Autore Alessandra Chiappori
Titolo Torino di carta
SottotitoloGuida letteraria della città
Edizioneil Palindromo, Palermo, 2019, Le città di carta 5 , pag. 222, cop.fle., dim. 15x19x1,8 cm , Isbn 978-88-98447-59-6
PrefazioneAlice Avallane
LettoreFlo Bertelli, 2020
Classe citta': Torino , storia letteraria












 

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Indice


Prefazione di Alice Avallane                                          7

Per la vista degli occhi e della mente (Edmondo De Amicis)           11

La zia che tutto vede e capisce (Natalia Ginzburg)                   29

Un amanuense in via Biancamano (Cesare Pavese)                       45

Uccel di bosco tra portici e nebbie (Italo Calvino)                  63

Scriba di atomi (Primo Levi)                                         81

Città livida e notturna (Giovanni Alpino)                            99

Torino è un topos (Fruttero & Lucentini)                            119

Una rete di fili intrecciati (Margherita Oggero)                    143

Da che parte si guarda la verità
(Enrico Pandiani, Christian Frascella)                              161

I fantasmi della fabbrica (Alessandro Perissinotto)                 179

Il cielo su Torino (Giuseppe Culicchia, Enrico Remmert)             195

E alla fine?                                                        211


Nota bibliografica                                                  215
Gli scrittori di Torino di carta                                    219
La mappa letteraria di Torino                                       221


 

 

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Pagina 11

Per la vista degli occhi e della mente
Edmondo De Amicis



Certo, un Italiano che arrivi qui coll'idea di trovare una città uggiosa, e un po' triste, come certi stranieri la definiscono - un villaggio ingrandito - un mucchio di conventi e di caserme - deve provare un disinganno piacevole, uscendo dalla stazione di Porta Nuova, in una bella mattinata di primavera. Alla vista di quel grande Corso, lungo quanto i Campi Elisi di Parigi, chiuso a sinistra dalle Alpi, a destra dalla collina, davanti a quell'infilata di piazze, a quelle fughe di portici, a quel verde rigoglioso, a quella vastità allegra, piena di luce e di lavoro, deve esclamare: - È bello - o tirare almeno uno di quei larghi respiri che equivalgono ad una parola d'ammirazione.

Quale effetto fa Torino su chi la vede per la prima volta? Se lo domanda Edmondo De Amicis in Ricordi del 1870-1871, rieditato nel 1889 come parte di Le tre capitali insieme a Firenze e Roma. Torino ha ancora lo spirito della capitale agli occhi dello scrittore: paragonata a Parigi per vastità, ha vissuto il Risorgimento e lo porta scritto sui monumenti, nella toponomastica e nelle consuetudini dei suoi abitanti. È una capitale che ha ceduto il ruolo, ma che è rimasta città viva, pulsante e bella: «in poche altre città i luoghi e i monumenti più memorabili si trovano meglio disposti per colpire tutt'insieme lo sguardo e la mente».

La Torino di De Amicis è una visione da cui partire per indagare la Torino di carta: lo scrittore la osserva per intero, la percorre mappandola, ne scopre i dettagli, ne conosce persone e tipi umani proponendone un ritratto che, datato fine Ottocento, appare ancora fresco. A bordo del tranvai, il suo sguardo individua e mette a nudo alcuni caratteri che, allora come adesso, rendono Torino riconoscibile tra architetture, luoghi, quartieri.

Costretto a star sempre dentro al carrozzone, scopro che riescono bellissimi, all'apparire improvviso del sole, certi prospetti della città, veduti nel vano delle due porticine che li racchiudono come in una cornice oscura, giovano all'occhio come il far cannocchiale della mano davanti a certi particolari d'un quadro. Quante piccole maraviglie!

