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| << | < | > | >> |Pagina 30Recensioni come?Si è tornati di nuovo, in questo periodo, a discutere della nostra critica letteraria (chissà perché non si discetta mai, invece, di quella d'arte o cinematografica o teatrale, quasi fossero esenti da magagne). Non aggiungendo granché peraltro, al già detto. Il peso delle recensioni sull'acquisto dei libri resta scarso, quando non irrilevante: il pubblico dei lettori pare infatti aver individuato il vizio di fondo dei critici militanti, cioè il loro essere, nella gran parte, alle dipendenze dell'industria culturale. Si spera di non sentirlo più proclamare con l'aria d'aver fatto una grossa scoperta: c'è di che ululare dalla noia. Ma, a parte il fatto che ci sono ancora alcuni recensori, diciamo meglio cronisti letterari (non tanti: non oltre, temo, le dita di una mano), che sono indipendenti (da ogni medium) e di qualità (e le due cose paiono andare di pari passo), mi interessa qui soffermarmi su un punto nodale, che viene tenuto in sordina nelle polemiche in corso: come dovrebbe presentarsi una recensione per essere di qualche utilità al lettore (alludo a quelle, inevitabilmente brevi, che appaiono sui quotidiani. Quelle sulle riviste meriterebbero un discorso a parte, anche questo fitto di dolenti note). Prendo spunto da un pezzo di Geno Pampaloni (che è uno delle dita della mano, con l'unica pecca di privilegiare troppo, nei romanzi di cui si occupa, le note di speranza e di conciliazione, a scapito di tonalità più disperate) apparso sul mensile "L'Indice" dello scorso febbraio. Cito dalla conclusione: "L'arma segreta di cui dispone il cronista, o se si vuole l'arte del recensore, è la scelta delle citazioni... Un recensore si valuta, a mio parere, dalla scelta, dal florilegio, dal prelievo delle citazioni attraverso le quali il cronista dà conto della sua lettura. E al tempo stesso mette il lettore nella condizione di giudicare egli stesso se l'interpretazione del cronista è convincente o arbitrariamente personale". Giustissimo. E oltre alle citazioni, a me sembra altrettanto indispensabile informare sinteticamente (lo spazio è quello che è) sul contenuto del libro, trama o plot che dir si voglia (la sua assenza dà adito ai più biechi sospetti: il libro è stato veramente letto da cima a fondo?). Cui seguirà, ma già dovrebbe emergere dalla trama inframmezzata di citazioni, il giudizio, che sarà, inevitabilmente, impressionistico, dettato dall'intuito, dal gusto e dall'esperienza: cos'altro mai potrebbe essere? (Anche su questo punto ha ragione Pampaloni.) Il tutto scritto in modo chiaro, non certo da addetti ai lavori che ammiccano tra di loro per l'infelicità dei più. La recensione ispirata a questi criteri sarà un po' vecchiotta, di stampo decisamente tradizionale, ma mi pare sia l'unica che renda un servizio al lettore, fornendogli i motivi per andarsi a leggere il libro o per evitare di farlo. Non dico certo cose stuzzicanti o nuove: basti pensare che le aveva già dette, e da par suo, nel 1960 Paolo Milano (un critico militante che col passare del tempo si rimpiange sempre di più e che a sua volta si definiva cronista letterario") introducendo una scelta dei suoi articoli dal titolo Il lettore di professione: "Ho sempre sentito il dovere d'esporre la trama del romanzo che recensisco. L'omissione spalanca una distanza fra chi scrive e chi legge, il primo diventa un esperto, al quale il secondo è chiamato a credere sulla fiducia. Non penso di aver mai scritto un articolo che non contenga qualche citazione diretta. Questo mi è sembrato un mio obbligo verso l'autore del libro: che la mia voce non fosse l'unica udibile, ma anche alla sua fosse dato di farsi ascoltare, per qualche istante, in prima persona". (...) Panorama, marzo 1989 | << | < | > | >> |Pagina 36Il terrore che prende anche Babele(...) Personalmente, credo tutto l'opposto. Bisognava scegliere invece libri di qualità, e solo quelli, perché sono, tra l'altro, pluristimolanti (via quindi quasi sempre i bestseller), e