Copertina
Autore Giulietto Chiesa
Titolo La guerra infinita
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2002, Nuova serie , pag. 180, dim. 135x205x13 mm , Isbn 978-88-07-71001-8
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe politica , guerra-pace
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Indice


  7   1.  Ponte dì comando
 32   2.  Fine della storia
 48   3.  Ma che guerra è?
 67   4.  Dove nascono i tifoni
 83   S.  È stato Osama bin Laden. Chi se no?
102   6.  Impero penale
117   7.  Una Grande alleanza?
134   8.  Propaganda War
155   9.  Super-war
167   10. Conclusioni
171   Note
 

 

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Pagina 7

1.
Ponte di comando



L'11 settembre siamo entrati nell'era dell'Impero. E l'Impero ha deciso di entrare in guerra. Tra le due cose c'è una quantità di nessi da scoprire, nessuno dei quali è immediatamente evidente. Ma individuarli, rispondere a tutta una serie d'interrogativi che si affollano nelle menti di molti, riuscire a smorzare lo stupore per eventi che accadono in rapida successione, placare inquietudini e angosce: tutto questo richiede nuovi sforzi. A questi interrogativi si deve rispondere, non per soddisfare curiosità, che è esercizio estetico, ma per cercare di sopravvivere. Questa guerra inedita, infatti, non è virtuale: è molto reale, molto feroce; e diventerà assai presto molto vicina, anche se per ora sembra lontana.


Perché siamo entrati nell'era dell'Impero? Cos'è quest'Impero? È simile a imperi precedenti o è diverso? In cosa è diverso, se lo è? Perché mai, essendosi appena formato, quest'Impero è entrato in guerra? Contro chi è entrato in guerra? Quanto durerà questa guerra? Cosa significherà vincere? Cosa significherà perdere?

Il lettore non si aspetti che io lo riconduca sulle strade che, dall'11 settembre in avanti, sono state indicate dal sistema mediatico mondiale (che riproduce sostanzialmente, come vedremo, gli input del potere imperiale). Sarebbe un impresa inutile. Queste strade sono quasi tutte fallaci: sono vicoli ciechi, trucchi, prestigiditazioni. Quel poco di verità che mostrano è di regola inserito in contesti molto simili a trappole, predisposte da tempo, dove finiscono per cadere gli incauti che vi si avventurano. Le domande che ho appena elencato sono state poste solo da pochi. Altri le hanno solo sfiorate. Quasi nessuno ha cercato delle risposte.

Si è ripetuto infinite volte che l'11 settembre ha cambiato tutto, che nulla sarebbe stato come prima. In sostanza, quasi tutto è cambiato, ma siamo rimasti come imbozzolati nella vecchia forma come se nulla d'importante fosse accaduto, addirittura felici che i cambiamenti temuti non siano giunti a turbare il tran tran abituale.

Terrorismo, Osama bin Laden, bombardamenti, guerra, vittoria, taleban, Al Qaeda: parole, nomi nuovi e antichi sono sfilati davanti ai nostri occhi. Alcuni si sono sedimentati, altri non hanno lasciato traccia e non abbiamo potuto afferrare la chiave dei loro significati. Milioni, miliardi di individui non hanno avuto modo di capire cosa stesse accadendo al nostro mondo, alle nostre vite, come si sarebbero modificati i nostri destini e quelli dei nostri figli. Intuiamo soltanto che, davvero, qualcosa di molto grave è avvenuto, con conseguenze grandi e pericolose, ma non riusciamo ad afferrare il contesto. Molte sicurezze sono svanite e hanno lasciato spazio a una grande incertezza. Si percepisce soltanto un crescente senso di angoscia.

L'unica cosa certa è che le versioni offerte sono o del tutto false, oppure così inquinate da essere comunque inaccettabili. Quindi è giocoforza andare altrove, non senza aver aggiunto ancora un'altra fondamentale domanda: cos'è mai questo sistema mediatico che - se le cose stanno così come s'è detto - è l'insidia principale, l'ostacolo che si frappone tra noi e la realtà, al punto che spesso all'uomo della strada non è più dato percepirla, vederla, capirla?


Cominciamo allora dall'Impero, perché capire cos'è significa anche avvicinarci alla risposta sul perché sia entrato in guerra. "Il mondo entra nel 2002 in una situazione senza precedenti nella storia umana." Questo è l'incipit con cui William Pfaff esordiva in un commento del "Los Angeles Times" alla fine di dicembre del 2001. E così continuava: "Una singola nazione, gli Stati Uniti d'America, dispone di un potere economico e militare senza rivali e può imporsi virtualmente dovunque desideri farlo".

