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| << | < | > | >> |IndiceVII Presentazione di Elio Franzini XV Introduzione LIX Nota del curatore PARTE I - Definizioni 5 CAPITOLO 1 – Che cosa rende una situazione estetica? di James Opie Urmson 19 CAPITOLO 2 – Lo statuto della rappresentazione di Richard Wollheim 34 CAPITOLO 3 – La valutazione estetica e le opere d'arte di Peter Frederick Strawson 44 CAPITOLO 4 – Arte come concetto aperto di Morris Weitz 54 CAPITOLO 5 – Una definizione storica dell'arte di Jerrold Levinson 75 CAPITOLO 6 – Lo stile di Arthur Coleman Danto 85 CAPITOLO 7 – La nuova teoria istituzionale dell'arte di George Dickie 98 CAPITOLO 8 – Definizioni funzionali e procedurali di Stephen Davies PARTE II — Contaminazioni 111 CAPITOLO 1 — I problemi estetici della filosofia moderna di Stanley Cavell 124 CAPITOLO 2 — La rappresentazione di Roger Scruton 135 CAPITOLO 3 — Che cosa significano le metafore di Donald Davidson 154 CAPITOLO 4 — Metafora come luce della luna di Nelson Goodman 160 CAPITOLO 5 — Lo statuto logico del discorso di finzione di John Roger Searle 174 CAPITOLO 6 — Verità e riferimento di finzione di Joseph Margolis 185 CAPITOLO 7 — Esiste una realtà delle cose nella narrativa? di Hilary Putnam 190 CAPITOLO 8 — I mondi di finzione di Kendall Walton 201 Bibliografia 205 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina XVChe cosa significa fare analisi In un articolo del 1892 Frege distingue la nozione di «significato» (Bedeutung) dalla nozione di «senso» (Sinn): il «significato» corrisponde all'oggetto che l'espressione denota, il «senso» corrisponde alla modalità con la quale l'oggetto è denotato. Nell'esempio classico: le due espressioni «stella del mattino» e «stella della sera» hanno un «significato» condiviso (l'una e l'altra denotano il pianeta Venere) ma hanno due «sensi» diversi (le modalità con le quali il pianeta Venere è denotato sono diverse). A un «significato» possono corrispondere più «sensi». E a un «senso» può non corrispondere alcun «significato» — che è quel che accade con un'espressione poetica, ad esempio. Ancora seguendo Frege, l'«Ulisse» dell' Odissea ha un «senso» ma non un «significato»: sia il nome «Ulisse» sia le espressioni che narrano la storia dell'eroe greco hanno un «senso» senza avere un «significato», perché «Ulisse» non denota individuo alcuno. Il risultato è che, quando leggiamo l'Odissea, siamo concentrati sul «senso» delle espressioni («la nostra attenzione è tutta assorbita dal dolce suono della lingua e dal senso delle proposizioni che risveglia in noi immagini e sentimenti. Se ci domandassimo se tutto quello che è narrato è vero, cesseremmo di andar dietro al nostro godimento estetico e ci dedicheremmo a una ricerca scientifica. Perciò, fintanto che accettiamo la poesia come un'opera d'arte, per noi è indifferente sapere se il nome "Ulisse" denota qualcosa o no») e non sul «significato» delle espressioni — siamo concentrati sul «nostro godimento estetico» e non sulla verità e sulla falsità del discorso; che chiedono un meccanismo di denotazione in atto, cioè un riferimento che vincola il linguaggio all'esistenza. Nel caso della poesia, Frege salva un «senso» separato dal vero e dal falso, perché il vero e il falso domandano un orizzonte ontologico che agisce da riferimento del discorso. Russell, che è un interlocutore di Frege, nel 1905 pubblica l'articolo On denoting, continuando in area anglosassone il lavoro alle nozioni di «significato» e di «senso». I1 risultato di On Denoting è anticipato da alcune lettere che Russell scrive a Frege tra il 1902 e il 1904, nelle quali critica la nozione di «senso»: c'è «significato» se c'è denotazione, cioè riferimento, e non c'è altro da dire sul discorso, che ha una logica corretta se è dichiarativo – se, cioè, «dice che», alludendo a un orizzonte di esistenza che agisce da riferimento del linguaggio. Il discorso da considerare è quello che informa. Il discorso informa se dichiara. Qualche anno più tardi, nel 1920, in Introduction to Mathematical Philosophy Russell argomenta con un esempio analogo all'«Ulisse» di Frege: «affermare che Amleto, ad esempio, esiste nel suo mondo, cioè nel mondo dell'immaginazione di Shakespeare, con la stessa realtà con cui, diciamo, Napoleone è esistito nel mondo comune, significa fare deliberatamente confusione, anzi fare confusione in un grado difficilmente credibile. Vi è soltanto un mondo, il mondo "reale": l'immaginazione di Shakespeare ne fa parte, e i pensieri che egli aveva scrivendo Amleto sono reali. Altrettanto reali sono i pensieri che la tragedia ci suscita. Ma fa parte dell'essenza stessa del l'invenzione letteraria che solo i pensieri, i sentimenti ecc. di Shakespeare e dei suoi lettori siano reali e che non vi sia, oltre ad essi, un Amleto oggettivo». Non c'è un «Amleto oggettivo» è non c'è un «senso» ad agire in assenza di un «significato»: serve considerare le espressioni che hanno un «significato» e alla poesia non corrisponde un «senso» diverso dal «significato» ma importante nella determinazione della funzione del linguaggio. Russell vira la teoria di Frege verso una visione rigorosamente estensionalistica del discorso: il discorso informa se denota l'esistenza. Del linguaggio va considerata la capacita di dire il vero e il falso, cioè la qualità della relazione con quel che esiste. Va studiata l'estensione del discorso (gli oggetti denotati dalle espressioni) e non l'intensione del discorso (le modalità delle espressioni). La separazione tra il linguaggio che ha verità (scientifico) e il linguaggio che non ha verità (poetico) introdotta da Frege e radicalizzata da Russell è l' exordium dell'estetica analitica, cioè della riflessione sull'arte e sull'esperienza estetica fondata da alcuni tra gli autori che caratterizzano l'Europa dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento (Frege in dialogo con Russell, Wittgenstein che legge Frege e che dal 1911 segue le lezioni di Russell a Cambridge e Carnap, dal 1926 autore essenziale dell'empirismo logico del Circolo di Vienna, allievo di Frege) e che continua nella filosofia anglosassone del Novecento sia in Inghilterra (negli anni Trenta a Cambridge con Russell e Wittgenstein e negli anni Cinquanta a Oxford con Austin e anche con Ryle, Ayer e Strawson) sia negli Stati Uniti (Carnap lascia l'Europa nel 1935 e insegna in alcune tra le Università statunitensi più celebri, in dialogo con Quine e con Goodman, in particolare). A partire dalle suggestioni degli autori attivi tra l'ultimo Ottocento e la prima metà del Novecento, la tradizione filosofica anglosassone registra, dagli anni Cinquanta alla contemporaneità, una riflessione estetica continua e densa, anche se l' exordium sigilla una divisione radicale tra l'oggetto dell'estetica, che non ha verità, e l'oggetto della scienza, che ha verità. Non a caso la genesi dell'estetica analitica non risponde ad alcun interesse specifico per l'arte o per l'esperienza estetica, ma a una domanda sulla relazione tra il linguaggio e l'esistenza: la relazione funziona, perché il linguaggio dice la verità sull'esistenza, quando è dichiarativa, cioè referenziale. E l'analisi dei casi nei quali il linguaggio non stabilisce una relazione referenziale con l'esistenza agevola la messa a fuoco delle qualità che, al contrario, il meccanismo di denotazione deve possedere. L'arte che interessa Frege e Russell è, allora, l'arte che fa uso delle parole, perché agisce da strumento di focalizzazione delle caratteristiche che il discorso con un «significato» non deve avere. E non a caso sono gli autori che non hanno una formazione filosofica stricto sensu analitica a introdurre in area anglosassone l'attenzione ad altre forme artistiche: Langer, in particolare, statunitense che è allieva di Whitehead e che legge Russell e Wittgenstein, ma che studia e che traduce Cassirer, dagli anni Quaranta allarga l'attenzione alle arti figurative e alla musica. Prima degli anni Quaranta, cioè prima che Langer, a partire da Filosofia delle forme simboliche di Cassirer, suggerisca un'analogia essenziale tra il linguaggio scientifico e il linguaggio artistico (sono simbolici ed esercitano una funzione cognitiva, anche se diversa), l'arte, cioè la