Idea modernissima datata 1899, La carrozza di tutti - omnibus, appunto - è un libro ibrido, un racconto di personaggi dentro il racconto vivo di una città: De Amicis se ne serve per mappare Torino, ne restituisce itinerari, scorci, ne prende le misure tra centro, quartieri, cinta daziaria. Un intero anno, il 1896, passato a bordo, girovagando. Autentico viaggiatore urbano, da questa posizione privilegiata vede e racconta vie, palazzi, statue, chiese, persone ed eventi, raccoglie occhiate e propone analisi delle contraddizioni sociali della Torino dell'epoca.




Una mappa dal tranvai



Il libro mi si disegnò nel pensiero lucidamente: scrivere quello che vedevo sul tranvai, giorno per giorno, per il corso d'un anno, dipingendo le persone più notevoli che v'avrei riveduto più sovente; rappresentare le relazioni e l'azione che esercitano una sull'altra, mescolandovisi, le varie classi sociali, senza forzare il vero ad alcun fine; ritrarre, insomma, il più fedelmente possibile, quella varia commedia umana, sparsa e sfuggente per quindici lunghissime linee, che, intersecandosi in cento punti, costituiscono nella circolazione generale della vita cittadina una circolazione più rapida, e quasi una vita volante al di sopra della popolazione che cammina.

Reportage, romanzo, guida: La carrozza di tutti nell'idea di De Amicis è «una modestissima Guida, ma scritta con amor di figliuolo e di poeta, nella quale si succedessero di volo i quartieri, i monumenti, le memorie, le colline, le montagne, nella luce e nei colori diversi di ogni ora e di ogni stagione, come si succedono, fuggendo, allo sguardo di chi sta sul tranvai».

Nel 1896 le società di omnibus su rotaia trainati da cavalli in città erano la Belga e la Torinese, destinate a essere elettrificate da lì a poco, fatto che De Amicis non perde di vista collocando in tranvai un divertito ingegner Galileo Ferraris, intento ad ascoltare le paure popolari sull'arrivo dei cavi elettrici. In piazza Statuto, luogo dove lo scrittore abitò dopo la casa di via Micca (l'abitazione è la stessa di Emilio Salgari, come ricorda la targa al numero 18, ed è anche casa del cavalier Bianchini del Primo Maggio), si incrociavano e si incrociano oggi i mezzi di trasporto. La stazione di Porta Susa poco distante è la seconda della città, a fine Ottocento vi partivano i mezzi della via ferrata (ne farà uso Enrico di Cuore): oggi ingloba anche la stazione della metropolitana, e poco distante si trova il terminal bus.

Le linee al tempo di De Amicis sono quindici, l'autore le frequenta e le racconta tutte: quella di Vinzaglio, quella dei Viali, la linea del Valentino e quella del Foro Boario (nella parte occidentale di Corso Vittorio Emanuele II, oggi non più esistente), e ancora il tranvai del Martinetto (parte del quartiere di San Donato), quello della barriera di Nizza e di Casale. Eccolo in azione:

Svolta il carrozzone nell'ariosa e romita piazza Venezia, riesce per via Alfieri dietro al gran cavallo morente del duca di Genova in mezzo ai palazzi multicolori di piazza Solferino, passa accanto al La Farina pensieroso, corre lungo l'Arsenale fumante e sonoro, e aperta la folla chiassosa delle scolaresche di via Oporto, e salutato in piazza San Quintino il vecchio Paleocapa sonnecchiante sulla sua poltrona di marmo, sbocca nell'allegra ampiezza di corso Vittorio Emanuele.

Paleocapa è ancora li, nella piazza che oggi si chiama come lui, e anche se piazza Venezia non esiste più, soffocata dai palazzi, e corso Oporto ha preso nel Novecento il nome di Corso Matteotti, non è difficile visualizzare i tragitti snocciolati da De Amicis. Solo, per le strade non ci sono cavalli, spesso nemmeno i binari dei tram, e talvolta le vie sono interdette al traffico.

