Copertina
Autore Ted Chiang
Titolo Storie della tua vita
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008, Scritture 19 , pag. 294, ill., cop.fle., dim. 15x21x1,9 cm , Isbn 978-88-6222-030-9
OriginaleStory of your life and others
EdizioneTor | Tom Doherty, New York, 2002
TraduttoreGiovanni Lussu
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe fantascienza , narrativa statunitense
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Indice


Torre di Babilonia                           19

Capire                                       37

Divisione per zero                           79

Storia della tua vita                        99

Settantadue lettere                         155

L'evoluzione della scienza umana            211

L'inferno è l'assenza di Dio                215

Il piacere di ciò che vedi: un documentario 249


Note ai racconti                            289


 

 

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Pagina 9

Torre di Babilonia


Prima che la torre fosse eretta, ci sarebbero voluti due giorni per camminare da un'estremità all'altra della pianura di Shinar. Ora che la torre è lì, un uomo senza carico sale dalla base alla sommità in un mese e mezzo. Ma pochi scalano la torre a mani vuote; il passo dei più è rallentato dal carretto di mattoni che si tirano dietro. Dal giorno in cui un mattone viene messo su un carretto a quando viene preso per far parte della torre passano quattro mesi.


Hillalum aveva passato tutta la vita nell'Elam, e conosceva Babilonia solo in quanto essa acquistava rame. I lingotti venivano caricati su barche che scendevano il Karun fino al Mare Inferiore, quando confluisce nell'Eufrate. Hillalum e gli altri minatori viaggiavano via terra, insieme a una carovana di onagri carichi. Camminavano lungo un sentiero polveroso che scendeva dall'altipiano, attraverso le pianure, fino ai campi verdi tagliati da argini e canali.

Nessuno di loro aveva visto la torre prima. La si scorgeva quando erano ancora a leghe di distanza: una linea sottile come un filo di lino, che ondeggiava nell'aria tremolante innalzandosi dalla crosta di fango che era Babilonia. Come arrivarono più vicini, la crosta crebbe nelle potenti mura della città, ma avevano occhi solo per la torre. Quando abbassavano lo sguardo al livello della piana fluviale vedevano i segni che la torre aveva prodotto fuori dalla città: lo stesso Eufrate ora scorreva a lato di un letto vuoto e asciutto, scavato per fornire creta per i mattoni. A sud della città si vedevano file e file di fornaci non più accese.

Appena si avvicinarono alle porte della città, la torre apparve più massiccia di qualsiasi cosa Hillalum avesse mai immaginato: una sola colonna che doveva essere larga come un intero tempio ma che si elevava così in alto da restringersi fino a scomparire. Tutti loro camminavano con la testa all'indietro, socchiudendo gli occhi al sole. Nanni, l'amico di Hillalum, gli diede di gomito, intimorito. "Dobbiamo scalare questa cosa? Fino in cima?".

"Andare in su per scavare. Sembra... innaturale".

I minatori raggiunsero la porta centrale del muro verso occidente quando un'altra carovana ne stava uscendo. Mentre si raggruppavano nella sottile striscia d'ombra fornita dalle mura, il loro caposquadra Beli gridò alle guardie sulle torri: "Siamo i minatori ingaggiati nella terra di Elam".

Le guardie sembravano contente. Una gridò in risposta: "Siete quelli che devono scavare nella volta del cielo?".

"Siamo noi".


***


L'intera città era in festa. Era cominciata otto giorni prima, quando erano partiti gli ultimi mattoni, e sarebbe durata altri due giorni. Ogni giorno e ogni notte là città gioiva, danzava, banchettava.

Assieme agli operai delle fornaci c'erano i carrettieri, le cui gambe erano fasci di muscoli per aver scalato la torre. Ogni mattina una squadra cominciava la sua ascesa; saliva per quattro giorni, trasferiva il suo carico alla squadra successiva e il quinto giorno riscendeva nella città con i carretti vuoti. Una catena di queste squadre arrivava fino alla cima della torre, ma solo quella più in basso festeggiava con la città. Per quelli che vivevano sulla torre erano stati mandati su abbastanza vino e cibo, in tempo perché la festa potesse estendersi all'intero pilastro.

A sera Hillalum e gli altri minatori elamiti sedevano su sgabelli di terracotta davanti a un lungo tavolo carico di cibo, uno dei tanti collocati nella piazza della città. I minatori parlavano con i carrettieri chiedendo della torre.

Nanni disse: "Qualcuno mi ha raccontato che i muratori in cima alla torre piangono e si strappano i capelli quando un mattone viene lasciato cadere, perché ci vogliono quattro mesi per rimpiazzarlo, ma nessuno si dà pensiero se un uomo cade e muore. È vero?".

Uno dei carrettieri più ciarlieri, Lugatum, scosse la testa. "Oh no, è solo una storia. C'è una carovana di mattoni che vanno sulla torre; migliaia di mattoni raggiungono la cima ogni giorno. La perdita di un solo mattone non significa nulla per i muratori". E sporgendosi verso di loro: "Tuttavia c'è qualcosa che essi valutano più della vita di un uomo: una cazzuola".

"Perché una cazzuola?".

"Se un muratore fa cadere la sua cazzuola non può lavorare finché non ne viene portata su un'altra. Per mesi non può guadagnare il cibo che mangia, e così si trova in debito. La perdita di una cazzuola è causa di molti lamenti. Ma se un uomo cade e la sua cazzuola rimane, gli altri sono segretamente sollevati. Il successivo che fa cadere la sua cazzuola può prendere quella in più e continuare a lavorare, senza trovarsi in debito".

Hillalum impallidì e per un momento cercò convulsamente di contare i picconi che i minatori avevano portato. Poi tornò in sé: "Non può essere vero. Perché non sono state portate cazzuole di riserva? Il loro peso sarebbe stato niente a confronto dei mattoni che vanno su. E sicuramente la perdita di un uomo rappresenta un grave ritardo, a meno che non abbiano lassù uomini di riserva esperti nel mettere mattoni. Altrimenti devono aspettare che altri salgano fino in cima".

Tutti i carrettieri esplosero in una risata. "Di questo qui non possiamo prenderci gioco", disse Lugatum divertito. Si girò verso Hillalum: "E così comincerete a salire appena la festa finisce?".

Hillalum bevve dal suo boccale di birra. "Certo. Ho sentito che verranno anche minatori da una terra a occidente, ma non li ho visti. Sapete qualcosa di loro?".