letteratura analizzata da Frege e da Russell, è un oggetto di attenzione emotiva, escluso dall'orizzonte del vero e del falso. A dare una funzione cognitiva all'arte nei decenni che fondano la tradizione filosofica analitica sono, ancora, autori anglosassoni con una formazione più eclettica: anticipano Langer gli studi di Richards e di Black. Richards, autore inglese che scrive studi importanti a partire dagli anni Venti, suggerisce, contro Russell, che la differenza tra il linguaggio della scienza e il linguaggio dell'arte sia di grado e non di natura e argomenta contro la separazione radicale dell'uno dall'altro. Black, statunitense di origine russa e di formazione inglese, che legge Richards e che è attivo a partire dagli anni Trenta, è concentrato sulla qualità cognitiva della metafora, capace di organizzare con logica l'esperienza. Ma nei primi decenni del Novecento la funzione cognitiva dell'arte è un'appendice a margine della riflessione filosofica analitica. Frege e Russell determinano quel che accade sia in Inghilterra sia negli Stati Uniti — sollecitando sia l'articolazione della tradizione di analisi del linguaggio ordinario (in particolare in Inghilterra, a cominciare da Wittgenstein) sia l'articolazione della tradizione di analisi del linguaggio ideale (in particolare negli Stati Uniti, a cominciare da Carnap). L'una e l'altra condividono il cardine a fondazione della filosofia anglosassone del Novecento: fare filosofia è fare analisi. Quando Urmson, autore essenziale dell'estetica analitica inglese, scrive negli anni centrali del Novecento un articolo a chiarimento di quel che significa fare analisi, parte spiegando quali sono gli strumenti che un filosofo può usare quando lavora, cioè quando prova a rispondere ad alcune domande particolari: «Il filosofo, in quanto tale e per professione, trova enigmatici e pieni di difficoltà i modi di pensare e le forme dell'apparato concettuale di cui ci si serve ordinariamente senza imbarazzo e di cui tutti sembrano a un tempo maestri e soddisfatti. [...] In questo imbarazzo, il filosofo, per risolvere i suoi problemi, sceglie ordinariamente tra due vie. Vi sono dei filosofi che concludono che questi modi di pensare abituali, e con essi il linguaggio ordinario, non sono affatto validi, che questi concetti comuni sono del tutto difettosi. Bisogna dunque sostituirli, pensano, con un modo di pensare, un sistema di concetti, un uso delle parole del linguaggio che permettano una descrizione esatta e soddisfacente della realtà. Tale fu, su per giù, l'opinione di Platone, per il quale la visione quotidiana del mondo non era che illusione e menzogna [...]. Ma vi sono anche dei filosofi che, messi di fronte agli stessi problemi concludono non che i concetti del senso comune sono manchevoli, ma che essi ne hanno una comprensione difettosa. Essi si sentono in dovere di approfondire la comprensione di questi concetti e di dominarne tutte le sfumature. Attraverso lo studio, l'analisi esatta e approfondita di questi concetti e di questi modi di pensare del senso comune si arriverà forse a comprenderli meglio e nello stesso tempo a conoscere meglio la realtà. Tale era il punto di vista di Aristotele nella sua Etica a Nicomaco [...]; tale è anche il punto di partenza dell'analisi filosofica». Urmson dice che analizzare significa studiare i «concetti» del «senso comune» e, nelle righe successive, quando spiega qual è il meccanismo di funzionamento dell'analisi classica, che è quella di Russell, aggiunge: «Analizzare significa riformulare o anche tradurre in termini migliori». «Analizzare» significa, cioè, considerare «le forme dell'apparato concettuale» «enigmatic[he]» e «riformulare o anche tradurre in termini migliori» – fare analisi significa, allora, «sciogliere» (dal verbo greco analyo: «sciolgo») gli enigmi del linguaggio nel linguaggio. È questo il cardine a fondazione della tradizione filosofica analitica. | << | < | > | >> |Pagina XXXIIIl giudizio dell'arte: il genitivo oggettivoL'estetica analitica che va dagli anni Cinquanta alla contemporaneità, e che è documentata dai materiali selezionati in