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| << | < | > | >> |Pagina 9La porta della camera dove Leone Avigdor giaceva febbricitante nel suo confortevole letto senza trovare conforto, si aprì e, nel varco, le ali candide del cappellone della suora di San Vincenzo ondeggiarono rigide. La suora sussurrò qualche parola: brevi ordini secchi a zia Irmina, che subito si allontanò nel corridoio scivolando sulle scarpe di feltro. Riapparve dopo pochi minuti con il bollitore delle siringhe, che depositò su una tovaglietta bianca nel mezzo del tavolino da notte. Pesanti tende scure impedivano alla luce del primo pomeriggio di penetrare nella stanza. E gli occhi di Daniel Avigdor, il figlio del malato, vagavano alternativamente dalla macchia bianca della tovaglietta sul tavolino alla macchia bianca della cornetta della suora che vi svolazzava sopra inquieta. Era la suora che faceva le iniezioni nel quartiere. Il suo convento, a pochi isolati di distanza, ospitava una decina di altre benefiche consorelle d'età sinodale, quali panciute, quali baffute, tutte energiche e non di rado scontrose e scontente, come questa, che adesso brontolava perché mancava la strofantina e non serviva a niente fare il salasso se poi mancava la strofantina. «Se non si sostiene il cuore con un malato in queste condizioni...» diceva e poi, abbassando la voce: «Malato! Diciamo pure agonizzante... Se fosse un cristiano sarebbe il momento di ricevere l'olio santo più che la strofantina». Comunque era un giudeo e la grazia — a pagamento – di una puntura non la si negava a nessuno, fosse pure a un giudeo discendente di quelli... La suora agitò di nuovo la bianca cornetta nell'ombra sospirando, segnandosi e baciando la croce d'argento che le pendeva sulla pancia. Di quelli — terminò il suo pensiero — che non avevano esitato a crocifiggere... «Nostro Signore» borbottò con voce da giaculatoria ma sufficiente da essere udita, in quella casa di ebrei, se non dall'agonizzante almeno dai parenti che gli stavano attorno. Poi si voltò risentita verso Daniel: «Bisogna che questo giovanotto qui vada subito in farmacia. Vada con la vecchia ricetta e spieghi come stanno le cose, l'urgenza soprattutto. Se il farmacista la conosce non avrà difficoltà a darle la medicina». Guardò Daniel con occhi che come la voce non ammettevano repliche. «Gli porterà poi la nuova ricetta. Se la faccia fare dal dottore quando viene. Ora però si spicci! Non c'è tempo da perdere per il malato né per me, che ho ancora tante case da visitare.»
Si sedette su una poltroncina di fronte al letto e tirò
fuori il rosario. «Diciamo che nel tempo di un rosario,
lei, giovanotto, dovrebbe essere di ritorno. Si hanno
gambe buone alla sua età, non come noi povere vecchie» e sospirando cercò con
gli occhietti pungenti la simpatia di zia Irmina, che a sua volta sospirò,
mettendo tuttavia nell'intenzione di quel sospiro più sopportazione che simpatia
«che per quanto vecchie dobbiamo lo stesso trottare...» le ali bianche
fremettero stizzose «trottare, trottare...»
Presi la ricetta e uscii. Devo dire che ho una fiducia limitata nella medicina e nei medicinali, dei quali mio padre aveva fatto negli ultimi anni grandi scorpacciate senza che riuscissero, non dico a guarirlo, ma neppure a ritardargli il progresso della malattia. Il dottor Levi, il vecchio medico di famiglia che abitava poche vie più in là (mio padre naturalmente non si fida che dei medici ebrei, i quali del resto hanno una grande tradizione), aveva detto che il malato poteva farcela oppure no, ma che il ricovero in ospedale era comunque inutile: quello che gli avrebbero fatto là lo si poteva fare altrettanto bene a casa, preservando la tranquillità del moribondo. Moribondo, aveva usato proprio questa parola. Forse gli era sfuggita. Ma se lo giudicava in procinto di morire, che senso avevano ancora i salassi, le iniezioni...
Non sarebbe stato meglio lasciarlo morire in pace, senza
continuare a torturargli quelle vene ormai ridotte a cordoncini nodosi, tanto
erano diventate dure e spesse?