È l'anatema di un antiamericano? Macché! È un americano che scrive su un autorevolissimo giornale americano, esercitando uno dei più sacri e ammirabili diritti della società americana: la libertà di stampa, il Primo Emendamento. Per chi voglia guardare le cose così come stanno, l'affermazione di Pfaff è una semplice constatazione. Non è forse tutta la verità, ma ne è una parte cospicua e offre un'angolazione utile per vedere la novità. È altrettanto vero che oggi gli Stati Uniti possono, "ove scelgano di farlo, imporre un completo collasso economico e sociale a tutti, o quasi, gli altri paesi" del pianeta.


Vale la pena fermarsi un attimo su questa notazione. Non è nell'ordine della normalità immaginare che gli Stati Uniti possano voler "imporre un completo collasso, economico e sociale" ad altri paesi. Perché mai dovrebbero farlo, visto che sono così smisuratamente potenti? Perché dovrebbero perseguire il male degli altri paesi avendo a disposizione - apparentemente - tali e tanti mezzi per imporre il bene? Strano modo davvero, così minaccioso e pessimista, di guardare a quest'era che inizia. Eppure, come vedremo in seguito, Pfaff ha molte e convincenti ragioni.

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Pagina 18

Ma torniamo ai momenti di gestazione di questo nuovo Impero. Bisogna tornare indietro di trent'anni circa, attorno alla fine del regime di Bretton Woods. Allora d'impero non si poteva ancora parlare. Gli Stati Uniti erano già sicuramente i più forti, ma non ancora abbastanza. E, al contempo, erano grandi e spesso anche magnanimi. Sentivano la responsabilità della loro grandezza e, talvolta, anche se non sempre, pensavano al resto del mondo. Difficile dire quanto è durata e quando è finita questa magnanimità. Assai presto le condizioni oggettive del pianeta hanno cominciato a convincere gli uomini presenti di volta in volta sul nuovo ponte di comando che gli Stati Uniti avrebbero dovuto e potuto pretendere di più per se stessi, visto il ruolo di guida mondiale che stavano interpretando. Per così dire, si sono sentiti in diritto di aumentare la parcella per le loro prestazioni professionali. In fondo se l'altro Impero, quello del Male non era riuscito a imporsi sul pianeta, lo si doveva essenzialmente a loro. Furono loro - con grande intuito strategico - a investire la parte maggiore delle loro ricchezze nel progetto di liquidazione del Grande Nemico. Fu così che cominciarono a mettere in pratica, sempre più sistematicamente, un loro decalogo che avrebbe consentito, con il tempo, di far funzionare le leggi del mercato al servizio della supremazia degli Stati Uniti, per permettere ai cittadini americani (nella loro grande massa) di consumare molto più di quello che producevano e, a una porzione più ridotta, di "arricchirsi dormendo". Il decalogo avrebbe potuto servire - e servì, infatti - a mantenere sotto controllo eventuali competitori che avessero deciso di mostrarsi sulla scena, per costringerli a rinunciare non appena fossero diventati anche solo potenzialmente pericolosi.

Non pensi il lettore che questa descrizione sia il frutto di interpretazioni malevole. Il decalogo di cui stiamo parlando - a differenza di quello di Mosè - è stato pienamente realizzato. Ciascuno dei suoi articoli sarebbe agevolmente verificabile oggigiorno anche da chi non sia specialista di politica e di economia, sempre che, s'intende, il sistema informativo mondiale lo rendesse visibile. Esso agisce e opera quotidianamente. È la regola generale. Del resto, anche chi scrive non è uno specialista. Ma è un profano che, per mestiere, raccoglie e ordina le notizie che riesce a procurare. Il fatto che il decalogo sia stato fin qui così poco visibile, e che negli ultimi anni sia diventato del tutto invisibile, si spiega bene con il contemporaneo, progressivo formarsi della globa-mediatizzazione, qualcosa di simile a una Internazionale dei media (Detentori dell'informazione e dell'intrattenimento di tutto il mondo, unitevi!). Si tratta di un gruppo non molto numeroso di padroni degli strumenti del comunicare, intesi nella loro più vasta accezione: informazione, entertainment, pubblicità. Oggi sono in grado di determinare, attraverso l'uso sinergico di tutte le risorse della Information-Communication Technology, ciò che deve consumare, mangiare, bere, come deve divertirai, dove deve passare il tempo libero, come fare l'amore, come arredare le case (supposto che le abbia), cosa deve desiderare, sognare, pensare qualche miliardo di abitanti del pianeta. Il tutto in tempo reale, guidando ondate di emozioni, di sensazioni e, s'intende, di opinioni, lungo tutti i meridiani e i paralleli della Terra. Non è certo un caso se questi signori - anche loro, incidentalmente, non certo eletti da qualcuno - sono parte integrante e decisiva della super-società globale. Senza la loro sistematica, continua, molteplice opera di interpretazione della realtà, senza il loro onnipresente lavoro di occultamento, stravolgimento, rimescolamento, filtraggio, censura, il decalogo non si sarebbe realizzato.

