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| << | < | > | >> |Pagina 7Che Chiamparino fosse uno più da polenta che da cozze al gratin l'avevamo intuito. E che fosse un solitario caparbio, capace di grandi imprese pure. C'era da immaginarselo che la montagna diventasse parte della sua vita. Quasi metafora della sua storia di uomo politico. Perché la montagna è prima di tutto strada. Percorso. Sentiero. Un andare che ti porta. La montagna non è fatta per I bugia nen... al contrario. È fatta per gli Esageruma nen. È salita. Non è balzo. È procedere lento e cadenzato. Un passo dopo l'altro, piano piano, con pazienza. Mica come me che faccio sempre tutto di corsa e infatti mi inciampo continuamente. Ma la montagna è anche itinerario. Tragitto definito. Non è un procedere a vanvera. Un andar per famiole (funghi chiodini, NdR). C'è una meta. La sai. È certamente lontana ma la vedi. È là. E nel cammino sei un po' solo e un po' no. Come nella vita d'altronde. A volte tocca aspettare un compagno che ranfia (sbuffa) in salita, dargli una spintarella da sotto, magari anche prenderlo un po' in giro per trasformare il patimento in divertimento. Altre volte sei tu che fai fatica, perdi terreno, scivoli, ti sembra di non farcela. Però quando ci arrivi, sulla cima, è una figata. Perché da lassù vedi. E vedi anche se c'è la nebbia. Forse perché vedi col cuore che ha più diottrie degli occhi. Se c'è un sole generoso poi ancora meglio. Sarà che l'aria più rarefatta ti mette in ordine i pensieri e la stanchezza ti placa i tormenti. Forse Sergio è dalla montagna che ha imparato il punto di vista. Quello che l'ha fatto capace non solo di guardare ma anche di vedere. Vedere dall'alto perché è da lì che si chiariscono le prospettive, si resettano le proporzioni, si dà il giusto peso alle cose. Incredibile quanti siano stati i passi dei suoi cammini. In cordata o in solitaria. Su e giù per i bricchi a parlare ai merli, a inzaccherarsi di resine di pigna e a pestare le cacche di mucca negli alpeggi. Un incredibile uomo delle nevi. Un mini-yeti. E soprattutto a salutare tutti quelli che incontrava sui sentieri. Pazzesco. In montagna si salutano tutti. Se incontri qualcuno gli dici sempre «salve!» anche se non lo conosci. C'è gente che sale con uno zaino da ottanta chili sulla gobba, le coronarie intrecciate come un cesto di vimini, gli occhi fuori dalle orbite, la minima a duecento eppure pur di dirti «salve!» schiatta. Poi vai in giro per negozi il sabato pomeriggio in via Roma, pieno così, e manco uno che ti dice crepa. Misteri della vita. La prossima meta del nostro esimio ex sindaco sarà il Becco della Tribolazione, l'ha detto qualche tempo fa a Che tempo che fa. Certo come nome non è molto invitante. Già becco non dà l'idea di qualcosa in piano. Piuttosto una roba adunca, pendente, tipo naso della Santanchè. Se poi è addirittura il becco di una tribolazione diciamo che non c'è tanto da star allegri. Il vecchio scarpone ha detto pure che mi ci porta. A me. Se ci si arriva in auto volentieri, Sergio. Guido io. Mi sa solo che sul becco sarà un casino trovare parcheggio. | << | < | > | >> |Pagina 11Leggo, corro, cammino e arrampico in montagna. Sono, fondamentalmente, un solitario. Se possibile, lo sono diventato, anche di più, in questi anni vissuti sempre in pubblico. Il bisogno di stare solo è spesso molto forte. Ma in montagna non salgo quasi mai da solo. Anche quando assumo decisioni politiche cerco sempre il conforto, utile e necessario, delle persone che ho deciso di chiamare in squadra con me. La politica è una montagna che non può essere scalata in solitaria, ha bisogno della cordata. Non solo quando affronta i problemi, ma anche prima, quando i consigli delle persone in cui credi ti aiutano a costruire l'itinerario di salita. Quando si affronta una cima impegnativa, si parte dalle guide scritte, poi si consultano gli amici che l'hanno fatta, infine si dà ascolto alle persone che si incontrano al rifugio o al bivacco e che sono sempre prodighe di consigli. Poi giunge il tempo dell'azione. Sali con i tuoi amici - e allora è il consiglio della tua squadra