Pensieri che era meglio si tenesse per sé, se non voleva apparire agli occhi di tutti un figlio degenere. Quello che ci si aspettava da lui non era una pronta rassegnazione, ma l'ostinata resistenza all'idea della morte di suo padre. Così in omaggio al vecchio adagio che «la speranza allunga la vita», per quanto in quelle circostanze suonasse ipocrita e insensato, Daniel Avigdor finse la massima sollecitudine e scese di slancio le scale, lasciandosi alle spalle il loro odore umido e stantio che aleggiava fin nell'androne. Fuori c'era una luce da giorno di festa. Il primo vero giorno di primavera. E anche se suo padre, nella buia casa che si era lasciato alle spalle, stava morendo, non poté fare a meno di sentirsi di buon umore. Fu perciò di buon passo che si incamminò lungo il lato della via inondato dal sole, apparentemente tutto preso dall'urgenza del suo andare. C'era trambusto nella strada, bambini che correvano e, gridando, entravano e uscivano a razzo dai portoni, biciclette che scampanellavano, donne che vociavano garrule. Quando fu nel corso, fra i tram sferraglianti passò anche una vecchia carrozza a cavalli, aperta, con un baldacchino a righe azzurre e bianche ornato di nappine. Il gaio trotto dei ronzinanti faceva cloppete cloppete come un gioioso battimani alla primavera, e la prosaica signora Diena scese a raccogliere con la paletta le buse per concimare i fiori del suo terrazzino, il più rigoglioso di tutta la strada. Sopra la scena, sfolgorava uno sconfinato e dolce azzurro cielo di primavera. Dalla finestra spalancata di una di quelle case borghesi che si susseguivano grigie e dignitose lungo il corso, così difficili da distinguersi l'una dall'altra, brillò improvviso il suono ballerino di un pianoforte, e Daniel ringraziò l'anonima signorina discepola delle muse che eseguiva Tea for two impuntandosi solo di quando in quando. Amava la musica e le signorine, Daniel Avigdor, ed era quel che si dice un bel ragazzo. Non molto alto, ma snello e ben proporzionato. I suoi lineamenti sono marcati e ha luminosi occhi grigi, denti bianchissimi che spiccano nel colorito olivastro, un corpo agile e forte. Ha venti anni, ma non si sente particolarmente giovane. D'altra parte neppure vecchio. Così. Senza molte illusioni. | << | < | > | >> |Pagina 49È finita la guerra, ma di mia madre non si è più saputo niente. È uscita un pomeriggio e non ha fatto ritorno. Fu nel dicembre del '43, quando la persecuzione degli ebrei era già diventata la caccia all'ebreo. Quando la vita di un ebreo non aveva più valore di quella di un topo. E non c'era chi non pensasse che era un gran bene sterminare i topi, dai più grandi ai più piccini. E con ogni tipo di trappole. I nazisti facevano continue retate, sguinzagliando i loro cani fascisti per strada, nei cinematografi, nei caffè. I loro rabbiosi latrati risuonavano ovunque. Ma non c'era passione nel loro odio. Era un odio freddo, metodico, applicato con il rigore coscienzioso che esige ogni lavoro ben fatto. Acchiappasorci, tecnici della derattizzazione. Ordinati e precisi, efficienti e sistematici. Adolf Hitler, il capo degli acchiappasorci, era, da piccolo, un bambino ordinato e preciso, efficiente e sistematico. Nel suo lettino di legno dipinto di celeste e intagliato di cuoricini tirolesi, si toglieva le caccole dal naso, una dopo l'altra, molto serio e compunto, e le appiccicava al muro bianco della sua cameretta con sordida pignoleria, una dietro l'altra, come cadaverini ebrei. Un che di testardo e di inflessibile aleggiava nella sua fisionomia infantile mentre si toglieva «i topi dal naso», come dicono i bambini. E nessuno lo rimproverava per questo: non c'era alcuna infrazione dell'ordine, niente di approssimativo e di incompleto. Il muro si riempiva di caccole come di minuscole, nere stalattiti, ma c'era sempre spazio per un altro cadaverino stecchito, il muro era immenso e bianco e vacuo come il mondo. Il bambino Adolf Hitler con calma compiva il suo lavoro di becchino. La burocrazia dello sterminio, nella sua abietta, tragica e paradossale contabilità, obbligava gli ebrei rinchiusi nei vagoni-bestiame per essere deportati nei lager a pagare il biglietto – naturalmente di sola andata – come fossero viaggiatori qualsiasi in trasferta di piacere o di affari. I minori sotto i dieci anni pagavano la tariffa ridotta e i piccoli sotto i quattro viaggiavano addirittura gratis. Si poteva ottenere uno sconto speciale, come gruppo, se si era in almeno quattrocento. Erano i tempi, rimpianti oggi da molte persone cosiddette perbene, in cui i treni viaggiavano in orario. Su uno di quei treni deve essere finita mia madre. Non so. Mio padre disse che era stata presa in una retata per strada, ma a me restò a lungo il dubbio che fosse invece scappata con il suo amante.