"Sì, vengono da una terra chiamata Egitto, ma non estraggono minerali come fate voi. Sono cavatori di pietra".

"Anche in Elam caviamo pietra", disse Nanni, la bocca piena di carne di maiale.

"Non come fanno loro. Loro tagliano il granito".

"Granito?". Nell'Elam c'erano cave di calcare e alabastro, ma certo non di granito. "Sei sicuro?".

"I mercanti che hanno viaggiato in Egitto dicono che hanno piramidi e templi di pietra costruiti in calcare e granito, in grandi blocchi. E che nel granito tagliano statue gigantesche".

"Ma il granito è molto difficile da lavorare".

Lugatum scrollò le spalle: "Non per loro. Gli architetti reali ritengono che possano essere utili quando raggiungerete la volta del cielo".

Hillalum annuì. Poteva essere vero. Chi sapeva di cosa avrebbero avuto bisogno? "Li hai visti?".

"No, non sono ancora arrivati, ma li aspettiamo nel giro di pochi giorni. Potrebbero non arrivare prima che la festa finisca; e quindi voi elamiti salirete da soli".

"Tu ci accompagnerai, vero?".

"Sì, ma solo per i primi quattro giorni. Poi dovremo tornare indietro, mentre voi fortunati andrete avanti con un'altra squadra".

"Perché ci ritieni fortunati?".

"Mi piacerebbe fare la scalata fino alla cima. Una volta sono andato con le squadre più in alto e ho raggiunto l'altezza di dodici giorni, ma questo è il massimo a cui sono arrivato. Voi andrete molto più in alto". Lugatum sorrise amaramente. "Vi invidio, voi che toccherete la volta del cielo".

Toccare la volta del cielo. Romperla con i picconi. Hillalum si sentì a disagio all'idea. "Non c'è ragione di invidia...", cominciò a dire.

"Giusto", disse Nanni. "Quando avremo finito tutti potranno toccare la volta del cielo".

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Pagina 24

Appena continuarono a salire furono colpiti da quanto si trovassero vicini. Il biancore li aveva ingannati, rendendo la volta non percepibile finché improvvisamente essa apparve quasi proprio sulle loro teste. Ora invece di salire verso il cielo essi salivano verso una pianura uniforme che si stendeva senza fine in tutte le direzioni.

Tutti i sensi di Hillalum erano disorientati a quella vista. Talvolta, quando guardava in su, gli sembrava che il mondo si fosse in qualche modo capovolto, e che se i suoi piedi si fossero staccati da terra sarebbe precipitato sulla volta. Quando invece la vedeva al suo posto, il suo peso gli sembrava oppressivo. La volta era uno strato pesante come il mondo intero, e tuttavia privo di alcun supporto. Provava quel terrore che mai aveva avuto nelle miniere: che il soffitto gli crollasse addosso.

C'erano poi momenti in cui sembrava che la volta fosse una parete verticale di incredibile altezza, che gli si innalzava di fronte e che la terra indistinta e lontana dietro di lui fosse un'altra parete, e che la torre fosse un cavo teso tra le due. Oppure, peggio ancora, per un istante gli sembrò che non ci fosse né sopra né sotto, e il suo corpo non riconobbe la direzione in cui era orientato. Era come il panico dell'altezza, ma molto peggio. Spesso sentiva di volersi svegliare come da un sonno senza fine, per poi ritrovarsi grondante di sudore, con le dita contratte che cercavano di afferrare il pavimento di mattoni.

Anche Nanni e molti degli altri minatori avevano spesso gli occhi appannati, per quanto nessuno parlasse mai di cosa disturbava il loro sonno. La salita divenne più lenta, invece che più veloce come si era aspettato il caposquadra Beli: la vista della volta procurava disagi e rallentamenti piuttosto che sollecitudine, e i carrettieri regolari cominciarono a spazientirsi. Hillalum si chiedeva che tipo di gente venisse forgiata dal vivere in queste condizioni: Come poteva sfuggire alla follia? Crescevano abituati a questo? I bambini cresciuti sotto un cielo solido avrebbero strillato di paura se avessero visto la terra sotto i loro piedi?

Forse gli uomini non erano fatti per vivere in un luogo simile. Se la loro natura si ribellava all'avvicinarsi così tanto al cielo, allora gli uomini sarebbero dovuti rimanere sulla terra.

Quando raggiunsero la sommità della torre il disorientamento sparì, o forse ne erano diventati immuni. Qui, in piedi sulla piattaforma quadrata alla sommità, i minatori fissarono la scena più terrificante mai vista da esseri umani: lontano sotto di loro si stendeva una tappezzeria di terra e mare velata dalla foschia, che dilagava in tutte le direzioni a perdita d'occhio. Proprio sopra di loro era appeso il tetto del mondo, l'assoluto limite superiore del cielo, che rendeva il loro punto di vista il più alto possibile. Qui c'era tanto della creazione quanto se ne poteva afferrare in una volta sola.

I sacerdoti intonarono una preghiera a Jahweh; lo ringraziarono per aver permesso loro di vedere tanto e invocarono perdono per il loro desiderio di vedere di più.


E sulla cima vennero collocati i mattoni. Si sentiva l'odore denso e aspro del catrame che si levava dai crogiuoli infuocati nei quali i blocchi di bitume venivano liquefatti. Era l'odore più terreno che i minatori avessero sentito in quattro mesi e le loro narici cercavano disperatamente di catturarne un soffio prima che fosse portato via dal vento. Qui alla sommità, dove la melma che una volta fuoriusciva dalle crepe della terra diventava solida per tenere insieme i mattoni, la terra protendeva una parte di sé nel cielo.

Qui lavoravano i muratori, uomini sporchi di bitume che preparavano la malta e disponevano abilmente i mattoni, con precisione assoluta. Meno di chiunque altro essi potevano permettersi di provare vertigine nel guardare la volta, perché la torre non poteva allontanarsi neanche di un'unghia dalla verticale. Si stavano avvicinando alla fine del proprio compito, e finalmente, dopo quattro mesi di ascesa, i minatori erano pronti a iniziare il loro.

Gli egiziani arrivarono poco dopo. Erano scuri di pelle e di corporatura snella, con rade barbe sul mento. Avevano tirato carretti carichi di martelli di basalto, scalpelli di bronzo e cunei di legno. Il caposquadra, che si chiamava Senmut, discusse con Beli, il caposquadra degli elamiti, su come affrontare la volta. Gli egiziani costruirono una forgia con quello che si erano portati dietro, e così fecero gli elamiti, per rifondere gli attrezzi di bronzo che si sarebbero spuntati durante lo scavo.