a prevalere -, a volte anche da solo, e cerchi di mettere a frutto tutte le conoscenze che hai acquisito, qualsiasi possa essere la fonte cui hai attinto. Questo è un po' anche il principio della laicità politica che è fondato sulla disponibilità a tenere conto di ogni opinione, ogni punto di vista, cercando di garantirlo e fondando così uno dei principi della democrazia che deve consentire a ognuno di poter esprimere le proprie opinioni, con la consapevole certezza che chi alla fine assumerà la decisione conclusiva le considererà e ne terrà, eventualmente, conto. Anche in politica e nell'amministrazione della cosa pubblica, quando occorre prendere una decisione, bisogna mettere sul tavolo tutte le informazioni che si hanno e alla fine, sulla base dell'insieme delle conoscenze che in quel momento sono date, formulare il parere per la decisione. In democrazia, sul tavolo devono necessariamente esserci anche i pareri degli avversari politici che quando fai l'amministratore devi considerare con pari dignità perché sei il Sindaco di tutta la città, di tutti i cittadini, non solo di quella parte, pur maggioritaria, che ti ha votato. La conoscenza della montagna diventa così, in un certo senso, un modello comportamentale che aiuta ad affrontare le situazioni. Ed è allora che il richiamo della montagna degli spazi liberi e poco frequentati mi dà la possibilità di ritrovare me stesso, di rilassarmi, ma anche di mettere ordine nelle mie idee, di staccarmi dalla quotidianità, consentendomi di guardare con il necessario distacco a situazioni che, se affrontate nello stress del contingente, spesso non garantiscono l'assunzione delle decisioni migliori. | << | < | > | >> |Pagina 70Una volta, in occasione della partecipazione alla "Tuttadritta" sono stato abbordato, accompagnato e obbligato a parlare di cose anche impegnative, per otto chilometri, da un gruppo di No Tav, gli oppositori al progetto della linea per il treno ad alta velocità nella tratta Torino-Lione che correvano con le loro bandiere. Nonostante questo imprevisto riuscii a realizzare un buon 56'20" che migliorava comunque, anche se solo di poco, il mio tempo personale dell'edizione precedente. In qualche modo i No Tav lungo il Po hanno rappresentato un momento di legame con il passato al Musinè perché li incontrai anche in occasione di una delle salite alla mia cima preferita. Fu quando si celebrò la ricorrenza dei 120 anni della posa della croce. La manifestazione prevedeva la messa del Cardinale di Torino Severino Poletto in vetta. I giornali avevano ovviamente annunciato la mia presenza e si sapeva che per la salita sarei arrivato a Caselette dove avevo appuntamento con l'allora Sindaco Luciano Frigieri. Con grande cortesia e garbo ci punzecchiammo e bisticciammo, peraltro senza alcuna forma di violenza, neppure verbale. Discutemmo a lungo perché io penso che anche il TAV fa parte di quel discorso del rapporto città - montagna che vede inevitabilmente le valli alpine come corridoi di passaggio. La bassa Valle di Susa, secondo me, può poi addirittura trovare nell'occasione della nuova linea ferroviaria l'opportunità per un riordino territoriale. Se seguito con attenzione, potrà essere addirittura occasione di abbellimento paesaggistico. Intanto, in linea generale, a me sembrerebbe migliore un'ipotesi di un tracciato che seguisse l'autostrada, oppure il versante sinistro orografico che è più secco e che non interferisce con le falde acquifere che vanno salvaguardate. Non voglio in ogni caso entrare qui nel merito di un tema che richiede approfondimenti seri affidati a specifici tavoli di lavoro e decisionali. Tornando al Musinè, non ci sono più andato non perché posero poi la scritta «No Tav» sul fianco della montagna, ma perché trovai più comodo scegliere posti più vicini come le sponde del Po. Devo però dire che d'inverno, quando fa meno caldo, ci sono ancora andato e non escludo di tornarci nel futuro, quando non avrò più assilli amministrativi. | << | < | > | >> |Pagina 73Le Olimpiadi sono state una bellissima occasione per affermare una centralità alpina di Torino. Anche loro sono state