Copertina
Autore Noam Chomsky
Titolo Illusioni necessarie
SottotitoloMass media e democrazia
Edizioneeleuthera, Milano, 1991
OriginaleNecessary Illusions Thought Control in Democratic Societies [1989]
TraduttoreRoberto Ambrosoli
LettoreRenato di Stefano, 1997
Classe politica , media
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al sito dell'editore








 

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Indice


INDICE
Introduzione all'edizione italiana 7 Prefazione 21 I. Democrazia e media 23 II. Contenere il nemico 57 III. I limiti dell'esprimibile 93 IV. Articolazioni del potere 139 V. L'utilità delle interpretazioni 185  

 

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Pagina 36

Vi sono molti altri fattori che inducono i media a conformarsi alle richieste provenienti dal connubio Stato-grandi corporazioni. Mettersi contro il potere costa ed è difficile; sono necessari standard elevati di prova e argomentazione, e l'analisi critica è naturalmente poco gradita a coloro che si trovano nella condizione di reagire efficacemente tramite un sistema di ricompense e punizioni. L'adeguamento a «criteri patriottici», invece, non comporta tali costi. Le accuse mosse ai nemici ufficiali raramente richiedono prove concrete; inoltre non sono sottoposte all'obbligo della rettifica, che può essere rifiutata come apologia di reato. Il sistema si protegge con l'indignazione quando viene messo in discussione il suo diritto ad ingannare se ciò vien fatto al servizio del potere, e l'idea stessa di sottoporre il sistema ideologico al controllo razionale suscita incomprensione o scandalo, anche se spesso le motivazioni sono variamente mascherate. Chi attribuisce le migliori intenzioni al governo USA, pur deplorandone mancanze e inettitudine, non ha bisogno di comprovare una tale presa di posizione, come quando ci si chiede perché «il successo continua a venirci meno» in Medio Oriente e in America centrale, perché «una nazione tanto dotata di mezzi, potere e buone intenzioni [non possa] realizzare i propri scopi con maggiore rapidità ed efficacia» (Landrum Bolling ).

Gli standard sono del tutto differenti se invece si afferma che le «buone intenzioni» non sono attributi statali e che gli Stati Uniti, come ogni altro Stato passato e presente, perseguono politiche che riflettono gli interessi di coloro che ne costituiscono la classe dirigente, ovvietà ben difficilmente enunciabile senza andare controcorrente, per quanto la cosa possa sembrare sorprendente.

Non c'è bisogno di portare alcuna prova per condannare l'Unione Sovietica per l'aggressione dell'Afghanistan o per l'aiuto fornito alla repressione in Polonia; ma la faccenda è completamente diversa se si tratta dell'aggressione americana in Indocina o degli sforzi continui per impedire una soluzione politica del conflitto arabo-israeliano, tutte cose ampiamente documentate ma sgradite e quindi ufficialmente inesistenti. Nessuna prova è richiesta per accusare l'Iran o la Libia di terrorismo di Stato, ma affrontare tale argomento a proposito dell'apporto decisivo, e probabilmente predominante, fornito dagli USA e dai loro satelliti a questa peste dell'epoca moderna genera soltanto indignazione e disprezzo per un simile punto di vista. E l'eventuale materiale di prova, ancorché abbondante, viene ignorato come irrilevante. Di conseguenza, i media e i giornali intellettuali o lodano il governo USA per il suo impegno nella lotta per la democrazia in Nicaragua, oppure lo criticano a causa degli strumenti che impiega nel perseguimento di tale lodevole obiettivo, senza mettere in discussione se è effettivamente questo il fine della sua politica. Mettere in questione l'assunto patriottico sottinteso è virtualmente impensabile all'interno dell'ideologia dominante e, ove ne fosse permessa l'espressione, tale idea verrebbe rifiutata come una specie di fanatismo ideologico, o un'assurdità, anche se fosse sostenuta dalle prove più evidenti (il che non sarebbe difficile nel caso specifico).

Poco per volta, si scopre che il conformismo è più semplice e permette di ottenere privilegi e prestigio; il dissenso invece ha dei costi specifici che possono anche essere pesanti, pur in una società che non ha mezzi di controllo come le squadre della morte, i manicomi-prigioni, o i campi di sterminio. La struttura stessa dei media è concepita per indurre ad uniformarsi alle ideologie dominanti. In un breve comunicato di tre minuti, stretto in mezzo agli spot pubblicitari, o in un servizio di settecento parole, è impossibile presentare concetti inconsueti o conclusioni non conformiste con tutte quelle argomentazioni e prove necessarie a garantire una certa credibilità.