La volta si trovava ora appena sopra le dita di un uomo con le braccia allungate in alto; al toccarla, saltando, era fredda e liscia. Sembrava fatta di granito bianco a grana fine, uniforme e assolutamente privo di segni. E questo appariva un problema.

Molto tempo prima Yahweh aveva scatenato il Diluvio, liberando le acque sia da sotto che da sopra; le acque dell'Abisso avevano fatto irruzione dalle sorgenti della terra e le acque del cielo erano precipitate dalle aperture nella volta. Ora gli uomini vedevano la volta da vicino, e non c'era neanche la minima fessura. Scrutarono in ogni direzione, ma nessuna apertura, nessuno sportello, nessuna linea di giunzione interrompeva la distesa di granito.

Sembrava che la loro torre avesse incontrato la volta in un punto tra quelli che dovevano essere i grandi serbatoi, il che era senz'altro una buona cosa. Se nei pressi ci fosse stata una qualche saracinesca, avrebbero potuto rischiare di danneggiarla e di far svuotare il serbatoio. Questo avrebbe significato pioggia per Shinar, ma fuori stagione e più fitta delle piogge invernali; e avrebbe causato inondazioni lungo l'Eufrate. La pioggia sarebbe presumibilmente finita quando il serbatoio si fosse svuotato, ma c'era sempre la possibilità che Yahweh li volesse punire e far continuare la pioggia fino a che la torre fosse crollata e Babilonia dissolta nel fango.

Il rischio c'era ancora, anche se non c'erano tracce visibili. Forse le aperture non erano percepibili a occhi mortali e c'era un serbatoio proprio sopra di loro.

Ci fu un gran discutere su quale fosse il modo migliore di procedere. "Di certo Yahweh non spazzerà via la torre", argomentò Qurdusa, uno dei muratori. "Se la torre fosse sacrilegio, Yahweh l'avrebbe già distrutta. E per tutti i secoli che abbiamo lavorato non abbiamo visto neanche il più piccolo segno del suo dispiacere. Se c'è un serbatoio, Yahweh lo prosciugherà prima che lo raggiungiamo".

"Se Yahweh avesse visto con tanto favore quest'impresa, nella volta ci sarebbe già una scala, pronta per noi", lo contraddisse Eluti, un elamita. "Yahweh non ci aiuterà né ci ostacolerà; se perforeremo un serbatoio, dovremo affrontare l'impeto dell'acqua".

Hillalum non poté più trattenere i suoi dubbi. "E se le acque fossero senza fine?", chiese. "Yahweh può anche non punirci, ma può lasciare che ci puniamo da noi stessi".

"Elamita", disse Qurdusa, "anche per essere un novellino dovresti saperne di più. La nostra fatica viene dal nostro amore per Yahweh: abbiamo fatto questo per l'intera vita e così hanno fatto i nostri padri per generazioni e generazioni. Uomini devoti come noi non possono essere giudicati così duramente".

"Anche se è vero che lavoriamo con le intenzioni più pure, questo non significa che abbiamo operato con saggezza. Gli uomini hanno veramente scelto la giusta via, quando hanno deciso di vivere le proprie vite lontano dal suolo dal quale hanno avuto forma? Yahweh non ha neanche mai palesato che la scelta fosse corretta. Ora siamo qui, pronti a bucare il cielo, anche se sappiamo che sopra di noi ci può essere l'acqua. Se la nostra scelta è sbagliata, come possiamo essere sicuri che Yahweh ci protegga dai nostri errori?".

"Hillalum suggerisce prudenza, e io sono d'accordo", disse Beli. "Dobbiamo essere sicuri di non provocare un secondo Diluvio sulla terra, e neanche una pericolosa pioggia su Shinar. Ho parlato con Senmut, l'egiziano, e mi ha spiegato i procedimenti che usano per sigillare le tombe dei loro re. Credo che questi metodi possano garantirci una certa sicurezza, quando cominceremo a scavare".

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Pagina 79

Divisione per zero


1

Dividere un numero per zero non produce come risultato un numero infinitamente grande. La ragione è che la divisione è definita come inversa della moltiplicazione: se dividi per zero, e quindi moltiplichi per zero, devi riottenere il numero dal quale sei partito. Tuttavia, moltiplicare l'infinito per zero produce solo zero, e nessun'altro numero. Non c'è nulla che possa essere moltiplicato per zero per produrre un risultato diverso da zero; quindi, il risultato di una divisione per zero è letteralmente "non definito".


1a

Renee stava guardando fuori dalla finestra quando la signora Rivas si avvicinò.

"In partenza dopo solo una settimana? Non è neanche un soggiorno. Il Signore sa che io non me andrò prima di molto tempo".

Renee si sforzò di sorridere cortesemente. "Sono sicura che non ci vorrà molto". La signora Rivas era una simulatrice sotto custodia; tutti sapevano che i suoi tentativi erano semplicemente gesti dimostrativi, ma gli infermieri la tenevano stancamente d'occhio per timore che ci riuscisse accidentalmente.

"Ah. Vorrebbero che me ne fossi andata. Lei sa che responsabilità si prendono se qualcuno muore quando si trova in questa condizione?".

"Sì. Lo so".

"Questa è l'unica cosa che li preoccupa, può ben dirlo. Sempre la loro responsabilità...".

Renee rimase in silenzio e riportò l'attenzione alla finestra, guardando la scia di un aereo che si arrotolava su sé stessa attraverso il cielo.

"Signora Norwood?", chiamò un'infermiera. "Suo marito è qui". Renee rivolse un altro cortese sorriso alla signora Rivas e uscì.


1b

Carl firmò ancora una volta, e finalmente le infermiere presero i moduli per chiudere la pratica.

Ripensò a quando aveva accompagnato Renee per il ricovero, a tutte le domande della prima intervista. Aveva risposto stoicamente a tutte. "Sì, è una professoressa di matematica. Può trovarla sul Who's Who".

"No, io sono un biologo".

E:

"Avevo lasciato una scatola di diapositive di cui avevo bisogno".

"No, non avrebbe potuto saperlo".

E, come mi aspettavo:

"Sì. È stato circa vent'anni fa, quando ero laureando".

"No. Cercai di buttarmi di sotto".