questa antologia, ruota attorno a un interrogativo essenziale che ha due nature diverse: la domanda «qual è il giudizio dell'arte?», che fa da titolo a questo paragrafo e al successivo, chiede sia «qual è il giudizio dato sull' arte?», con un genitivo oggettivo che fa dell'arte il complemento oggetto della frase, sia «qual è il giudizio dato dall' arte?», con un genitivo soggettivo che fa dell'arte il soggetto della frase. Cominciando dal genitivo oggettivo, cioè dal giudizio dato sull'arte, incontriamo una serie varia e densa di risposte: l'estetica analitica ha un interesse particolare alla definizione dell'arte. Questo dato sollecita due quesiti: «perché definizione?» (la filosofia analitica argomenta contro la gnoseologia di tradizione epistemica e fa del linguaggio uno strumento di analisi di sé e non di ricerca di essenze a fondazione di definizioni generali) e «perché arte?» (la filosofia analitica ha genesi dalla separazione del linguaggio che ha «significato» da quello che non ha «significato» e che è, in particolare, il linguaggio dell'arte). La risposta alla prima domanda è che l'attenzione degli autori dell'estetica analitica alla definizione dell'arte va alle relazioni, non alle essenze. La definizione più celebre data dalla tradizione estetica analitica all'arte è la definizione «istituzionale» suggerita da Danto ed elaborata da Dickie: è arte l'oggetto che ha una relazione particolare con la struttura che Danto chiama «mondo dell'arte» e che Dickie, in La nuova teoria istituzionale dell'arte (qui tradotto), fa corrispondere ai «ruoli dell'artista e del pubblico», che «costituiscono la struttura essenziale» del «mondo dell'arte», «in aggiunta» a «un certo numero di ruoli supplementari». Dickie arriva a questa definizione: «un'opera d'arte è un artefatto di un certo genere creato per essere presentato a un pubblico del mondo dell'arte». La definizione «istituzionale» è fondata dalle relazioni tra gli elementi di una struttura. Due relazioni, in particolare, sono essenziali: la relazione tra l'artista e l'opera d'arte (l'artista crea un oggetto che è un «artefatto», cioè un oggetto «fatto dall'uomo, con un'attenzione rivolta, in particolare, all'uso successivo») e la relazione tra l'opera d'arte e il pubblico (l'«uso successivo» dell'oggetto corrisponde alla «presentazione pubblica», cioè all'incontro tra l'«artefatto» e la struttura «istituzionale» del «mondo dell'arte»). Sia la prima condizione, che è la creazione di un «artefatto», sia la seconda condizione, che è la «presentazione» dell'«artefatto» a un pubblico, sono relazioni necessarie e sufficienti e non caratteristiche necessarie e sufficienti — sono condizioni estrinseche all'oggetto e non condizioni intrinseche all'oggetto, perché la nozione di «artefatto» è data dalla relazione tra l'artista e l'oggetto e la nozione di «presentazione» è data dalla relazione tra l'oggetto e il pubblico. A fondare la definizione «istituzionale» dell'arte non è la determinazione di un'essenza, ma la determinazione di una struttura di relazioni. In Una definizione storica dell'arte (qui tradotto) Levinson dà una definizione dell'arte che corregge la definizione «istituzionale»: «X è un'opera d'arte» se «è un oggetto che una persona [...] destina a essere guardato-come-opera-d'-arte, [...] in qualsiasi modo (o modi) attraverso il quale le opere d'arte precedenti sono o sono state [...] guardate». La definizione «storica» dell'arte sostituisce la nozione di «mondo dell'arte» con la nozione di «storia dell'arte», ma conserva la visione essenziale della definizione «istituzionale» secondo la quale «essere un'opera d'arte non ha a che fare con una proprietà intrinseca [...] di una cosa, ma dipende da un genere particolare di relazione tra la cosa e l'attività» di creazione «storica» dell'arte. La definizione «storica» dell'arte, allora, è data dalla «relazione tra l'arte e la sua storia». Levinson corregge la definizione di Danto e di Dickie perché crede che la concentrazione sulla struttura «istituzionale» del «mondo dell'arte» riconosca alla «sociologia» un'azione determinante sul destino