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Pagina 40

[...] Come nel caso della dottrina settecentesca sulle notizie sediziose, la verità non costituisce elemento di difesa; al contrario, accresce l'enormità del delitto di leso prestigio dell'autorità. Se le conclusioni tratte con il modello di propaganda sono esatte, allora le critiche mosse ai media per il loro atteggiamento antagonistico possono essere interpretate solo come il desiderio che i media si astengano dal riflettere il dibattito su questioni tattiche in corso tra le elite dominanti e si limitino a servire solo quelle frazioni che si trovano a dirigere lo Stato in un particolare momento. E questo con il giusto entusiasmo e il necessario ottimismo verso la causa (nobile per definizione) in cui il potere statale è impegnato. George Orwell non si sarebbe meravigliato che tale fosse il significato della critica mossa ai media da un'organizzazione che si autodefinisce «Freedom House» (Casa della Libertà). Non di rado i giornalisti svolgono il proprio lavoro con notevole professionalità, mostrando coraggio, integrità e spirito di iniziativa, e ciò vale anche per quanti lavorano in quei media che aderiscono più strettamente alle previsioni del modello di propaganda. Non v'è contraddizione in questo. Ciò che viene messo in questione non è l'onestà delle opinioni espresse o l'integrità di coloro che espongono i fatti, quanto piuttosto la scelta degli argomenti e la loro enfatizzazione, lo spettro delle opinioni cui è consentito manifestarsi, le tacite e indiscusse premesse che guidano le cronache e i commenti e l'inquadramento generale che viene imposto per presentare una certa immagine del mondo. Non ci serve, sia detto per inciso, insistere su dichiarazioni come quella che faceva bella mostra di sé sulla copertina di «New Republic» durante l'invasione israeliana del Libano: «Gran parte di quanto avete letto sui giornali e sulle riviste a proposito della guerra in Libano (e di quanto avete visto alla televisione) è semplicemente falso». Manifestazioni di questo genere possono essere consegnate ai tristi archivi ove sono raccolte le apologie delle atrocità compiute dai propri Stati favoriti.

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Pagina

II
CONTENERE IL NEMICO
Nel primo capitolo ho accennato a tre modelli organizzativi dei media: 1) l'oligopolio privato, 2) il controllo statale, 3) una politica democratica della comunicazione, come nella proposta dei vescovi brasiliani. Nel primo modello la partecipazione democratica è ridotta a zero, come del resto in tutte le grandi società per azioni, che per definizione sono sganciate da qualunque controllo da parte dei lavoratori o della comunità. Nel secondo caso, la partecipazione democratica può variare a seconda del funzionamento del sistema politico; nella pratica, i media statali sono sottoposti al controllo delle forze che detengono il potere nello Stato e di un apparato di funzionari che non consente di allontanarsi eccessivamente dalle direttive imposte da tali forze. Il terzo modello organizzativo è ancora in gran parte da sperimentare, nel senso che un sistema sociopolitico dove sia presente in misura significativa il coinvolgimento popolare resta tuttora nell'ambito del futuro, come speranza o come timore a seconda del modo in cui viene valutato il diritto popolare ad assumersi la gestione dei propri affari.

I media organizzati secondo il modello oligopolistico sono tipici della democrazia capitalistica e quindi le forme più estreme si trovano nelle più avanzate di queste società, soprattutto negli Stati Uniti, dove i media sono assai concentrati; lo sviluppo della radio-televisione pubblica è limitato e limitata è anche la presenza di elementi del modello democratico radicale, come le radio libere, oppure la stampa alternativa e locale. Tale elementi restano complessivamente marginali quantunque a volte il loro effetto sulla cultura sociale e politica può anche essere non irrilevante al livello delle singole realtà che ne beneficiano.