partire per ogni discorso sempre e solo da loro. Sicuri, come probabilmente è sicuro anche Augias, che la lettura è uno dei pochi grandi divertimenti della vita, e forse l'unico a non tradire mai (provare per credere!), bisognava contagiare d'entusiasmo il telespettatore. E l'autore invervistato non sarebbe venuto meno. Lo so per esperienza, dato che mi capita spesso di intervistare scrittori (con la grande fortuna di poterli scegliere), e posso garantire che, se si accorgono che l'interlocutore conosce i loro libri, dicono cose anche molto divertenti e originali, in grado di coinvolgere il telespettatore più sprovveduto in materia. E' insomma l'ora di finirla di farsi venire la tremarella e lasciarsi condizionare dagli indici di ascolto: una trasmissione dedicata ai libri non è destinata di per sé ai grandi numeri, ma se ben congegnata, e appassionata dell'oggetto di cui tratta, può interessare molta più gente di quel che i capoccioni televisivi vogliano per pusillanimità farci credere. Recentemente a Milano un incontro fra scrittori promosso dalla rivista "Linea d'ombra" e dalla Provincia si temeva da parte degli organizzatori che venisse disertato data la coincidenza, quella sera stessa, alla tv, di una importante finale di coppa. E invece gente ce n'era, eccome, al punto che l'ottimo Jan McEwan, uno dei relatori, si complimentò con Goffredo Fofi osservando che a Londra, in una contingenza del genere, non ci sarebbe stato praticamente nessuno. Il fatto è che riguardo ai libri si tende un po' tutti a praticare un pessimismo apocalittico, che naturalmente peggiora ulteriormente la situazione (che è, sia ben chiaro, di prevalente non-lettura). Come ha scritto Lietta Tornabuoni ("Tuttolibri", 21 aprile) a proposito anche di "Babele", "se i conduttori risultano i primi a non credere nella forza, nell'interesse, nel fascino, nella passione, nel divertimento dei libri, perché dovrebbero crederci i telespettatori?". Mentre risulta normale appassionarsi a un orologio o a un'auto o a una pietanza, suona, chissà perché, ridicolo-patetico entusiasmarsi per un libro. Forse un rimedio c'è. Dato che noi lettori siamo una minoranza sì, ma di irriducibili, se cominciassimo (e continuassimo) a spargere la voce che la gente non sa cosa perde a non leggere, che so, l'ultimo Vonnegut o l'ultimo splendido Calvino (quello cosiddetto inedito, La strada di San Giovanni, che contiene due racconti stupendi), guardando con commiserazione chi non li ha letti, chissà... L'Unità, giugno 1990 | << | < | > | >> |Pagina 43Restando a Kafka "Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno nel cranio, a che serve leggerlo?... Un libro dev'essere la scure per il mare gelato dentro di noi". Con quale animo dopo aver letto questa frase di Kafka si può passare alla segnalazione di qualche libro? Scorrendo la lista dei libri più venduti si incontrano soprattutto scrittori il cui nome bisognerebbe far precedere da un pardon, per motivi di educazione.)
Restando a Kafka consiglio di leggere il
breve, denso saggio di Elias Canetti (ancora!)
L'altro processo,
imperniato sull'esame delle lettere di Kafka alla
fidanzata Felice Bauer (che si possono trovare nei
Meridiani Mondadori); Canetti avanza l'ipotesi che
due episodi di quella lunga e tormentosa relazione
(peraltro, com'è noto, prevalentemente epistolare)
siano alla base del Processo, e cioè il
fidanzamento ufficiale in casa Bauer a Berlino
(Kafka così lo descrive nel
Diario:
"Venni legato come un delinquente. Se con catene
vere mi avessero messo in un angolo con davanti
dei gendarmi e mi avessero lasciato guardare
soltanto così, non sarebbe stato peggio. E questo
fu il mio fidanzamento.") e, sei settimane dopo,
una riunione in albergo di parenti e amici - che
lui chiamerà "il tribunale" - che portò alla
rottura del fidanzamento. Un mese dopo Kafka
comincia a scrivere
Il processo:
il fidanzamento è diventato l'arresto del primo
capitolo, "il tribunale" si trova, sotto forma di
esecuzione, nell'ultimo.
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