"No. Renee e io non ci conoscevamo".

E ancora, e ancora.

Ora erano convinti del suo buon senso e delle sue capacità, ed erano pronti a dimettere Renee e a indirizzarla a un programma di cura per pazienti esterni.

Riandando a quanto era successo, Carl era sorpreso, in modo del tutto astratto. Salvo che per un momento, non aveva provato nessuna sensazione di déjà vu durante tutta la vicenda. Per tutto il tempo aveva avuto a che fare con l'ospedale, i medici, le infermiere: l'unica sensazione che aveva provato era di leggero stordimento, di pura e noiosa routine.


2

C'è una ben nota "prova" che dimostra che uno è uguale a due. Comincia con qualche definizione: "Sia a = 1; sia b = 1". Si conclude con "a = 2a", vale a dire uno uguale a due. In mezzo, poco appariscente, c'è la divisione per zero, e a quel punto la prova è già uscita dai binari, rendendo nulle e vuote tutte le regole. Ammettere la divisione per zero consente di dimostrare non solo che uno è uguale a due, ma che due numeri qualsiasi - reali o immaginari, razionali o irrazionali - sono uguali tra loro.

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Pagina 87

6

Nel 1931 Kurt Gödel enunciò due teoremi. Il primo dimostra che la matematica contiene asserzioni che potrebbero essere vere, ma che sono intrinsecamente indimostrabili. Persino un sistema formale semplice come l'aritmetica consente proposizioni che sono precise, provviste di senso, che sono certamente vere, e che tuttavia non possono essere dimostrate per via formale.

Il suo secondo teorema dimostra che la pretesa di coerenza dell'aritmetica è proprio un'asserzione di questo tipo; non c'è alcun modo di provarla utilizzando gli assiomi dell'aritmetica. Il che vale a dire che l'aritmetica come sistema formale non può garantire che essa non produca risultati come "1 = 2"; contraddizioni come questa si potranno anche non incontrare mai, ma è impossibile dimostrare che non si possano verificare.


6a

Era entrato ancora una volta nel suo studio. Renee lo guardò dalla scrivania; con decisione, Carl cominciò a dire: "Renee, è ovvio che...". Lo interruppe subito. "Vuoi sapere cos'è che mi preoccupa? Okay, te lo dico". Renee tirò fuori un foglio bianco e lo mise sulla scrivania. "Abbi pazienza; ci vorrà solo un minuto". Carl aprì di nuovo la bocca, ma Renee lo fissò in silenzio. Inspirò profondamente e cominciò a scrivere. Tracciò una linea attraverso il centro del foglio, dividendolo in due colonne. In cima alla prima colonna scrisse "1", e sull'altra "2". Sotto scarabocchiò rapidamente alcuni simboli e ancora sotto li sviluppò in stringhe. Scrivendo digrignava i denti: sembrava che tracciasse i caratteri con le unghie, su una lavagna.

Circa a due terzi del foglio, Renee cominciò a scrivere righe sempre più corte. E ora il colpo da maestro, pensò. Si accorse di stare premendo troppo sulla carta; allentò la presa sulla matita. Alla riga successiva, le righe sulle due colonne diventarono della stessa lunghezza. Tracciò un grande "=" in cima al foglio, in mezzo.

Gli porse il foglio. Carl la guardò, mostrando che non capiva. "Guarda in cima". E così fece. "E ora guarda in basso".

Fece una smorfia. "Non capisco".

"Ho scoperto una procedura formale che consente a qualunque numero di essere uguale a qualunque altro. Questa pagina dimostra che uno e due sono uguali. Prendi due numeri qualsiasi; posso dimostrare che anche loro sono uguali".

A Carl parve di, ricordare qualcosa. "Si tratta della divisione per zero, giusto?".

"No. Non ci sono operazioni illecite, non ci sono termini definiti malamente, non ci sono assiomi indipendenti assunti solo implicitamente, niente. La dimostrazione non utilizza nulla di proibito".

Carl scosse la testa. "Aspetta un attimo. È ovvio che uno e due non sono la stessa cosa".

"Ma formalmente lo sono: la dimostrazione ce l'hai in mano. Tutto quello che ho utilizzato è all'interno di ciò che viene accettato come assolutamente indiscutibile".

"Ma hai ottenuto una contraddizione".

"Infatti. In quanto sistema formale, l'aritmetica è incoerente".


6b

"Non riesci a trovare l'errore, è questo che vuoi dire?".

"No, non mi stai ascoltando. Pensi che io semplicemente mi senta frustrata per una cosa così? Non c'è nessun errore nella dimostrazione".

"Intendi dire che c'è qualcosa di sbagliato in quello che viene accettato come indiscutibile?".

"Esattamente".

"Ma ne sei...". Si bloccò, ma troppo tardi. Lei lo fissava. Certo che ne era sicura. Pensò alle implicazioni.

"Vedi?", disse Renee. "Ho appena confutato gran parte della matematica: adesso è tutta priva di senso".

Era agitata, quasi sconvolta; Carl scelse le parole con cura. "Ma come puoi dirlo? La matematica funziona ancora. Il mondo scientifico e quello economico non stanno andando al collasso per questo risultato".

"È solo perché la matematica che usano è soltanto un trucco. È un artificio mnemonico, come contare sulle nocche per vedere quali mesi hanno trentun giorni".

"Non è la stessa cosa".

"E perché no? Adesso la matematica non ha più assolutamente nulla a che fare con la realtà. Butta pure via concetti come immaginario o infinitesimale. Adesso la somma di numeri interi non ha più nulla a che fare con il contare sulle dita. Uno più uno sulle dita sarà sempre due, ma sulla carta ti posso dare un numero infinito di risposte, e sono tutte valide, il che equivale a dire che sono tutte false. Posso scrivere il teorema più elegante che tu abbia mai visto, e non sarà altro che un'equazione senza senso". Fece una risata amara. "I positivisti dicevano che la matematica è tutta una tautologia. Sbagliavano: è tutta una contraddizione".

