muscoli per sciogliere le tensioni, fette quadrate e mattonelle frizzanti di torta pane degli angeli, che ti rendevano più leggero, petit four decorati con monogrammi che ti ricordavano da dove arrivavi, vellutati e rinfrescanti cupcake alla verbena e al limone, pudding al litchi ghiacciati che rallentavano il tempo e ti facevano respirare meglio.

I clienti si affollavano davanti alla spumeggiante vetrina dei dolci, com'è ovvio, ma anche attorno alla teca di fronte alla finestra: custodiva soltanto un libro rilegato in pelle, dall'aria insignificante, composto di sette pagine spesse e ormai ingiallite, che si staccavano dalla costa come denti vecchi.

Era il Libro, quello ricevuto in dono da Lucy come premio per la sua gentilezza. I clienti abituali sapevano quanto fosse importante e si avvicinavano alla teca in cui era esposto, aperto alla prima pagina, per ammirarlo. «Era una notte buia e tempestosa...» Sullo sfondo, un cielo d'inverno dipinto a mano, luccicante di stelle infuocate, nastri cadenti di luce, spirali di vento e capricci; al di sotto si estendeva la città, di un buio magnetico e appuntita come un diamante, fatta di acciaio, acqua e cemento, un labirinto di strade, riverberi e ombre che, con un moltiplicarsi di linee e movimenti, ti sfidavano a ritrovare l'uscita.

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