Ecco dunque il decalogo che ha creato l'impero e che ci ha portato alla guerra, anzi alla Superguerra:

1) Fai in modo che la tua moneta sia l'insostituibile moneta di riserva per tutti, o quasi tutti, gli altri paesi.

2) Non tollerare alcun controllo esterno sulla tua creazione di moneta. Potrai finanziare i tuoi deficit commerciali con il resto del mondo, rendendoli praticamente illimitati.

3) Definisci la tua politica monetaria in base, esclusivamente, ai tuoi interessi nazionali e mantieni gli altri paesi in condizioni di dipendenza dalla tua politica monetaria.

4) Imponi un sistema internazionale di prestiti a tassi d'interesse variabili espressi nella tua valuta. I paesi debitori in crisi dovranno ripagarti di più proprio quando la loro capacità di pagare è minore. Li avrai in pugno.

5) Mantieni nelle tue mani le leve per determinare, all'occorrenza, situazioni di crisi o d'incertezza in altre aree del mondo. Stroncherai sul nascere ogni eventuale aspirante competitore.

6) Imponi con ogni mezzo la massima competizione tra esportatori del resto del mondo. Avrai un afflusso d'importazioni a prezzi decrescenti rispetto a quelli delle tue esportazioni.

7) Intrattieni i migliori rapporti con le élite e le classi medie degli altri paesi, a prescindere dalle loro credenziali democratiche, perché esse sono decisive per sostenere la tua architettura. È essenziale che le élite e le masse di quei paesi non si uniscano attorno a idee di sviluppo "nazionale" o comunque ostili al tuo dominio e alla tua egemonia.

8) Promuovi con ogni mezzo una totale mobilità dei capitali, insieme alla libertà d'investimento internazionale. In questo modo i capitali, nelle condizioni sopra delineate, verranno al tuo indirizzo perché è il luogo migliore, il più sicuro e redditizio. Quanto agli investimenti esteri, assicurati che le tue corporation possano liberamente soccorrere le élite nazionali nella gestione delle loro proprietà finanziarie, dell'educazione privata e pubblica, della tutela della salute, dei sistemi pensionistici ecc.

9) Promuovi con ogni mezzo il libero commercio. Esso varrà per tutti, cioè per gli altri, che non potranno sottrarvici mentre tu lo applicherai se e quando ti converrà.

10) Per controllare che tutto ciò si realizzi ordinatamente, senza conflitti troppo evidenti, ti occorre una struttura di istituzioni sovranazionali che all'apparenza si presentino come riunioni di membri a pari diritto. Darai l'impressione di rispettare un certo pluralismo, mantenendo il loro finanziamento e il loro controllo nelle tue mani.

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Pagina 167

10.
Conclusioni



Il quadro che si delinea dai capitoli precedenti è sicuramente angosciante. Sebbene si possano sollevare numerose obiezioni su aspetti particolari, su dettagli, sullo stile o la forma, credo sia difficile negare che la sostanza è ampiamente corrispondente allo stato delle cose e che le previsioni sono, come minimo, nell'ordine del possibile, anzi del probabile. Diciamo che è un quadro realista.

C'è una via d'uscita altrettanto realista da questa cornice? Esiste la possibilità di evitare la Superguerra e le sue conseguenze? È possibile smuovere l'Impero dalla deriva che ha imboccato? Nelle decine d'incontri pubblici e privati, ampi e ristretti che ho avuto nei mesi scorsi, dopo la tragedia dell'11 settembre e dopo l'inizio della guerra afghana, la domanda mi è stata posta ripetutamente. Ho risposto e rispondo che le possibilità sono state sempre più di quelle che noi siamo capaci d'immaginare ed è estremamente difficile fare previsioni attendibili. La storia è piena di calcoli sbagliati, di profezie che non si sono verificate, di progetti falliti, perfino di esiti che parevano del tutto sicuri alla maggioranza degli osservatori e non sono giunti.

A pochi mesi di distanza dalla svolta dell'11 settembre, vi sono già numerosi segnali che la Superguerra potrebbe incontrare seri ostacoli politici. A cominciare dalle reazioni all'interno degli Stati Uniti. Crescono obiezioni, critiche e proteste contro la strategia della guerra senza limiti di tempo e di spazio. Perfino Clinton, l'ex presidente degli Stati Uniti, ha sentito il bisogno di intervenire al Forum mondiale di New York, all'inizio di febbraio, sottoponendo la strategia dell'amministrazione a una critica serrata e durissima. Vi sono proteste crescenti delle organizzazioni per i diritti umani, di diversi settori dell'intellighenzia statunitense che influenzano e sono influenzate dalle organizzazioni umanitarie internazionali. Vi sono speranze - per quanto flebili - di una relativa ripresa economica, a breve termine, che potrebbe ridurre le tensioni interne e suggerire un corso meno drammatico al presidente degli Stati Uniti.