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Pagina 155

Settantadue lettere


Quando Robert era piccolo, il suo giocattolo preferito era un semplice pupazzo di creta che sapeva solo camminare in avanti. Quando i suoi genitori ricevevano gli ospiti in giardino, discutendo dell'ascesa al trono di Vittoria o delle riforme cartiste, Robert seguiva il pupazzo che marciava nei corridoi della casa di famiglia, girandolo a destra o sinistra quando c'era un angolo, o su sé stesso per farlo tornare indietro. Il pupazzo non obbediva a nessun comando né dimostrava alcun buonsenso; se incontrava un muro continuava a marciare fin quando braccia e gambe si trasformavano gradualmente in moncherini. A volte Robert lasciava che facesse così, per proprio divertimento. Quando gli arti del pupazzo erano completamente deformati, raccoglieva il giocattolo e ne estraeva il nome, arrestandone di colpo i movimenti. Poi impastava il corpo in una palla liscia, la appiattiva e ne ricavava una figura diversa: un corpo con una gamba storta, o più lunga dell'altra. Reinseriva il nome, e il pupazzo subito cadeva e si metteva a scalciare in tondo.

A Robert non piaceva molto modellare; gli piaceva esplorare i limiti del nome. Gli piaceva vedere quanto poteva modificare la forma del corpo prima che il nome non fosse più in grado di animarlo. Per risparmiare tempo nel modellarlo, al corpo aggiungeva di rado particolari decorativi; lo rifiniva solo quel tanto che bastava a provare il nome.

Un altro dei suoi pupazzi camminava su quattro zampe. Il corpo era ben fatto, un cavallo di porcellana dalla forma molto dettagliata, ma ciò che interessava a Robert era fare esperimenti col suo nome. Questo nome eseguiva l'ordine di partire e quello di fermarsi ed era in grado di evitare gli ostacoli, e Robert provò a inserirlo in corpi fatti da lui. Ma il nome richiedeva corpi di notevole precisione, e Robert non riuscì mai a modellarne uno di creta e a farlo animare. Preparava le gambe separatamente e poi le attaccava al corpo principale, ma non riusciva a saldare perfettamente le giunture; così il nome non riconosceva il corpo come un unico pezzo.

Robert esaminava i nomi stessi, cercando qualche semplice sostituzione che potesse distinguere un bipede da un quadrupede, o far sì che il corpo obbedisse a qualche comando elementare. Ma i nomi sembravano completamente diversi; su ogni frammento di pergamena erano scritte settantadue minuscole lettere ebraiche, disposte in dodici righe di sei, e per quel che poteva vedere Robert, l'ordine delle lettere era del tutto casuale.


Robert Stratton e i suoi compagni di quarta sedevano in silenzio mentre mastro Trevelyan passava tra le file di banchi.

"Langdale, cos'è la dottrina dei nomi?".

"Tutte le cose sono riflessi di Dio, e, ehm... tutti...".

"Risparmiaci i tuoi balbettii. Thorburn, tu sai dirci la dottrina dei nomi?".

"Come tutte le cose sono riflessi di Dio, così tutti i nomi sono riflessi del nome divino".

"E cos'è il vero nome di un oggetto?".

"Il nome che riflette il nome divino nello stesso modo in cui l'oggetto riflette Dio".

"E qual è l'azione di un vero nome?".

"Dotare il proprio oggetto di un riflesso del potere divino".

"Esatto. Halliwell, cos'è la dottrina dei segni?".

La lezione di filosofia naturale continuò fino a mezzogiorno, ma dato che era sabato era l'ultima della giornata. Mastro Trevelyan congedò la classe, e i ragazzi della scuola di Cheltenham se ne andarono per i fatti loro.

Dopo essersi fermato in dormitorio, Robert incontrò il suo amico Lionel ai margini del parco della scuola. "Dunque l'attesa è finita? Oggi è il gran giorno?", chiese Robert.

"Ho detto che lo era, no?".

"Allora andiamo". I due s'incamminarono, per percorrere il miglio e mezzo che li separava dalla casa di Lionel.

Durante il suo primo anno a Cheltenham, Robert conosceva Lionel solo di vista; Lionel era un esterno, e Robert, come tutti i convittori, diffidava degli esterni. Poi, per puro caso, Robert lo aveva incontrato durante le vacanze, a una visita al British Museum. Robert amava il museo: le fragili mummie e gli enormi sarcofaghi, l'ornitorinco impagliato e la sirena in salamoia, la parete irta di zanne di elefante e di corna d'alce e d'unicorno. Quel giorno era andato a vedere l'esposizione degli spiriti elementari: stava leggendo il cartellino che spiegava l'assenza della salamandra quando all'improvviso aveva riconosciuto Lionel, fermo accanto a lui, intento a scrutare l'ondina nel suo vaso di vetro. La conversazione aveva rivelato il loro interesse comune per le scienze, e i due ben presto erano diventati amici.


Quando furono in strada cominciarono a prendere a pedate un sasso, rimandandoselo tra loro. Lionel diede un calcio e rise quando il sasso schizzò tra le caviglie di Robert. "Non vedevo l'ora di uscire", disse. "Non avrei sopportato un'altra dose di dottrina".

"Perche si prendono la briga di chiamarla filosofia naturale, poi?", disse Robert. "Ammettano semplicemente che è un altro corso di teologia, e basta". I due avevano acquistato di recente la Guida per ragazzi alla nomenclatura, che spiegava come i nomenclatori non tirassero più in ballo Dio o il nome divino. Secondo il pensiero corrente, invece, esistevano un universo lessicale e un universo fisico, e unendo un oggetto a un nome compatibile si realizzavano le potenzialità latenti di entrambi. E non c'era un unico "vero nome" per un dato oggetto: a seconda della sua forma precisa, un corpo poteva essere compatibile con parecchi nomi, noti come i suoi "buoni nomi", e all'inverso un semplice nome poteva tollerare variazioni significative della forma corporea, come aveva dimostrato il pupazzo deambulante dell'infanzia di Robert.

Quando arrivarono a casa di Lionel, promisero alla cuoca che sarebbero rientrati presto per il pranzo e si diressero al giardino sul retro. Lionel aveva trasformato un capanno degli attrezzi del giardino di famiglia in un laboratorio che usava per fare esperimenti. Di solito Robert era un visitatore abituale del laboratorio, ma ultimamente Lionel si era dedicato a un esperimento che aveva tenuto segreto. Solo adesso era pronto a mostrare all'amico i risultati. Lionel lo fece aspettare all'esterno ed entrò per primo, poi lo invitò a raggiungerlo.

Su ogni parete del capanno correva una lunga mensola, ingombra di fiale, bottiglie di vetro verde tappate e campioni vari di rocce e minerali. Un tavolo decorato di macchie e bruciature dominava l'ambiente angusto e sosteneva l'apparecchiatura dell'ultimo esperimento di Lionel: un'ampolla di vetro, fissata a un supporto in modo che il fondo rimanesse immerso in un catino d'acqua, a sua volta posto su un treppiede sopra una lampada a olio accesa. Nel catino c'era anche un termometro a mercurio.