Accade che De Amicis sia così affascinato dal movimento del tranvai attraverso la città da descriverne per intero la traiettoria. Succede per la linea del Ponte Isabella, che confessa essere la sua preferita:

Attraversato il centro della città, e percorso un gran tratto di quella interminabile via Cristina di cui sfugge il fondo allo sguardo, si svolta nel viale ridente di Raffaello, e di là si esce all'aperto, fra la fuga dei nuovi edifici universitari, ai quali i camini altissimi dalla forma di minareti danno l'aspetto d'un enorme falanstero orientale, e l'ultimo lembo del grande parco del Valentino, che si ristringe lungo la riva e va a finire con un bacio nel fiume.

Se qui siamo su corso Massimo d'Azeglio, alle spalle del quartiere di San Salvarlo, va specificato che i cocchieri all'epoca transitavano anche per via Dora Grossa, oggi la pedonale via Garibaldi, lungo rettilineo tra le Alpi e Palazzo Madama, e scendevano verso il Po, lungo corso Cairoli, svoltando dove oggi passa il tram in via Bonafus, salutando il Conte Cavour nel suo monumento di piazza Carlina - piazza Carlo Emanuele, già allora chiamata, come da inossidabile abitudine torinese, con l'appellativo dato al sovrano effeminato - e infilandosi in via Maria Vittoria e in via Lagrange.

Di una città che descrive in lungo e in largo con le sue nervature, De Amicis segnalerà anche i confini, percorrendo diversi tragitti fino ai capolinea - le barriere di Nizza, o di Casale - che portano in scenari di aperta campagna nei pressi della cinta daziaria torinese, spazio dove nel Novecento sono cresciute le periferie di Mirafiori, Vallette, Falchera, Barriera di Milano, mondi della soglia urbana in costante ridefinizione rispetto al centro.

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Pagina 45

Un amanuense in via Biancamano
Cesare Pavese



Il luogo della tua persona è certo il viale torinese signorile e modesto, primaverile e estivo, calmo, discreto e vasto, dove s'è fatta la tua poesia. La materia veniva da molte parti, ma qui trovava forma. Questo viale, e il caffeuccio sul viale, fu la tua camera, la finestra sulle cose. Quando ti torna l'istinto di poetare cerchi di questi luoghi.


Cesare Pavese è Torino. Nella città arriva dal paese delle Langhe dove è nato, e nella città costruisce il suo intero mondo, dando forma al suo sguardo sulle cose e scegliendo di togliersi la vita. La Torino di Pavese è collina e fiume, ma anche una scrivania in via Biancamano: «Pavese era l'immagine stessa del professore, del bibliomane sedentario, anche se andava in barca sul Po, e girava la collina come un lupo irritato. Pavese era il suo tavolo di lavoro, le pile di bozze che demoliva: pignolo, meticoloso» dirà di lui Ernesto Ferrero.

Tanti Pavese e uno solo: quello delle sere d'estate in giro per la città, tra locali, balli, bevute, ragazze, quello del liceo d'Azeglio e degli amici einaudiani, il supplente, il dissidente. Altrettante le facce di Torino: quartieri, vie, fughe senza mai abbandonare l'idea di città. Perché Torino è

Città della fantasticheria, per la sua aristocratica compitezza composta di elementi nuovi e antichi; città della regola, per l'assenza assoluta di stonature nel materiale e nello spirituale; città della passione, per la sua benevola propizietà agli ozi; città dell'ironia, per il suo buon gusto nella vita; città esemplare, per la sua pacatezza ricca di tumulto. [...] Città infine, dove sono nato spiritualmente, arrivando di fuori: mia amante e non madre né sorella.




Il piacere dell'acqua



Tra i luoghi di Torino preferiti da Pavese c'è il Po. Lo scrittore amava andare in barca sul fiume, e così fanno molti dei personaggi che racconta, a partire dall'io narrante di Il diavolo sulle colline.