Era uscita con la veletta nera, elegante anche se c'erano i bombardamenti.
Portava un buffo cappellino tondo inclinato sul davanti, tenuto da un elastico
nascosto dai capelli. Aveva anche delle rose. Rosse. Lo ricordo benissimo. E la
veletta era a pois e le lasciava la bocca scoperta, molto rossa, come le rose.
Mia madre non usciva mai senza rossetto. Né senza guanti.
Non piansi quando mio padre disse che era stata presa. Semplicemente non ci credetti. Pensai che se ne era andata, pensai che fosse fuggita con il suo amante. E ne fui furioso, ma mi sforzai di apparire indifferente. Dopo qualche tempo l'ipotesi che mia madre potesse essere scappata con un altro uomo si fece un dubbio remoto, vago. Un giorno ritrovai una borsa che le era appartenuta, piena ancora di tutte le sue cose, e me ne appropriai, quasi potesse risarcirmi della sua perdita. Una borsetta di pelle nera con il fermaglio dorato, che ogni tanto aprivo. Se ne sprigionava un odore di vecchia cipria, che per me era diventato l'odore di mia madre. Aprivo la borsa piano, con infinita cautela, solo un pochino, perché temevo che quell'odore si dissolvesse per sempre nell'aria portandosi via quell'ultima volatile impronta di lei. Era scomparsa dal mondo, come poteva non scomparire anche dalla sua borsa? Dentro c'erano un bastoncino di rossetto, un borsellino di raso nero, vuoto, un mozzicone di matita, un'istantanea scattata da un fotografo di strada. Guardavo quelle cose a lungo, come se mi potessero dare qualche traccia di lei. Mio padre se mi vedeva tra le mani quella borsetta non era contento. Forse perché temeva che mi facesse soffrire di più. Forse perché era lui che soffriva di più. Chissà che scenata dovette fare per quella foto il marito geloso. Jolanda è molto bella anche se non sorride. Cammina con passo spigliato sugli alti sandali ortopedici, ha un soprabito scuro a redingote che le ondeggia intorno alle ginocchia rotonde e il suo solito cappellino elegante con la veletta. Mi piace uscire, mi piace andare a fare commissioni, sembra dire, anche se ci sono i rastrellamenti e le bombe, si mette a suonare la sirena e bisogna correre al rifugio più vicino. In rifugio, in mezzo a tutta quella gente, bisogna essere eleganti. Una signora curata, sempre a posto, anche sotto, dove non si vede. Niente biancheria rattoppata come sua cognata. Poi, sfido che si resta senza fidanzato. Con quella biancheria! Mutande dagli elastici molli e reggipetti ingialliti!
Mia madre in quella fotografia ha quasi quarant'anni, ma ne dimostra dieci
di meno. È bella ma non può essere felice. Per colpa di quel marito e della
cognata, per colpa del fascismo e della guerra. Solo suo figlio
non le dà problemi, ma neppure sembra avere bisogno
di lei. Ha dieci anni e la sua vita scivola ogni giorno più
lontano da lei. Per lui è importante la scuola ebraica, la
sinagoga. Diventerà un pio ebreo, è così serio e attento.
Anche ai rituali, alle prescrizioni, cose che gli insegnano
a scuola. E non ha che dieci anni!
Nessuno ci ha mai dato notizie di lei. Non è un caso eccezionale, è successo a tanti ebrei. Di quel tempo – la guerra, la necessità della fuga – conservo il senso che da un momento all'altro tutto può cambiare e nulla essere più come prima. Non facevo domande su quello che succedeva. Mi circondavano il segreto e il silenzio. Del resto non c'erano spiegazioni per quello che stava accadendo. Si assisteva continuamente, nell'orrore e nell'impotenza, alla scomparsa di un parente o di un conoscente.
Anche adesso in casa non parliamo mai di quello che
abbiamo patito durante la guerra, della fine di mia madre, dei miei sentimenti
in proposito e dei sentimenti di mio padre. Non parliamo mai di noi – neanche la
zia. Parliamo dei problemi del commercio di stoffe o dei miei
studi o anche soltanto del tempo. Come e più degli inglesi. Oppure stiamo in
silenzio e i nostri sguardi si incrociano di sfuggita, obliqui. Non so se è più
forte il dolore o l'imbarazzo nel nostro ritrovarci come sopravvissuti.
Non parlare ci salva dalle convenzioni, ma ci lascia soli
con le nostre paure. Qualcosa di indicibile o di inconfessato ci isola l'uno
dall'altro. Non c'è merito nell'essersi salvati, soltanto un po' di fortuna.
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