Copertina
Autore Paolo Chiariello
Titolo Monnezzopoli
SottotitoloLa grande truffa
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2008 , pag. 218, cop.ril., dim. 14,5x22x1,8 cm , Isbn 978-88-7937-425-5
PrefazioneMario Orfeo
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe citta': Napoli
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Indice


    Prefazione di Mario Orfeo                             1

 1. La grande truffa della monnezza                       5

 2. Un processo ad ostacoli                              39

 3. Commissariato rifiuti: due miliardi di sprechi       49

 4. Capitano Ultimo
    e i fannulloni a tempo indeterminato                 99

 5. Campania inFelix: la strage degli innocenti         111

 6. Colera! Colera! Moriremo todos:
    turisti in fuga da Napoli                           143

 7. Sommersi dalla spazzatura: la condanna dell'Europa  131

 8. Il tesoro dei Casalesi e i camorristi ambientalisti 153

 9. La missione del prefetto Pansa:
    chiudere il Commissariato Rifiuti                   183

10. Lacrime... Napolitano                               203

    Indice dei nomi                                     213


 

 

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Pagina 5

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LA GRANDE TRUFFA DELLA MONNEZZA



La sgangherata gestione dello smaltimento dei rifiuti in Campania, secondo i magistrati napoletani, si svolge in un regime di "truffa continuata, aggravata e tuttora in corso di esecuzione". Sembra paradossale ma è così. A Napoli ci sono due magistrati (Paolo Sirleo e Giuseppe Noviello) e due giudici (il giudice delle indagini preliminari Rosanna Saraceno e quello del Riesame Anna Grillo) che hanno già dipinto con sofferta ironia tutta partenopea la gestione del disastro rifiuti, usando una sola parola: truffa. Aggravata, continuata e tuttora in corso di esecuzione. E quel che è peggio è che poco o niente viene fatto perché la perpetrazione di questo odioso delitto (accertato) venga finalmente bloccata. In pratica, il reato di truffa, in Campania, almeno nel settore dello smaltimento dei rifiuti, viene commesso quotidianamente, alla luce del sole, in coscienza di chi lo compie e in piena scienza dei magistrati che lo accertano ma che di fatto poi non possono o non riescono, per fatti che non dipendono dalla loro volontà, a reprimerlo come vorrebbero o meriterebbe. Non è facile ironia, e nemmeno il solito stereotipo su Napoli città dove non si coglie mai la linea di demarcazione netta tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. È semplicemente l'amara constatazione della realtà nella quale si trovano ad operare i magistrati e i giudici che si occupano degli appalti per lo smaltimento dei rifiuti in Campania. Due appalti da 700 milioni di euro affidati con gara ad un'associazione temporanea di imprese costituita, tra l'altro, dalla società mandataria Fisia e dalla mandante Impregilo Spa, alle quali sono poi subentrate nel rapporto contrattuale, quali affidatarie, la Fibe Spa e la Fibe Campania Spa. Obblighi delle aziende vincitrici erano quelli di costruire sette impianti industriali dove entrasse spazzatura e uscisse Cdr (acronimo di Combustibile da rifiuti, le cosiddette ecoballe da bruciare negli inceneritori), edificare due impianti di termovalorizzazione che bruciando le ecoballe producessero energia elettrica, gestire questi impianti industriali, assicurare che in attesa della realizzazione dei due termovalorizzatori le ecoballe prodotte fossero comunque conferite in impianti esistenti, non subappaltare le attività di trasporto dei rifiuti e la gestione delle discariche e, infine, last but not least direbbero gli inglesi, "assicurare il servizio di ricezione dei rifiuti solidi urbani anche in caso di fermo degli impianti e per qualsiasi altra causa garantendo comunque lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani". Ecco, riassunta così, con il linguaggio burocratese della pubblica amministrazione, la vicenda rifiuti in