In quell'estate andavo in Po, un'ora o due, al mattino. Mi piaceva sudare al remo e poi cacciarmi nell'acqua fredda, ancora buia, che entra negli occhi e li lava. Andavo quasi sempre solo, perché Pieretto a quell'ora se ne dormiva. Se veniva anche lui, mi governava la barca quando io nuotavo. Si risaliva a forza di remo la corrente sotto i ponti, lungo le rive murate, e si sbucava tra gli argini e le piante, sotto il fianco della collina. La collina sovrastante era bella al ritorno, fumando la prima pipa, e per quanto fosse giugno, a quell'ora la velava ancora un'umidità, un fiato fresco di radici.

Il Po è un passatempo da condividere con gli amici: «anche Pieretto, quando veniva con me, si godeva la mattinata - racconta - scendendo a Torino sul filo della corrente, gli occhi lavati dal sole e dai tuffi, asciugavamo distesi, e le rive, la collina, le ville, le chiazze d'alberi lontano, s'incidevano nell'aria. - Uno che facesse tutti i giorni questa vita, - diceva Pieretto, - diventerebbe un animale. Basta guardare i sabbiatoci...».

Sul Po infatti, fino al dopoguerra, lavorano i sabbiatori, cui Pavese dedica la poesia Crepuscolo di sabbiatoci del Po in una casa in cima a una collina, con le sue incisive immagini delle barche che, cariche di sabbia, scivolano lungo il fiume, un uomo a prua con una sigaretta accesa nella notte, unica luce insieme ai lampioni di Torino, scintillante sul fiume. Una città e un mestiere che non esistono più:

Non giocavano i sabbiatori che, nell'acqua fino alle cosce, issavano ansando vangate di melma e le rovesciavano nel barcone. Dopo un'ora, due ore, questo scendeva ricolmo, a pelo d'acqua, e l'uomo, magro e annerito, con un panciotto su torso nudo, governava lentamente col palo. Scaricava la sua sabbia in città, dopo i ponti, e risaliva lentamente, risalivano a gruppi sotto il sole sempre più alto. Nell'ora che io lasciavo il fiume, avevano già fatto due o tre viaggi.

Per i tre protagonisti il fiume non è fatica ma svago e piacere: «il Po mi scusava da mare» spiegherà il narratore quando resterà ad agosto solo in città. Ed è meditazione, un rifugio dove mettersi alle spalle i rumori della città e riflettere, come farà Pablo, il protagonista de Il compagno, che va "a Po" e racconta: «mi sedevo su un asse e guardavo la gente e le barche. Era un piacere stare al sole la mattina».




Notti d'estate



Eravamo molto giovani. Credo che in quell'anno non dormissi mai. Ma avevo un amico che dormiva meno ancora di me, e certe mattine lo si vedeva già passeggiare davanti alla Stazione nell'ora che arrivano e partono i primi treni. L'avevamo lasciato a notte alta, sul portone; Pieretto aveva fatto un altro giro, e visto l'alba addirittura, bevuto il caffè.

Molte scene della Torino giovane, spericolata e in cerca di avventure di Pavese sono ambientate in estate, di notte. Il momento perfetto, oggi come allora, per uscire, vivere. Se oggi i quartieri della movida, nel loro costante reinventarsi sono passati dal Quadrilatero, ai Murazzi, per finire tra San Salvario e Vanchiglia, negli anni Trenta e Quaranta le osterie e i balli erano in collina. Ecco dunque le fughe oltre Po, a cercare divertimenti e corteggiamenti, e le rocambolesche nottate nella città estiva, deserta e popolata dalla gente della notte. I ragazzi de Il diavolo vagano tra cinema e locali a cercare ragazze e a ridere, si fermano su una panchina del lungo Po aspettando le prime luci, guardando attaccare manifesti, girando i mercati.