Sotto questo aspetto, gli Stati Uniti rappresentano la forma cui tende la democrazia capitalistica, con la progressiva eliminazione delle organizzazioni sindacali o popolari che possono interferire con il potere privato, con un sistema elettorale che lo Stato gestisce sempre più come un esercizio di pubbliche relazioni, con la rinuncia a misure di assistenza sociale che possano avere effetti negativi sulle prerogative dei ceti privilegiati, eccetera. Cyrus Vance ed Henry Kissinger hanno perfettamente ragione a descrivere gli Stati Uniti come «una democrazia modello», visto che per democrazia si intende un sistema dove il potere economico controlla la politica e tutte le principali istituzioni.

In genere, le altre democrazie occidentali sotto questo punto di vista sono leggermente più arretrate. La maggior parte di esse non è ancora arrivata al sistema americano di partito unico, diviso in due fazioni controllate da segmenti diversi e mutevoli del potere economico. In esse esistono ancora partiti in qualche modo legati agli interessi della loro base. Essi sono però in declino, come lo sono le istituzioni culturali che appoggiano valori e interessi diversi da quelli dominanti, e le organizzazioni che forniscono ai singoli i mezzi per pensare e agire al di fuori dell'assetto imposto dal potere privato.

Questo è il corso naturale degli eventi nelle democrazie capitalistiche, a causa di ciò che Joshua Cohen e Joel Rogers chiamano «limitazione delle risorse» e «limitazione della domanda».

Nel primo caso, il significato è evidente: il controllo delle risorse è fortemente concentrato, il che porta a prevedibili effetti su tutti gli aspetti della vita politica e sociale. La limitazione della domanda è un mezzo di controllo più sottile ed i suoi effetti sono raramente osservabili in modo diretto in una democrazia capitalistica che funziona correttamente, come sono gli Stati Uniti, mentre diventano evidenti ad esempio in America latina, dove il sistema politico permette a volte una gamma più ampia di opzioni politiche, ivi compresi alcuni programmi di riforma sociale. Le conseguenze sono ben note: fuga di capitali, sfiducia da parte degli investitori e, in generale, declino sociale man mano che coloro che «possiedono il Paese» perdono la capacità di governarlo, oppure, più semplicemente, un golpe militare tipicamente appoggiato da chi in quell'emisfero esercita la funzione di guardiano dell'ordine e del bene pubblico. Anche la risposta più benevola ai programmi di riforma illustra bene la limitazione della domanda, cioè la necessità che gli interessi di coloro che detengono il potere siano soddisfatti se si vuole che la società funzioni.

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Pagina 93

III
I LIMITI DELL'ESPRIMIBILE
E' vero che ben di rado appare qualcosa di nuovo sotto il sole, eppure accade a volte di imbattersi in situazioni in cui le idee tradizionali vengono rimodellate e una consapevolezza nuova prende forma, mentre le opportunità che le vengono offerte appaiono in una luce diversa. La costruzione delle illusioni necessarie alla gestione della società è vecchia quanto il mondo, eppure l'anno 1917 può essere considerato una sorta di transizione all'epoca moderna. La rivoluzione bolscevica aveva permesso la realizzazione della concezione leninista secondo la quale l'intellighenzia radicale è l'avanguardia del progresso sociale e può sfruttare le lotte popolari per impossessarsi di quel potere statale che avrebbe permesso di imporre il dominio della «burocrazia rossa», come già aveva previsto Bakunin. E ciò è stato proprio quanto i bolscevichi hanno fatto, distruggendo i consigli di fabbrica, i soviet e le altre forme di organizzazione popolare, in modo da trasformare la popolazione in un efficiente «esercito da lavoro» sottomesso al controllo di capi «lungimiranti» che avrebbero guidato la società (ovviamente con le migliori intenzioni). Per raggiungere questo fine, è diventato fondamentale il ricorso alle tecniche di agitprop: anche Stati totalitari come quello di Hitler o di Stalin debbono affidarsi alla mobilitazione di massa e alla sottomissione volontaria.

Uno dei capisaldi della propaganda sovietica è che eliminando ogni forma di controllo del processo produttivo da parte dei produttori stessi e di coinvolgimento della popolazione nella progettazione politica, così come hanno fatto Lenin e Trotskij, si realizzi il trionfo del socialismo. Questo esempio di esercitazione in Neolingua ha lo scopo di sfruttare il fascino morale di quegli ideali che tanto efficacemente si cerca di distruggere. La propaganda occidentale ha sfruttato la medesima opportunità, identificando come costruzione del socialismo, lo smantellamento delle realizzazioni genuinamente socialiste, in modo da minare gli ideali della sinistra libertaria assimilandoli a quelli perseguiti dalla burocrazia rossa. Entrambi i sistemi propagandistici hanno dunque adottato un'unica terminologia, ciascuno per i propri scopi. E quando i due principali sistemi propagandistici del mondo si trovano d'accordo, è insolitamente difficile per gli individui sfuggirne i tentacoli. Il contraccolpo che in tutto il globo si è abbattuto sulla libertà e la democrazia è stato tremendo.