dell'arte, che sposta l'attenzione da quel che, al contrario, serve focalizzare: lo «sguardo» che all'opera d'arte è destinato, che è vincolato alla nozione di «apprezzamento» estetico. La «relazione tra l'arte e la sua storia» corrisponde alla relazione tra gli sguardi contingenti e gli sguardi storici, cioè tra le vie di «apprezzamento» contingenti e le vie di «apprezzamento» storiche: dare una definizione dell'arte significa riconoscere un'analogia tra l'atteggiamento estetico che caratterizza uno «sguardo» contemporaneo all'arte e l'atteggiamento estetico che caratterizza uno «sguardo» storico all'arte. E la nozione di atteggiamento estetico, che Levinson chiama «apprezzamento», sottolinea che lo «sguardo» all'arte è vincolato all'articolazione del gusto nella storia, che non corrisponde a una materia alla quale la «sociologia dell'arte» può dare da sé una soluzione. | << | < | > | >> |Pagina XLIVIl giudizio dell'arte: il genitivo soggettivoFormulare il quesito con il quale Danto chiude le pagine sullo stile significa passare dalla prima domanda, cioè «qual è il giudizio dato sull'arte?», con un genitivo oggettivo, alla seconda domanda, cioè «qual è il giudizio dato dall'arte?», con un genitivo soggettivo – significa interrogare quale funzione gnoseologica l'arte esercita. È una domanda critica: l'analisi delle funzioni gnoseologiche delle articolazioni del linguaggio è essenziale in sé nella tradizione filosofica analitica, ma gli autori che dirigono la genesi dell'estetica analitica tolgono all'arte qualsiasi genere di abilità cognitiva. E, specialmente, anche quando torna all'arte una capacità gnoseologica specifica (con Langer, con Richards e con Black, ma anche con gli autori dell'ultimo Novecento, a cominciare da Goodman), è necessario capire quale abilità cognitiva l'arte può esercitare in una struttura di funzioni gnoseologiche absolute dal riferimento classico, cioè «sciolte» dal vincolo di corrispondenza epistemica tra il linguaggio e il mondo. Nel corso di questo paragrafo serve dare attenzione costante, allora, a due spazi di analisi, che rispondono a due domande: «su quale genere di oggetti l'arte dà informazioni?» e «con quale genere di verità?». La prima è una domanda sul riferimento dell'arte – e, al di là delle soluzioni specifiche date ad hoc dagli autori, è necessario osservare che, dopo Wittgenstein in Inghilterra, che scrive che un'«immagine» «dice se stessa», e dopo Carnap negli Stati Uniti, che scrive che «cinque» non è una cosa ma un numero, fare una domanda sul riferimento non significa uscire dal linguaggio, ma analizzare i suoi criteri, la sua coerenza e i suoi oggetti. La seconda è una domanda sulla qualità gnoseologica dell'arte – e qui allude, in particolare, sia alla comparazione tra la verità del linguaggio dimostrativo e la verità del linguaggio non dimostrativo sia alla capacità cognitiva, da alcuni autori argomentata e dda altri controargomentata, del linguaggio non dimostrativo dell'arte. Le occasioni di risposta alle due domande arrivano sia dall'«Ulisse» di Frege e dall'«Amleto» di Russell sia dall'«immagine» di Wittgenstein: l'estetica analitica, cioè, aggiunge all'interesse di Frege e di Russell sull'arte discorsiva, che continua a caratterizzare con continuità gli studi di area anglosassone, l'interesse all'arte figurativa. Anche gli altri generi artistici sono materia di analisi (la musica, in particolare), specialmente a partire dagli ultimi decenni del Novecento, ma i classici dell'estetica analitica sono legati, ancora, all'arte discorsiva o all'arte figurativa — e, con più frequenza, sono il discorso e la figura le occasioni di risposta alle domande sul riferimento dell'arte e sulla qualità gnoseologica dell'arte. Lo stilus di Danto fa della figura lasciata «sulla superficie» una rappresentazione, perché lo stilus è uno «strumento di rappresentazione». Danto indica una via di risposta alle domande formulate che è frequente tra gli autori analitici: chiedere «su quale genere di oggetti l'arte dà informazioni?» e «con quale genere di verità?» significa, ad esempio, analizzare il funzionamento del