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Pagina 119

Torino è un topos
Fruttero & Lucentini



Dopo tanti anni che ci abitava, lui sapeva ormai che la leggendaria monotonia della città era un'invenzione di osservatori superficiali, o piuttosto un mascheramento da cui l'ingenuo e l'impaziente si lasciavano ingannare come dal neutro pelame mimetico di un animale appiattato. Sotto quell'apparenza così ovvia, di carta messa in tavola; Torino era una città per intenditori.

Per la coppia del giallo, Fruttero e Lucentini , Torino è la scenografia perfetta per divertirsi a raccontare le contraddizioni e le pieghe del composto understatement sabaudo. Apripista del genere in Italia, i gialli torinesi della coppia F & L sono acuti e mai banali racconti di vita urbana e intrecci di storie e personaggi sul grande tabellone della città. Piazze auliche attraversate da un traffico oggi impensabile, case antiche e luoghi di cultura, ma anche squallide periferie, cavalcavia notturni e grigi palazzoni della Fiat: Torino sfoglia le sue pagine, un fondo teatrale mobile e cangiante che solletica sarcastiche considerazioni sul carattere particolare di una città che sa nascondersi mostrandosi. Dietro ogni facciata c'è infatti un volto non previsto, la polvere è attentamente scostata dalla ribalta con savoir-faire misurato, come si conviene nel regno della discrezione, lo spirito pulsante della città, tra i seducenti segreti offerti a quanti non sappiano capirla.

Torino è una città fiera e quasi straniera al resto del Paese, dove tutto è nato, come ricorda uno dei personaggi: dall'unità nazionale all'automobile, dal cinema alla radio alla tv, senza dimenticare il cioccolatino di lusso, il libro Cuore e gli intellettuali di sinistra. In questo contesto, le facce della realtà si moltiplicano: un labirinto di specchi. Torino si beffa con sotterranea ironia delle vite dei personaggi, in una commedia dove l'umorismo non dovrebbe avere spazio, «ma quante volte ti veniva il dubbio che l'intera città ci stesse, al contrario, sempre dentro?».

Mondi sfaccettati e complessi si agitano dietro i tram sferraglianti e i lavori degli operai per strada, c'è l'immigrazione meridionale in una città che si lascia alle spalle il boom economico e c'è una società che cambia in una geografia urbana che resta riconoscibile. «Su e giù per via Cernaia, le auto sollevavano baffi di fanghiglia bruna, e sotto i portici pochi passanti erano misteriosamente riusciti a lasciare migliaia di orme bagnate, che s'intersecavano e sovrapponevano in tutte le direzioni. Seguire anche solo uno di quei confusi percorsi sarebbe stato impossibile». Il commissario Santamaria, da osservatore dell'agire umano, non torinese ma in comunione con il cuore della città, dovrà districare gomitoli tortuosi alla ricerca della verità.

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Pagina 195

Il cielo su Torino
Giuseppe Culicchia, Enrico Remmert



Per conoscere un luogo bisogna conoscerne i fantasmi, altrimenti ci limitiamo a vedere solo quello che ci hanno insegnato a vedere, solo quello che abbiamo imparato a credere che quel luogo contenga.

Gli anni Novanta, gli anni Duemila, le Olimpiadi, la Torino turistica: trent'anni di cambiamenti, di movimenti fatti di locali, musica, parole, scrittori che osservano e filtrano una realtà inceppata, restituendo il profilo di una Torino complessa. È l'immagine della città che raccontano Giuseppe Culicchia ed Enrico Remmert , i cui personaggi si muovono in una dimensione urbana sospesa tra la fine di un'epoca e il possibile inizio di un'altra, inciampata nella disillusa o ironica presa di coscienza della duplicità delle situazioni e dei luoghi, affacciata sul vuoto di senso e di identità; la stessa mancanza patita dai personaggi che si tuffano nella movida alla ricerca di una direzione smarrita dalla città stessa.