Campania farebbe gridare allo scandalo qualunque persona dotata di un briciolo di buonsenso. Ci sono delle gare di appalto aggiudicate ad aziende quotate in Borsa, sono stati stipulati contratti di servizio che specificano in maniera dettagliata, quasi manichea, gli obblighi da rispettare, e non si capisce perché in altre regioni d'Italia funzioni tutto (o quasi) mentre in Campania è uno sfascio totale. A qualcuno può sembrare azzardato o presuntuoso, ma spiegare genesi, evoluzione e rescissione dei contratti di appalto milionari che ancora legano alcune aziende del gruppo Impregilo al Commissariato straordinario per l'emergenza, fa comprendere meglio il disastro nel settore dei rifiuti e la difficoltà ad uscire da una situazione tanto aggrovigliata e complicata da assomigliare alla soluzione del cubo di Rubik. Fare chiarezza nell'affare rifiuti non sarà facile, ma non è impossibile. I magistrati che indagano sul ciclo dei rifiuti ci stanno provando a sbrogliare il rompicapo degli appalti che non hanno mai funzionato e a risalire alle responsabilità, se ci sono, di quanti hanno commesso reati o omesso di controllare che quei reati legati alla gestione della raccolta e dello smaltimento della spazzatura nell'intera regione Campania non fossero consumati. Ad ogni buon conto l'inchiesta choc sui rifiuti che coinvolge professionisti, società quotate in Borsa, funzionari dello Stato, politici e esponenti delle istituzioni rappresenta un contributo di chiarezza nel mondo dell'emergenza rifiuti in Campania, da sempre percepito come inestricabile, buio e magmatico. Anche se, a sentire Giovandomenico Lepore, procuratore capo di Napoli, mai vicenda giudiziaria di così devastante portata fu più limpida. Lepore, che segue passo dopo passo il lavoro dei suoi due sostituti più brillanti e dinamici nel settore dei reati ambientali (Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo), un'idea chiara sul rapporto d'affari tra le aziende affidatarie degli appalti sul ciclo dei rifiuti e la struttura del Commissariato per l'emergenza rifiuti se l'è fatta. "Nel 2000, quando iniziò questa vicenda, già si sapeva che gli impianti non sarebbero stati in grado di risolvere l'emergenza. Eppure – spiega sempre Lepore, calibrando le parole – tutti tacquero, comprese le banche che finanziarono la Impregilo, pur sapendo che le opere non si sarebbero realizzate. E chi doveva controllare il rispetto dei termini di quel contratto non lo fece". Se non è già una sentenza di condanna poco ci manca, di fatto però, con queste poche, durissime parole il capo degli uffici giudiziari napoletani fa comprendere senza infingimenti a chi ancora non l'avesse capito o facesse finta di non averlo compreso, che la raccolta dei rifiuti in Campania non aveva funzionato, non funzionava e non avrebbe mai funzionato con la sistematica violazione dei contratti d'appalto da parte delle aziende del gruppo Impregilo. Perché? I magistrati Sirleo e Noviello, nella loro inchiesta spiegano chiaramente che le aziende che avrebbero dovuto assicurare la buona riuscita del ciclo di smaltimento dei rifiuti non solo non hanno mai mostrato di avere le idee chiare sui propri doveri e di non aver onorato i contratti di appalto che s'erano aggiudicati, ma avrebbero anche goduto dell'inerzia di quelle istituzioni che invece di controllare che i patti stipulati con gli appalti fossero rispettati, non si accorgevano delle quotidiane inadempienze che si consumavano alla luce del sole. In effetti dall'inchiesta, tra le altre cose, emerge che il controllore invece di denunciare, copriva magagne e giustificava inefficienze del controllato. Per il momento la magistratura inquirente ha chiesto ed ottenuto sanzioni durissime contro le aziende della costellazione Impregilo, affidatarie degli appalti: interdizione dal contrattare per un anno con la pubblica amministrazione in materia di appalti per i rifiuti e sequestro preventivo di una somma di 753 milioni di euro per le presunte gravi inadempienze contrattuali riscontrate dagli inquirenti.