contestate. Ed è stato uno sbaglio. Lo hanno fatto gruppetti chiusi di sinistra, che sono i più autoreferenziati e più distanti dalla gente normale. Non capire l'opportunità che le Olimpiadi hanno dato alla città, di vivere un momento straordinario e irripetibile è un segnale preoccupante. Per quanto poi si dicano cose anche giuste, questo atteggiamento segna un distacco pesante dai cittadini. Ti isola, impedendo di realizzare anche le idee giuste che a quel punto puoi continuare a dire, ma che diventa difficile se non impossibile realizzare. Quando è arrivata la fiaccola olimpica si è vissuto un momento speciale e chi si era messo in testa di contestare è stato cacciato dalla gente normale, dai torinesi, dalle mamme che a ombrellate avrebbero cacciato chiunque si fosse interposto al loro desiderio di partecipare alla festa. Abbiamo vissuto un'atmosfera di grande rilancio, di sogno. Alla fine, anche di concretezza. Sia in città che in montagna si è registrato un grande successo che ci ha lasciato un'eredità immateriale significativa, di partecipazione, di appartenenza, di orgoglio, che ha coinvolto tutta la comunità, torinese, ma anche alpina, delle nostre valli. Aver saputo ottenere e poi realizzare bene tutto, vivendolo nella maniera giusta, in una partecipazione collettiva, ha consegnato a tutta la comunità un grande stimolo, una speranza di futuro, su cui bisogna impostare le prospettive che ci stanno davanti. Occorre saper mantenere questa unitarietà di appartenenza, di identità che ha caratterizzato quel grande momento unificante. Certamente la quotidianità ci ripropone le diverse necessità, le diverse dinamiche, i tempi diversi. Occorre recuperare quelle prospettive che, in occasione delle Olimpiadi, ispirarono il laboratorio di idee che volle il compianto Rinaldo Bontempi partendo dalla constatazione che il rapporto dei territori alpini è più "caldo", in termini di partecipazione, con Torino che con le altre istituzioni locali. Al di là dell'eredità data dalle strutture fisiche, come il trampolino del salto, ma più ancora la pista da bob, che restano pesanti, che hanno anche un impatto ambientale serio e che rimangono difficili da gestire. Ne abbiamo consapevolezza, ma d'altra parte erano la condizione posta dai regolamenti internazionali per poter realizzare le Olimpiadi. Mi auguro possano cambiare. In ogni caso le Olimpiadi sono state un momento alto in cui siamo riusciti insieme, città e montagna, a dare il segno di come dovrebbero essere progetti che lavorino per lo sviluppo del territorio. | << | < | > | >> |Pagina 78Torino è certamente una capitale delle Alpi, ma è diversa e non può essere paragonata ad altre dimensioni territoriali come Innsbruck piuttosto che Aosta o Susa. Siamo una metropoli che assomma un milione e mezzo di abitanti e quindi abbiamo l'obbligo di riferirci a dimensioni adeguate. Dobbiamo guardare a spazi dimensionali territoriali di area più vasta, partecipando a una rete internazionale. Non sono tuttavia convinto di elucubrazioni da geografi economici come quelle che inventarono il cosiddetto "Diamante alpino" tra Torino, Lione, Grenoble e Ginevra. Hanno un senso come guide per le politiche, riferimenti generali, ma poi non è affatto semplice trasformarle in realtà amministrative. Servono ad indicare che non si deve solo guardare al Mediterraneo piuttosto che a Est o a Nord, ma che si possono creare aree economicamente forti anche in un raggio più ristretto di territorio europeo. Personalmente diffido un po' di queste costruzioni fatte a tavolino e della possibilità di istituzionalizzare nuovi assetti geoeconomici che abbiano le Alpi come collante. Ciò detto, sono fermamente convinto che Torino ha un ruolo culturale centrale per la montagna.
Fra Torino e la montagna ci sono ragioni
simboliche materiali molto forti che quasi le
identificano dal panorama, allo skyline,
all'immaginario collettivo in cui è difficile
che qualcuno proietti un'idea su Torino senza qualche segnale della montagna, al
fatto che qui sono nati dei veri e propri simboli della montagna.
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