In quel medesimo 1917, il gruppo di pragmatici liberal che si era costituito attorno a John Dewey è riuscito a spingere su posizioni belliciste una popolazione che fino ad allora era stata pacifista «grazie all'influenza morale esercitata dalla ferrea decisione dei membri più saggi della comunità... una classe che può essere approssimativamente descritta nel suo complesso come 'gli intellettuali'», i quali «si sono dati efficacemente da fare a favore della guerra». Ciò ha avuto conseguenze di vasta portata. Dewey, il mentore degli intellettuali, spiegava che «tale lezione psicologica ed educativa» era la prova «che è possibile agli esseri umani farsi carico dei propri interessi e gestirli». Gli «esseri umani» cui era diretta la lezione altri non erano che «le persone intelligenti della comunità», la «classe specializzata» di Lippmann, gli «osservatori distaccati» di Niebuhr. Costoro devono ora volgere il proprio talento «alla realizzazione di un ordine sociale meglio organizzato», per mezzo della pianificazione, della persuasione o della forza se necessario; non la forza «ovvia e brutale dei metodi diretti» notava Dewey, impiegata prima «dei progressi della conoscenza», bensì una forza «affinata, sottile e indiretta». Il ricorso sofisticato alla forza è giustificato se soddisfa la condizione di «efficienza relativa ed economicità d'uso». Le dottrine da poco elaborate circa la «costruzione del consenso» sono state il corollario naturale di questa concezione, e negli anni successivi sentiremo spesso parlare di «intellettuali tecnocratici e politicamente capaci» che trascendono le ideologie e risolvono i problemi sociali per mezzo dell'applicazione razionale di princìpi scientifici.

Da allora, il nucleo principale dell'intellighenzia ha teso verso questo o quello dei due poli, evitando «dogmatismi democratici» circa la capacità della gente comune di farsi carico dei propri interessi e tenendo presente la «stupidità dell'uomo medio», cioè la necessità di spingerlo verso quel mondo migliore che i suoi superiori hanno progettato per lui. Gli spostamenti dall'uno all'altro polo possono essere assai rapidi ed indolori, dal momento che non richiedono modificazioni radicali di dottrina o valori, ma solo una valutazione delle opportunità che si offrono alla conquista del potere e dei privilegi: oggi si può cavalcare la tigre di una lotta popolare, domani servire l'autorità costituita come sociologo o ideologo. Il classico passaggio dagli entusiasmi leninisti al capitalismo di Stato, credo possa essere spiegato sostanzialmente in questi termini. All'inizio forse c'è stato anche qualcosa di autentico, ma da allora tutto è degenerato in una farsa ritualistica. Particolarmente apprezzata, sicuro passaporto per il successo, è la fabbricazione di un passato negativo. Così, il peccatore pentito può descrivere il favore con cui ha accolto i carri armati a Praga, il suo entusiasmo per Yim Il Sung, la sua denuncia di Martin Luther King come venduto e via dicendo, a monito ed edificazione per chi non ha ancora visto la luce. Una volta effettuato il passaggio, la strada verso il prestigio e il privilegio è aperta, perché il sistema tiene in gran pregio coloro che hanno compreso il proprio errore e possono ora condannare ogni individuo indipendente come un apologeta di Stalin, sulla base della superiore consapevolezza acquisita attraverso le esperienze della propria gioventù dissipata. E qualcuno può decidere di diventare un «esperto» del tipo candidamente descritto da Henry Kissinger, che ha definito l'esperto come colui che sa «elaborare e definire... l'opinione generale... del suo elettorato», vale a dire di coloro che «hanno un interesse costituito per le opinioni comunemente condivise, per cui il fatto stesso di elaborare e definire quell'opinione generale, a un certo livello, fa di lui un esperto».