Inoltre, nell'ambito della stessa inchiesta, i due pubblici ministeri, hanno anche richiesto il processo per 28 persone, tra queste i vertici di Impregilo, il presidente della regione Campania Antonio Bassolino nella sua veste di Commissario straordinario, alcuni suoi vice e altri manager che si sono occupati dell'affare rifiuti. L'attenzione dei media napoletani è altissima e i giudizi sull'operato di Bassolino sono sferzanti, anche perché dietro quell'inchiesta non c'è solo il tentativo di sanzionare reati presuntivamente commessi per risolvere il disastro rifiuti in Campania, ma c'è la volontà di mettere in piazza sprechi, paradossi, contraddizioni e affari consumati sul filo del codice penale. È in questo contesto di disincanto dopo l'illusione del Rinascimento napoletano che matura l'analisi dura ma realistica di Marco De Marco, direttore del Corriere del Mezzogiorno, sull'epilogo della carriera politica di Antonio Bassolino. Ne "L'altra metà della storia", edito da Guida, De Marco dedica un capitolo all'emergenza rifiuti, che "è precedente alla nomina di Bassolino, avvenuta nel maggio del 2000, e resta irrisolta anche quando Bassolino si dimette nel febbraio del 2004 per non compromettere l'esito delle elezioni di quell'anno. È però indubbio – scrive De Marco – che durante questo periodo non avvenga nulla di risolutivo, a conferma di una continuità nell'azione amministrativa. Se una diversità c'è – argomenta il direttore del dorso napoletano del Corriere della Sera – è nell'esasperazione di certe scelte politiche che hanno finito per catalizzare l'interesse sia dell'autorità giudiziaria, sia della Commissione bicamerale d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, le cui tesi accusatorie sono state sostenute con uguale forza dalla destra e dalla sinistra: dal presidente berlusconiano Paolo Russo e dal senatore di Rifondazione Tommaso Sodano". Tornando all'interesse della magistratura per la questione rifiuti, come dicevamo, il principale indagato è il governatore della regione Campania, Antonio Bassolino. Sono sette le condotte censurate penalmente dai magistrati partenopei a Bassolino, che dal maggio del 2000 al febbraio del 2004 è stato allo stesso tempo presidente della Regione e Commissario straordinario all'emergenza rifiuti.

Si va dalla contestazione del reato di frode in pubbliche forniture ("per non aver impedito" ma anzi "consentito e realizzato la perpetua violazione" degli obblighi previsti dal contratto sulla gestione del ciclo dei rifiuti stipulato con l'associazione temporanea d'imprese costituita dal gruppo Impregilo) al concorso in truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato ("per aver consentito e non impedito" che le aziende mascherassero quelle inadempienze con "artifici e raggiri" impedendo per giunta che Palazzo Chigi venisse messo a conoscenza di quanto stava accadendo). Altro reato contestato è quello di interruzione di un pubblico servizio per "aver fornito un contributo omissivo" non contestando la violazione del contratto quando i conferimenti dei rifiuti venivano interrotti. Infine i magistrati Sirleo e Noviello attribuiscono sempre a Bassolino tre differenti ipotesi di abuso d'ufficio e il reato di concorso in violazione della normativa ambientale. Una mazzata senza precedenti sul capo del leader del centro-sinistra campano che ha sempre fatto della moralità la sua bandiera politica. Un grave trauma quello patito da Bassolino, amareggiato non solo dalle accuse della procura, giudicate sproporzionate ("Non c'è nemmeno un serio indizio" è la difesa del governatore, che da quando è rimasto invischiato nell'inchiesta non fa altro che ripetere che "da tutta questa vicenda ho tratto solo svantaggi") ma offeso dal comportamento del capo degli uffici giudiziari Giovandomenico Lepore. A mandare su tutte le furie Bassolino l'intervista rilasciata da Lepore al cronista di giudiziaria de Il Mattino Leandro Del Gaudio dopo il provvedimento di sequestro alla Impregilo e la richiesta di rinvio a giudizio per i 28 indagati nell'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Lepore, al giornalista che gli domandava se la condotta contestata a Bassolino avesse contribuito a determinare la situazione di crisi di quei giorni, rispondeva "sì, in base alle indagini" e che se si fosse "intervenuti prima, con ogni probabilità l'emergenza non avrebbe raggiunto il punto in cui siamo adesso".