Vi sono, soprattutto, le reazioni degli altri protagonisti della scena internazionale. L'Impero non è ancora consolidato, è ai suoi primi passi, non ha ancora cancellato gli stati, non ha ancora stabilito un dominio generale. La Cina, la Russia - come s'è detto - non possono accettare senza reagire un corso guerriero come quello che si delinea. È ben vero che gli Stati Uniti dispongono di mezzi di pressione potentissimi e che hanno acquisito con l'Afghanistan una maggiore consapevolezza della propria forza, dell'efficacia dei propri mezzi e dell'impossibilità del resto del mondo di contrastare le loro scelte. Perfino il successo di Washington nel bloccare la crisi fra Pakistan e India, che stava scivolando verso un confronto militare con possibili sviluppi nucleari, incoraggia l'amministrazione americana a perseguire i propri scopi, di fronte alla constatazione che un'azione determinata può stroncare sviluppi indesiderati anche in aree difficili e lontane.

Ma il silenzio della Cina non può essere interpretato come assenso o acquiescenza. La protesta furente di Pechino per l'incidente del Boeing di Jang Zemin sovraccarico di microspie è solo un piccolo accenno di future bufere. Gli osservatori internazionali commetterebbero un errore serio intepretando la moderazione di Pechino come l'accettazione del nuovo stato di cose. Pechino ha tempi diversi da quelli di Bush, non ha scadenze elettorali a breve termine, non ha problemi di rating. Quindi non ha fretta. Basta far capire che non è d'accordo. Il resto verrà con il tempo.

D'altro canto, Putin sta facendo le sue scelte di fronte a un'accentuazione dell'unilateralismo americano sul disarmo. Mosca vede perfettamente che Bush sta avviando un programma di riarmo che include la militarizzazione dello spazio, il mantenimento in servizio delle testate nucleari da smantellare, la ripresa degli esperimenti nucleari. Questo tipo di scelte ha un alto contenuto strategico ed è difficile offrire in cambio merce di altrettanto valore. Cosa che, per altro, Bush non sembra neppure interessato a offrire. Dunque, a meno che Washington non abbia infallibili strumenti di pressione su Putin, ci si deve attendere una crescente resistenza del Cremlino. E la situazione in Asia centrale non è ancora considerata irreversibile a Mosca. Le due potenze asiatiche (quella nascente della Cina, quella ridotta ma non domata della Russia) possono esercitare assieme una contropressione che non è trascurabile neppure per l'Impero nascente. A queste variabili, tutte sul tavolo, si deve aggiungere l'Europa. Dopo cinque mesi di silenzio europeo, il discorso di Bush del 29 gennaio sullo Stato dell'Unione ha segnato un improvviso festival di proteste europee. L'individuazione da parte di Bush dell'Asse del Male rappresentato da Irak, Iran, Corea del Nord è stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. Alti responsabili dell'Unione Europea, come il ministro degli Esteri spagnolo, hanno replicato che l'Ue, al contrario, svilupperà la propria cooperazione con Teheran, mentre i ministri degli Esteri di Francia e Germania hanno apertamente criticato sia il "semplicistico" approccio ai problemi del terrorismo internazionale sia "l'accettazione cieca della politica di repressione di Ariel Sharon". Perfino Blair ha manifestato sintomi di insoddisfazione. Il pericolo comincia a essere avvertito in Europa e si vanno innalzando, anche se in ritardo, le linee difensive nei confronti dell'impostazione americana che, dal punto di vista europeo, crea più problemi di quelli che pretende di risolvere.

Sono segnali rilevanti che esprimono anche una preoccupazione sulla tenuta delle opinioni pubbliche europee di fronte a un dispiegamento della guerra asimmetrica e a una sua rapida estensione all'Irak, primo obiettivo visibile nel mirino di Washington.

Dopo l'emozione dell'11 settembre, che di fatto ha aperto la via a qualsiasi ritorsione, comincia a essere avvertito un cambiamento di registro. Cresce il numero di coloro che invocano una visione più equilibrata e realistica del modo con cui combattere il terrorismo e le sue cause profonde. Chiedono una diversa strategia degli aiuti ai paesi poveri, una correzione delle politiche dei paesi ricchi. In questo contesto, il movimento di Porto Alegre comincia a esercitare un'influenza considerevole nel dibattito sulla globalizzazione e le sue conseguenze.

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