Ancora una volta, le stratificazioni definiscono il volto di Torino, una «Giandujopoli» dove scorrono fiumi di droga, indolenza, affarismo e dove forse solo fermarsi, osservare e ricostruire il puzzle potrà impedire di scivolare ancora. I romanzi colgono il fallimento nel racconto della nuova Torino dell'intrattenimento: ci sono la disillusione, le risate consapevoli, l'amarezza, la parodia portata alla distopia. Accade in Brucia la città, dove Torino è un circo in cerca di una nuova mission che la salvi dal grigiore post Fiat, ne sono attori svuotati Iaio, Zombi e Boh: «diciamoci la verità: Torino sa di vecchio, di città industriale, grigia, noiosa. Funzionava una volta, oggi non più. Ecco dunque l'esigenza di trovare un'alternativa al passo con i tempi. Fresca, giovane, accattivante». Gianduiottiland, Bicerinville, Juventus City, stereotipi per una città che non sa più trovarsi e si lascia travolgere da cicloni di superficialità e fantasmi.

Le contraddizioni non si cancellano sotto la vernice fresca di una città impegnata a cercare un nuovo senso, lo sa Walter di Tutti giù per terra, emblema di una generazione precaria e consapevole della complessità. «Un altro giorno un'altra ora ed un momento, perso nei miei sogni con lo stesso smarrimento» cantano i Subsonica, tra i protagonisti della scena musicale filtrata nelle narrazioni dell'epoca d'oro dei Murazzi. Eppure «il cielo su Torino sembra ridere al tuo fianco», riflettendo gli interrogativi e restituendo bellezza nella complessità. «Chissà se hanno occhi da pittore, se riescono ad apprezzarla, la tua Torino, se riescono a coglierla: ordinata come un teorema, astratta come una scacchiera, enigmatica come una cabala...» si domanda il Vittorio di Enrico Remmert.




Un viaggio a casa



«Questa è una guida a Torino. E Torino è Torino. Non è una città come un'altra». Libro cult per torinesi e turisti, Torino è casa mia è la smaliziata guida di Giuseppe Culicchia alla scoperta di una città che, come casa, sa essere confortevole, cara, bella, e avere insieme angoli dove si rimandano lavori e la polvere si accumula.

Torino ha un ingresso, Porta Nuova, che scivola nel corridoio di via Roma fino a toccare la cucina di Porta Palazzo e il salotto elegante di piazza San Carlo; la sala da pranzo secondo Culicchia è il Quadrilatero, mentre alle Vallette l'autore individua la camera da letto. Il Balon non potrebbe che essere un ripostiglio, e i Murazzi un bagno, da cui accedere al terrazzo, il parco del Valentino. Non mancano nemmeno la cantina, via Barbaroux, e il Garage, piazza Castello.

Si entra così nello spirito di ogni angolo della casa. La guida di Culicchia parte dalla storia, indissolubilmente legata a quella dei Savoia e del Novecento italiano, tra politica e Fiat, due fattori imprescindibili per comprendere la città. Torino, infatti, non smette di essere una città industriale, della cui identità fanno parte i quartieri periferici costruiti per le masse operaie, come il «termitaio ingentilito» di Vallette, il Lingotto con il suo cemento e la pista di auto sul tetto, ma anche i Docks Dora e le case di ringhiera di Vanchiglia, «quartiere prolet».

Eppure, chi viene a Torino per la prima volta aspettandosi di trovare una distesa monotona di capannoni e alveari dormitorio, è costretto a ricredersi. Dagli ampi corsi alberati che tagliano rettilinei la città, voluti dai Savoia sul modello dei boulevard parigini per il timore di eventuali rivoluzioni e relative barricate, si ammirano il verde della collina e le cime innevate delle Alpi. Nelle piazze e nelle vie del centro, invece, trionfano il Barocco, il Liberty e il Neoclassico. Sublimi le follie dell'Antonelli. Qua e là scampoli di architettura del Ventennio.