Una generazione più tardi, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica erano diventate le superpotenze del primo vero sistema globale, realizzando quanto Alexander Herzen ed altri avevano previsto un secolo prima, nonostante la portata dei rispettivi poteri non sia mai stata comparabile e nonostante la capacità coercitiva di ambedue vada declinando da qualche anno. In entrambi i casi, il ruolo degli intellettuali è fondamentalmente simile, sia pur adattato al funzionamento dell'uno o dell'altro sistema di dominio. E anche le modalità di indottrinamento possono variare, a seconda della capacità coercitiva dello Stato e dell'effettivo controllo esercitato. Il sistema più interessante è quello della democrazia capitalistica, che fa affidamento al libero mercato (guidato da un intervento diretto, ove necessario) al fine di instaurare la conformità e marginalizzare gli «interessi particolari».

La fabbricazione del consenso è innanzi tutto indirizzata verso quelli che sono ritenuti «i membri più saggi della comunità», gli «intellettuali», gli «opinion leader». Un funzionario dell'Amministrazione Truman notava che per il grosso pubblico i dettagli di un programma non sono molto importanti. Ciò che conta è come il programma è visto dai leader della comunità»; secondo un esperto «chi mobilita le elite, mobilita la gente». La cosiddetta «pubblica opinione» che «Truman e i suoi consiglieri prendevano tanto sul serio e cercavano diligentemente di coltivare», era quella degli opinion leader, del «pubblico attento alla politica estera», osserva lo storico Thomas Paterson; e lo stesso succede ai nostri giorni, tranne quando si presenta una «crisi della democrazia» da debellare e diventano allora necessarie misure più efficaci per ricondurre il grosso pubblico nei propri limiti. Nei casi normali è sufficiente qualche manovra diversiva e la solita dose di propaganda patriottica ai danni di nemici variamente assortiti che metterebbero in pericolo la patria se i governanti non si opponessero con vigore alla minaccia che rappresentano.

Nel sistema democratico, le illusioni necessarie non possono essere imposte con la forza. Devono essere istillate nella mente delle persone con mezzi più raffinati. In uno Stato totalitario è necessario un grado minore di adeguamento alle verità ufficiali. E' sufficiente che la gente obbedisca: quel che pensa ha un'importanza secondaria. Ma in democrazia c'è sempre il pericolo che il pensiero indipendente dia origine ad una qualche azione politica, quindi è indispensabile eliminare tale pericolo alla base.

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Pagina 182

I risultati conseguiti dalla politica USA in Centro America nel decennio passato costituiscono una grande tragedia, non solo per il prezzo pagato in vite umane, ma perché dieci anni fa nella regione si andavano facendo i primi promettenti passi verso un'organizzazione popolare e la soddisfazione delle necessità umane fondamentali, con successi che avrebbero potuto essere di stimolo ad altri travagliati da problemi simili: proprio quello che i pianificatori USA temono di più. Questi primi passi sono stati fatti abortire e forse non saranno più fatti altri tentativi.

Le realizzazioni dell'Amministrazione Reagan in Nicaragua, descritte da fredde statistiche che citano cadaveri, malnutrizione, malattie infantili e simili, acquistano una luce più umana quando, di tanto in tanto, si va a dare un'occhiata alla vita delle vittime. Julia Preston fornisce a tal proposito uno dei rari esempi rintracciabili nei grandi media, con un articolo dal titolo "A Jalapa le durezze della guerra favoriscono la causa sandinista". Jalapa, scrive la Preston, è una cittadina sulla lingua di terra che si infila nell'ostile Honduras, un'area facilmente accessibile ai «figli di Reagan», che stanno nelle basi dislocate in quel Paese, e ampiamente esposta alla propaganda antisandinista diramata dalle potenti emittenti americane ivi istallate. Sarebbe dunque il luogo ideale ove i contras potrebbero mettere a frutto gli insegnamenti ricevuti dai loro istruttori della CIA, dimostrando quella loro «crescente sicurezza e abilità» che tanto ha impressionato A.M. Rosenthal alla lettura degli «accurati e sensibili reportage di James LeMoyne».