"Dài un'occhiata", disse Lionel.

Robert si chinò a osservare il contenuto dell'ampolla. Dapprima gli sembrò che fosse semplice schiuma, come quella che poteva gocciolare da una pinta di birra. Ma guardando meglio si rese conto che quelle che gli erano parse bolle erano in realtà interstizi di un reticolo luccicante. La schiuma era composta di homunculi: minuscoli feti seminali. Presi uno a uno i loro corpi erano trasparenti, ma tutti insieme formavano una schiuma pallida e densa di teste bulbose e arti filiformi. "Così te ne sei fatta una in un barattolo e hai conservato lo sperma al caldo?", chiese, e Lionel gli diede una spinta. Robert rise e alzò le mani in gesto di pace. "No, sinceramente, è una meraviglia. Come hai fatto?".

Placato, Lionel disse: "È veramente un gioco di equilibrismo. Devi sempre tenere la temperatura giusta, è ovvio, ma se vuoi che crescano devi anche mescolare gli elementi nutritivi nel modo giusto. Se la mistura è troppo fluida, deperiscono. Se è troppo densa, si agitano e cominciano ad aggredirsi".

"Mi stai prendendo in giro".

"È la verità; prova, se non ci credi. I conflitti nello sperma provocano la nascita di mostri. Se all'uovo arriva un feto ferito, allora il bambino che nasce è deforme".

"Pensavo fosse perché la madre ha preso uno spavento quando era incinta". Robert poteva appena notare le impercettibili contorsioni dei singoli feti. Si rese conto che la schiuma rimaneva un po' torbida proprio a causa di tutti i loro movimenti.

"Quello è solo per certi tipi di mostri, come quelli che hanno peli dappertutto o che sono coperti di macchie. I bambini che non hanno braccia o gambe, o che le hanno deformi, sono invece rimasti feriti quando erano ancora sperma. È per questo che non gli puoi dare un brodo troppo nutriente, soprattutto se non hanno dove andare. Diventano frenetici. E allora li puoi perdere in un attimo".

"Per quanto tempo puoi continuare a farli crescere?".

"Probabilmente non per molto", disse Lionel. "È difficile tenerli in vita se non possono raggiungere un uovo. Ho letto che in Francia ne hanno fatto crescere uno fino alla dimensione di un pugno, e avevano la migliore attrezzatura possibile. Io volevo solo vedere se riuscivo comunque a farlo".

Robert fissò la schiuma, ricordando la dottrina della preformazione nella quale mastro Trevelyan li aveva istruiti: tutte le cose viventi erano state create nello stesso istante, molto tempo prima, e le nascite di oggi erano solo ingrandimenti di quello che in precedenza non era percepibile. Per quanto sembrassero appena creati, quegli homunculi erano inimmaginabilmente vecchi; erano rimasti annidati in generazioni e generazioni di antenati per l'intera durata della storia umana, in attesa del momento di nascere.

Non erano solo loro ad aver aspettato, in realtà; anche lui stesso doveva aver fatto lo stesso prima della nascita. Se fosse stato suo padre ad aver fatto quell'esperimento, le minuscole figure che Robert vedeva sarebbero state i suoi fratelli e le sue sorelle non nati. Sapeva che non erano senzienti finché non raggiungevano un uovo, ma si domandò che pensieri avrebbero avuto se lo fossero stati. Immaginò la sensazione del proprio corpo, ogni osso e organo molle e chiaro come gelatina, incollato a miriadi di fratelli e sorelle identici. Come sarebbe stato, guardare attraverso palpebre trasparenti, rendersi conto che la montagna in lontananza era in realtà una persona, riconoscendola per il proprio fratello? E se avesse saputo che sarebbe diventato imponente e solido come quel colosso, se solo avesse potuto raggiungere un uovo? Non c'era da meravigliarsi che si accapigliassero.


Robert Stratton studiò nomenclatura al Trinity College di Cambridge. Lesse i testi cabalistici scritti secoli prima, quando i nomenclatori erano ancora chiamati ba'alei shem e gli automi golem, testi che avevano posto le fondamenta della scienza dei nomi: il Sefer Yezirah, il Sodei Razayya di Eleazar di Worms, l' Hayyei ha-Olam ha-Ba di Abulafia. Poi studiò i trattati alchemici che collocavano le tecniche della manipolazione alfabetica in un contesto matematico e filosofico più ampio: l' Ars Magna di Lullo, il De Occulta Philosophia di Agrippa, il Monas Hieroglyphica di Dee.

Imparò che tutti i nomi erano combinazioni di diversi epiteti, ognuno dei quali indicava un tratto o una capacità specifici. Gli epiteti venivano generati compilando tutte le parole che descrivevano il tratto desiderato: gli etimi e i loro derivati, sia di lingue vive che di lingue morte. Sostituendo e permutando selettivamente le lettere, si poteva distillare da quelle parole la loro essenza comune, che era l'epiteto di quel tratto. In certi casi, gli epiteti potevano essere usati come basi di triangolazioni, consentendo di ricavare epiteti di tratti che non erano descritti in alcuna lingua. L'intero procedimento risultava sia dall'intuizione che dalle formule; l'abilità a scegliere le migliori permutazioni di lettere era qualcosa che non si poteva insegnare.

Studiò le tecniche moderne di integrazione e fattorizzazione nominale. Per mezzo della prima, gli epiteti - concisi ed evocativi - venivano combinati insieme nella sequenza apparentemente casuale di lettere che formava il nome; con la seconda, al contrario, si scomponeva il nome nei suoi epiteti costitutivi. Non tutti i metodi di integrazione avevano una tecnica di fattorizzazione corrispondente: un nome potente poteva essere rifattorizzato per produrre un insieme di epiteti diversi da quelli usati per generarlo, e quegli epiteti spesso erano utili per questa ragione. Alcuni nomi resistevano alla rifattorizzazione, e i nomenclatori si sforzavano di sviluppare nuove tecniche per penetrarne i segreti.