Il grigio tanto vituperato dalla narrazione di Torino è insomma solo una leggenda metropolitana, in una città che non sta mai ferma. L'osservatore partecipante Culicchia descrive non solo i luoghi ma le loro collisioni antropologiche, e passa senza freni dallo "struscio" del sabato sotto i portici di via Roma tra vetrine scintillanti, agli scioperi operai degli anni Ottanta e ai commenti di De Amicis, fino all'analisi del rigoroso understatement sabaudo, quell'atteggiamento tutto torinese imperniato sul non dare nell'occhio. Luoghi e torinesità si fondono su uno scenario che attraversa i decenni, riplasmandosi.

Tra risate e strizzate d'occhio si arriva alla fotografia della città nel 2005: «i torinesi fremono in attesa della metropolitana, destinata a essere inaugurata ad appena centoquarantadue anni di distanza rispetto a quella di Londra, e soprattutto aspettano le prossime Olimpiadi invernali del 2006». Saranno le Olimpiadi a rivelare una città nuova, «a colori» e ripulita di tanti stereotipi: «Torino ha fatto un triplo salto mortale carpiato e tra un'Olimpiade e una cementificazione... pardon, una riqualificazione urbana, si è magicamente trasformata nella "città della movida". Di modo che in un amen è nato anche l'apposito comitato antimovida». Prontamente, Culicchia racconta le nuove frizioni nella seconda puntata della sua guida, Torino è casa nostra, aggiornamento sul decennio seguito all'evento sportivo. Ci sono nuove contraddizioni, nuovi problemi e novità urbanistiche, ma c'è soprattutto la scoperta di vivere in una città bella, piena di sfumature dove, perché no, concedersi ogni tanto una vacanza.

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Pagina 209

Nelle sue guide e romanzi, Culicchia non dimentica infatti i volti belli di Torino, il suo fascino nascosto dietro ogni angolo e palazzo, la sua aura di cultura e storia, da cui discende il suo essere la città del Salone del libro e delle librerie: «ce ne sono davvero tantissime. Probabilmente anzi è la città con la più alta percentuale di librerie pro capite». Nascono prima le librerie o i libri? Torino è infatti anche tra le città con la più alta densità di scrittori e storie che la raccontano. Sarà forse per la quantità di vicende, autori e pagine sovrapposte anno dopo anno sulla sua mappa che le strade sembrano parlare e raccontare, dando vita a una sorta di città parallela, una Torino di carta? Un fascino letterario sabaudo, discreto ma al contempo ricchissimo, si snoda lungo i quartieri, dal centro alle periferie, pronto a cogliere ogni sussulto e movimento della grande macchina urbana, a catturarne l'essenza, tra percezioni, visioni e descrizioni. Come scrive Culicchia, «in via Po si ha sempre la sensazione di poter incontrare qualcuno. Poi magari non si incontra nessuno, ma non importa. Quello che conta è la sensazione», quella di essere passati a fianco a un personaggio di carta nato dalla mente di qualche scrittore, ineffabile, fantasma reale che si aggira in una città autentica e insieme letteraria.

I portici accompagnano la camminata dalla regale piazza Castello allo sbocco sul fiume tra lo sferragliare dei tram e, in inverno, la scia di pianeti e stelle di Palomar, la luce d'artista di Giulio Paolini, una strada di astri che insegue lo scorrere di via Po e su cui un acrobata è sorpreso in equilibrio, a illuminare di meraviglia il cielo su Torino.

È in via Po che si finisce sempre per fare una passeggiata, quando si torna a Torino dopo che si è stati lontani dalla città per un po' di tempo. E ogni volta via Po ha lo strano potere di farti rimpiangere di essere tornato e contemporaneamente di rallegrarti per averlo fatto. In entrambi i casi, i motivi sono gli stessi: luci, persone, colori, rumori, profumi, nient'altro. Luci, persone, colori, rumori, profumi che insieme ti respingono e ti attraggono. Chissà perché. Impossibile spiegarlo.

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