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IL TESORO DEI CASALESI E I CAMORRISTI AMBIENTALISTI



"Cari guaglioni, se voi costringete quei contadini a vendermi i terreni, io costruisco un inceneritore col quale brucio tutti i rifiuti. È questo il business del futuro, credete a me che ne capisco". Sono solo alcuni brani di una lunga conversazione tra uomini del clan dei Casalesi ed un manager-fiancheggiatore, considerato dagli inquirenti una sorta di ministro dell'Ambiente della camorra casertana. Erano i primi anni Novanta e i camorristi, quelli che facevano il loro ingresso nel business dei rifiuti, avevano già compreso quali erano le tecnologie migliori per trasformare l'immondizia in danaro e come moltiplicare così i profitti già ingenti di un mercato, quello della spazzatura, sicuramente più redditizio e meno pericoloso – almeno dal punto di vista del codice penale – di altri traffici illegali. A rivelare ai magistrati napoletani dell'Antimafia il ruolo che avrebbe svolto l'avvocato Cipriano Chianese, il re Mida della camorra che trasformava i rifiuti in oro, è tale Raffaele Ferrara, uno dei tanti collaboratori di giustizia che in maniera "univoca e concordante" hanno evidenziato come uno dei principali canali di finanziamento delle casse della camorra sia stato nel passato – come nel presente e forse anche in futuro – la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e la capacità di far sparire in qualche modo nelle campagne tra la provincia casertana e l'area nord di Napoli sostanze tossiche e nocive provenienti dalle industrie del Nord Italia.

Quanto poi al progetto della camorra di costruire un inceneritore di rifiuti, è sì un aneddoto raccontato da un pentito, però la dice lunga sulla capacità di analisi economica dei clan, sulla perspicacia dei gruppi dirigenziali della camorra di precorrere i tempi e capire che quell'impianto avrebbe fruttato denaro in un futuro non lontano, trasformando la spazzatura da bruciare in euro. Fiumi di euro. Uno dei nodi più inquietanti dell'emergenza rifiuti in Campania è senza dubbio quello legato all'incapacità dello Stato di realizzare un ciclo integrato dei rifiuti, con un sistema di raccolta e smaltimento che preveda non solo una raccolta differenziata da Paese civile (quindi superiore al 40 per cento e non sotto il 10 per cento attuale) ma anche gli inceneritori o termovalorizzatori che dir si voglia, dove la spazzatura bruciata diventa energia. Ad oggi, l'unico impianto industriale progettato, finanziato e realizzato in Campania, è quello di Acerra, nel Napoletano. Dovrebbe entrare in esercizio a pieno regime nel dicembre del 2008, bruciando quotidianamente 2mila tonnellate di Cdr (combustibile da rifiuti), ovvero le famigerate ecoballe, quell'ammasso di spazzatura fasciato alla men peggio in bustoni di plastica e costituito perlopiù da rifiuto secco. Il rischio però che slitti l'apertura dei forni di Acerra è concreto: sia a causa della vertenza contrattuale legata alla rescissione del contratto alla Impregilo che per gli esiti dell'inchiesta sull'affare rifiuti della magistratura napoletana. Tra scioperi dei dipendenti dell'azienda di Sesto San Giovanni che dopo il sequestro record della procura percepiscono gli stipendi ogni due o tre mesi e la difficoltà di trovare sul mercato un operatore industriale capace al quale affidare il funzionamento del termovalorizzatore, quello che si profila all'orizzonte è un ritardo nella consegna dell'opera e dunque il procrastinamento dell'avvio del processo di combustione dei rifiuti al gennaio del 2009.

Ma torniamo agli affari della camorra. Per meglio capire le proporzioni di questo settore trainante dell'economia criminale campana, occorre dare uno sguardo attento alla letteratura giudiziaria di un passato recentissimo (le inchieste sul ciclo dei rifiuti che vanno dal 1995 al 2005), sì da comprendere anche le prospettive, gli scenari futuri del magmatico, cangiante mondo dell'ecomafia.

Il periodo di massima espansione economica per i clan della camorra coincide sempre con le fasi più drammatiche dell'emergenza rifiuti in Campania. Quello che mostrano le inchieste della magistratura napoletana è che le capacità delle organizzazioni criminali di reperire cave e discariche dove predispone lo sversamento di immondizia d'ogni genere, sono sempre state direttamente proporzionali alla inerzia delle istituzioni di porre rimedio al disastro dei rifiuti in Campania. Nel ciclo dei rifiuti la camorra da anni occupa ogni spazio lasciato libero dallo Stato e con impressionante regolarità ne capta le immense risorse pubbliche stanziate per fronteggiare le fasi di emergenza più acute: si va dall'affitto di cave e discariche al nolo dei mezzi di trasporto, alla locazione di capannoni per la differenziazione di rifiuti, all'impiego di mezzi speciali (bob cat, escavatori) per la raccolta dei rifiuti nelle strade fino alla disinfestazione dei cassonetti e delle aree periferiche delle città trasformate anche dall'inciviltà dei cittadini in discariche a cielo aperto.

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