meccanismo di rappresentazione nell'arte figurativa. La soluzione di Danto è che lo stile dell'arte figurativa rappresenta la «fisionomia» del «carattere» dell'artista: l'arte figurativa, attraverso lo stile, è la rappresentazione del «sistema» delle «rappresentazioni» dell'artista. È la rappresentazione della visione che l'artista ha delle cose — ancora, non è la rappresentazione delle cose, ma della visione delle cose. E questa è una risposta paradigmatica tra gli autori analitici: la concentrazione è sulla logica del soggetto che rappresenta, non sull'ontologia dell'oggetto che è rappresentato. | << | < | > | >> |Pagina LVIIL'ultimo autore qui selezionato è Putnam, che in Esiste una realtà delle cose nella narrativa? dà prova di che cosa può significare nella riflessione estetica una visione filosofica che, da una genesi contraria a un progetto di fondazione, arriva alla relatività gnoseologica dell'«indeterminatezza della traduzione» di Quine. Il criterio di Quine dice che il discorso che spiega il «significato» di una proposizione è relativo al «manuale di traduzione» in uso, cioè a un'«interpretazione» particolare, e questo è visibile specialmente nella critica letteraria, nella quale la varietà di posizioni a proposito di un testo suggerisce che sia corretto parlare di «interpretazioni» del testo e non di «significato» del testo. Putnam alleggerisce la relatività di Quine e, in particolare, salva una nozione di oggettività: la varietà delle «interpretazioni» del testo indica l'azione di un criterio di «relatività all'interesse» e non di «indeterminatezza della traduzione». Le «interpretazioni» sono numerose e diverse, ma ciascuna, interessata a «implicazioni» specifiche, ha un'oggettività sui generis. Un'«interpretazione», allora, somiglia più a un «commentario» che a un'«esegesi», perché «deve dipendere da quelle che sono per noi questioni importanti, dai nostri interessi, dalle nostre ipotesi, persino (purtroppo) dalle nostre mode intellettuali. Non potrà mai esserci un commentario definitivo, uno che sia perfetto dal punto di vista di ogni posizione culturale, di ogni insieme d'interessi e di ipotesi». Ma un'«esegesi non banale deve, in quanto tale, essere carica di commentario».Putnam chiude con un'immagine: la critica letteraria va considerata «una conversazione a più voci» e non «una battaglia con vincitori e vinti». E questo è uno tra i «sensi» essenziali del lavoro filosofico analitico, che nella contemporaneità è una scelta che va alla descrizione — che porta la varietà straordinaria degli sguardi, ma che perde la capacità dello sguardo metafisico, che domanda e che risponde sulle condizioni a fondazione dell'attuale e del possibile, anche quando la domanda, che è sulle parole di Amleto a Orazio nella scena seconda dell'atto quinto di Amleto, ha una risposta su una verità che non dichiara, che non «dice se stessa» e che non è muta, ma che è simbolica. L'allargamento al discorso che non dichiara, che non «dice se stess[o]» e che non è muto può essere il risultato dell'attenzione che la filosofia analitica, nella contemporaneità, comincia a dirigere alla storia, che aggiunge l'orizzontalità alla verticalità, cioè la cognizione del possibile alla cognizione dell'attuale. La filosofia analitica, allora, che avverte altre tradizioni filosofiche che fare filosofia non significa esercitare un genere letterario, ha un destino aperto a più di una strada: se sceglie la «de-trascendentalizzazione» di Rorty, arriva a non domandare e a non rispondere più sulla verità, perché la volontà è quella di «cambiare argomento», ma se sceglie l'apertura alla contaminazione e lo studio della storia (con quel ritorno a Kant, ad esempio, che gli ultimi anni registrano), può continuare un lavoro importante, che può agire da exemplum, in particolare, della costruzione del dialogo tra la filosofia e la scienza, l'una ancora capace di essere essenziale all'altra, perché, senza essere tradotta nella scienza, a questa continua a dire quali sono le condizioni a fondazione delle scelte che fa.
Simona Chiodo
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