In quel periodo la nomenclatura stava subendo una specie di rivoluzione. Fino ad allora c'erano state due classi di nomi: quelli per animare i corpi, e quelli usati come amuleti. Gli amuleti di salute venivano indossati come protezione dalle lesioni e dalle malattie, mentre altri amuleti rendevano una casa resistente all'incendio o una nave meno affondabile. Ultimamente, tuttavia, la distinzione tra queste categorie di nomi stava diventando incerta, con risultati eccitanti.

La nascente scienza della termodinamica, che stabiliva la convertibilità tra calore e lavoro, aveva recentemente spiegato come gli automi acquisissero la loro forza motrice assorbendo calore dall'ambiente. Utilizzando queste nuove conoscenze sul calore, un Namenmeister di Berlino aveva sviluppato un nuova classe di amuleti che consentivano a un corpo di assorbire calore da un luogo e di rilasciarlo in un altro. La refrigerazione ottenuta per mezzo di questi amuleti era più semplice ed efficiente di quella basata sull'evaporazione di un fluido volatile, e aveva immense applicazioni commerciali. Gli amuleti stavano inoltre facilitando il miglioramento degli automi: la ricerca di un nomenclatore di Edimburgo, sugli amuleti che impedivano agli oggetti di essere smarriti, lo aveva portato a brevettare un automa domestico in grado di riportare gli oggetti al loro posto.

Una volta laureato, Stratton si stabilì a Londra e ottenne un impiego come nomenclatore alla Manifattura Coade, uno dei principali costruttori di automi in Inghilterra.

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Il piacere di ciò che vedi: un documentario


                            La beauté n'est que la promesse du bonheur

                            Stendhal (De l'amour, 1822)



Tamera Lyons, studentessa del primo anno a Pembleton

Non ci posso credere. Avevo visitato il campus l'anno scorso, e non ne avevo sentito una parola. Adesso sto qui e viene fuori che si vuole fare della calli un requisito. Quello che cercavo di capire del college erano proprio le cose di questo tipo, sai, in modo da poter sembrare come chiunque altro. Se avessi saputo che ci sarebbe stata anche solo la minima possibilità di prenderla, probabilmente avrei scelto un altro college. Mi sento come se fossi stata imbrogliata.

La settimana prossima faccio diciott'anni, e quel giorno terrò la mia calli spenta. Se votano per farne un requisito, non so che farò; magari mi trasferisco, non so. Vorrei andare in giro a dire "votate no". Forse c'è qualche tipo di campagna per la quale potrei lavorare.


Maria deSouza, studentessa del terzo anno, presidentessa di "Studenti per l'eguaglianza dovunque" (Sed)

Il nostro obiettivo è semplice. La Pembleton University ha un Codice di condotta etica, che è stato scritto dagli studenti stessi, e che tutti i nuovi studenti si impegnano a seguire al momento dell'iscrizione. L'iniziativa da noi patrocinata aggiungerà al codice una clausola, che richiede di adottare la calliagnosia per tutto il tempo in cui rimarranno iscritti.

Ci ha spinto a far questo il rilascio di una versione del programma Visage per occhiali a visione interna. Si tratta del software che, quando guardi una persona, ti mostra come sarebbe stata se avesse fatto uso della chirurgia estetica. In certi ambienti è diventata una forma di intrattenimento, e un sacco di studenti del college la trovano offensiva. Quando se ne è cominciato a parlare come di un sintomo di un problema sociale più profondo, abbiamo ritenuto fosse arrivato il momento di promuovere l'iniziativa.

Il problema sociale più profondo è il "lookismo", il culto dell'apparenza. Per decenni la gente ha parlato di razzismo e sessismo, ma ancora adesso è riluttante a parlare di culto dell'apparenza. Eppure il pregiudizio contro le persone poco attraenti è incredibilmente pervasivo. La gente lo pratica persino se nessuno gliel'ha insegnato, cosa già abbastanza brutta; ma invece di combattere questa tendenza, la società moderna la rafforza attivamente.

Educare la gente, risvegliare la consapevolezza sul tema, tutto questo è essenziale ma non abbastanza. E qui entra in campo la tecnologia. Si può pensare alla calliagnosia come a una specie di maturità assistita. Ti permette di fare quello che tu sai di voler fare: ignorare la superficie, in modo da poter vedere più a fondo.

Pensiamo sia ora di portare la calli allo scoperto. Il movimento per la calli è stato a lungo una presenza secondaria nei campus, una delle tante cause particolari. Ma Pembleton non è come gli altri college, e credo che gli studenti siano realmente pronti per la calli. Se l'iniziativa ha successo qui, avremo stabilito un esempio per gli altri college, e alla fine per l'intera società.


Joseph Weingartner, neurologo

La condizione è quella che chiamiamo agnosia associativa, piuttosto che appercettiva. Ciò significa che essa non interferisce con la percezione visiva dell'individuo, ma solo con la capacità di riconoscere quello che vede. Un calliagnosico percepisce perfettamente i volti; egli, o ella, può vedere la differenza tra un mento sporgente e uno rientrato, tra un naso dritto e uno a uncino, tra una pelle liscia e una butterata. Semplicemente non prova alcuna reazione estetica a queste differenze.

La calliagnosia è resa possibile dall'esistenza di certe strutture nel cervello. Tutti gli animali possiedono criteri di valutazione del potenziale riproduttivo degli eventuali partner, e hanno sviluppato circuiti neurali per riconoscere questi criteri. L'interazione sociale umana è focalizzata sul volto, e quindi i circuiti sono finemente sintonizzati sul come il potenziale riproduttivo di una persona si manifesta attraverso il volto. Si sperimenta l'attività di questi circuiti con la sensazione che la persona sia bella o brutta, o qualcosa tra i due estremi. Bloccando i circuiti dedicati alla valutazione di queste caratteristiche, ecco che abbiamo la calliagnosia.

Dato che le mode cambiano così tanto, qualcuno trova difficile credere che ci siano indicatori assoluti della bellezza. Ma risulta che, quando si chiede a persone di culture diverse di sistemare foto di visi in ordine di bellezza, emergono con chiarezza criteri generali. Persino bambini molto piccoli mostrano la stessa preferenza per certi visi. Questo ci consente di identificare i tratti che sono comuni all'idea di bellezza di chiunque.

Il più ovvio è probabimente che la pelle sia liscia. È l'equivalente di un piumaggio brillante negli uccelli o di una pelliccia lucida nei mammiferi. Una buona pelle è il miglior indicatore di giovinezza e salute, in qualunque cultura. L'acne in sé non è un gran problema, ma fa pensare a problemi molto più gravi, ed è per questo che la troviamo sgradevole.

Un altro tratto è la simmetria; possiamo non essere consapevoli di piccole differenze tra il lato destro e il lato sinistro, ma le misurazioni rivelano che le persone considerate più attraenti sono anche quelle più simmetriche. Per quanto la simmetria sia ciò a cui tendono i nostri geni, è molto difficile raggiungerla nel corso dello sviluppo; diversi fattori ambientali - nutrizione insufficiente, malattie, parassiti - si risolvono in asimmetrie durante la crescita. La simmetria implica una buona resistenza a questi fattori.

Altri tratti hanno a che fare con le proporzioni del viso. Tendiamo a essere attratti da proporzioni facciali vicine alla media della popolazione. Ciò ovviamente dipende dalla popolazione di cui si fa parte, ma essere vicino alla media indica di solito un buon bagaglio genetico. Le sole deviazioni dalla media che si trovano attraenti sono le esagerazioni delle caratteristiche sessuali secondarie.

La calliagnosia, in sostanza, è l'assenza di una risposta a questi tratti, niente di più. I calliagnosici non sono ciechi alla moda o agli standard culturali relativi alla bellezza. Se va di moda il rossetto nero, la calliagnosia non ti impedirà di vederlo, per quanto potrai non accorgerti della differenza tra visi più o meno graziosi che lo portano. Se tutti quelli che frequenti prendono in giro i nasi prominenti, tu certo li saprai riconoscere.

La calliagnosia, quindi, non può per sé stessa eliminare le discriminazioni basate sull'apparenza. Quello che fa, in un certo senso, si situa prima delle discriminazioni: rimuove l'innata predisposizione, la tendenza a che queste discriminazioni emergano. In questo modo, se vuoi insegnare alla gente a ignorare l'apparenza, non hai di fronte un cammino tutto in salita. Idealmente, dovresti partire da un ambiente dove tutti hanno adottato la calliagnosia, e quindi socializzare il non tener conto dell'apparenza.


Tamera Lyons

La gente qui mi chiede come è stato andare alla Saybrook, crescere con la calli. A essere onesti, quando sei giovane non è un gran problema; sai come si dice, in qualunque posto sei cresciuta, ti sembra normale. Sapevamo di non poter vedere qualcosa che gli altri vedevano, ma era solo una curiosità.

Con i miei amici, per esempio, guardavamo i film cercando di capire chi era bello e chi no. Avremmo detto di poterlo fare, ma in realtà non ci riuscivamo, non guardando i volti. Partivamo dal protagonista principale e dal suo amico; e si sapeva che il protagonista doveva essere più bello dell'amico. Non è sempre vero al cento per cento, ma potevi capire se stavi guardando il tipo di film in cui il protagonista poteva non essere il più bello.

È quando diventi più grande che la cosa comincia a scocciarti. Se andavi in giro con ragazzi di altre scuole, potevi sentirti strana perché tu avevi la calli e gli altri no. Nessuno ci faceva caso più di tanto, ma ti faceva venire in mente che c'era qualcosa che non potevi vedere. E quindi cominci a prendertela con i tuoi genitori, perché ti hanno tenuta fuori dal mondo reale. Non è che con loro ci fosse molto da dire, comunque.


Richard Hamill, fondatore della Saybrook School

La Saybrook venne fuori come effetto della nostra cooperativa di abitazione. A quel tempo avevamo circa due dozzine di famiglie, che cercavano di formare una comunità basata su valori condivisi. Stavamo tenendo una riunione sulla possibilità di metter su una scuola alternativa per i nostri bambini, e uno dei genitori accennò al problema dell'influenza dei media sui suoi figli. Tutti gli adolescenti stavano chiedendo interventi di chirurgia estetica, in modo da poter sembrare come i modelli della moda. I genitori facevano del loro meglio, ma non si possono isolare i figli dal mondo; vivono in una cultura ossessionata dall'immagine.

Era più o meno l'epoca in cui si stavano risolvendo gli ultimi problemi legali relativi alla calliagnosia, e abbiamo cominciato a parlarne. La vedevamo come un'opportunità. Che sarebbe successo se avessimo potuto vivere in un ambiente dove la gente non si giudica l'un l'altro secondo le apparenze? Se avessimo potuto far crescere i nostri figli in quell'ambiente?

La scuola cominciò solo per i figli delle famiglie della cooperativa, ma si venne a sapere di altre scuole basate sulla calliagnosia, e di lì a poco qualcuno venne a chiedere se poteva iscrivere i figli pur non facendo parte della cooperativa. Alla fine istituimmo la Saybrook come scuola privata, distinta dalla cooperativa, e uno dei requisiti fu che i genitori dovevano adottare la calliagnosia finché i figli fossero iscritti. Era nata una comunità basata sulla calliagnosia, e tutto per effetto della scuola.


Rachel Lyons

Il padre di Tamera e io ci pensammo un bel po' sopra, prima di iscriverla. Parlammo con la gente della comunità, e trovammo che ci piaceva il loro approccio all'educazione; ma fu la visita alla scuola che realmente mi convinse.

La Saybrook aveva un numero più alto del normale di studenti con qualche anormalità facciale, come cancro alle ossa, ustioni, e condizioni congenite. I genitori li avevano spostati qui per prevenire discriminazioni da parte degli altri bambini, e la cosa funzionava. Ricordo che nel corso della mia prima visita ho visto una classe di dodicenni che votava per il proprio presidente, ed era stata eletta una ragazzina che aveva un lato del viso tutto coperto da una cicatrice da ustione. Era straordinariamente a suo agio, ed era popolare tra ragazzini che probabilmente in un'altra scuola l'avrebbero ostracizzata. E ho pensato che quello era il tipo di ambiente in cui volevo che mia figlia crescesse.

Si è sempre detto che le ragazze sono valutate in base alla loro apparenza; i loro risultati sono sempre valutati di più se sono carine e meno se non lo sono. Ancora peggio, ci sono ragazze che quindi si convincono di poter affrontare la vita confidando nel proprio aspetto, e perciò non sviluppano mai la mente. Volevo tenere Tamera fuori da questo tipo di influenze.

Essere graziosa è una qualità fondamentalmente passiva; anche quando ci lavori sopra, lavori sull'essere passiva. Volevo che Tamera si valutasse per quello che poteva fare, sia con la mente che con il corpo, e non in termini di quanto fosse decorativa. Non volevo che fosse passiva, e sono contenta di poter dire che non lo è.

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