A Jalapa, invece, i contras vengono disprezzati, scrive la Preston, come mercenari che «si sono sbagliati» circa «il lavoro sicuro e ben pagato» che speravano di avere dagli Stati Uniti. «La guerra dei contras ha lasciato i jalapiani più poveri e affamati che mai». La malnutrizione è preoccupante e l'ospedale, costruito nel 1982 come «simbolo dell'impegno sandinista per il miglioramento delle condizioni sociali», è quasi vuoto perché la gente sa che «là mancano i mezzi per prendersi cura di loro» a causa delle necessità belliche; cosa di cui i cittadini USA possono andare orgogliosi. Eppure, «tutto questo non ha spinto Jalapa contro la rivoluzione sandinista». Perfino gli antisandinisti della città «vedono nella guerra solo un nuovo stadio della storia di prevaricazioni USA, di cui la dinastia Somoza è stata un esempio incancellabile». Le campagne per l'alfabetizzazione e «l'esplosione scolastica», ben presto ridotte ai minimi termini dalla violenza USA, «riscuotono grande favore» a Jalapa, anche se negli Stati Uniti vengono stigmatizzate come un esperimento totalitario. Molti di quelli che risiedono in città riconoscono che «la società di oggi è meno formale e più ugualitaria». I contadini non sono più «servili» né i proprietari «altezzOSi», come avveniva sotto il regime di Somoza. «I sandinisti per la prima volta hanno reso accessibile ai piccoli agricoltori il credito bancario» e oggi «tutti condividono la medesima indigenza» anche se con «un senso di frustrazione» perché Reagan è riuscito a «ritardare la rivoluzione».

Gli obiettivi a lungo termine dell'Amministrazione Reagan in Centro America sono stati chiari fin dall'inizio. Shultz, Abrams, Kirkpatrick e compagnia rappresentano l'ala estremista dello spettro politico, con il loro entusiasmo per il terrore e la violenza, ma gli obiettivi generali della sua politica sono convenzionali e profondamente radicati nella tradizione e nelle istituzioni statunitensi; ed è per questo che hanno ricevuto scarsissime critiche da parte della cultura dominante. Ed è sempre per il medesimo motivo che ci si può aspettare che proseguano. Quello che serve è annientare «le organizzazioni popolari che lottano per difendere i diritti umani fondamentali» (arcivescovo Romero) ed eliminare il pericolo di «ultranazionalismo» nelle «democrazie in fasce». Quanto al Nicaragua, se non è possibile ricondurlo con la forza nel «contesto centroamericano» di repressione e sfruttamento, bisogna per lo meno realizzare quanto minacciava nel 1981 un funzionario del Dipartimento di Stato: «trasformare il Nicaragua nell'Albania del Centro America, cioè povero, isolato ed estremista». Il governo USA deve assicurare che «diventi un'Albania latinoamericana», cosicché «il sogno sandinista di costituire un modello politico esemplare per tutta l'America latina vada in pezzi».

Tutti questi obiettivi sono stati in buona parte raggiunti. A ciò hanno contribuito in larghissima misura i media, vere e proprie articolazioni del governo.

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Pagina 185

V
L'UTILITA DELLE INTERPRETAZIONI
Milton ha scritto che l'ipocrisia è «l'unico male che passa invisibile, tranne che a Dio soltanto». Per assicurarsi che «né l'Uomo né l'Angelo possano discernere» il male, ciononostante ci vuole una grande vocazione. Pascal aveva affrontato la questione pochi anni prima, nell'occuparsi di «come i casistici riescano a conciliare le divergenze tra le loro opinioni e le decisioni dei papi, i concilii e le Scritture». «Uno dei sistemi con cui conciliamo queste contraddizioni» spiega il casistico suo interlocutore, «consiste nell'interpretare convenientemente le frasi». Così, se il Vangelo dice «dà in elemosina il tuo superfluo» e l'obiettivo è di «scaricare il più ricco dall'obbligo di fare l'elemosina», «la questione si risolve facilmente dando alla parola 'superfluo' un'interpretazione tale che di rado o mai possa accadere che qualcuno si trovi nei guai per tale prescrizione». Letterati eruditi dimostrano infatti che «ciò che gli uomini mettono insieme per accrescere le proprie disponibilità finanziarie o quelle dei loro parenti, non può essere definito 'superfluo'; e quindi è raro che qualcosa di superfluo possa esistere tra gli uomini di questo mondo, neppure tra i re» (tale è appunto lo spirito della riforma fiscale reaganiana). Ecco allora che diventa facile rispettare la prescrizione del Vangelo che «il ricco dia in elemosina il suo superfluo», perché nella pratica accadrà ben di rado che tale prescrizione sia obbligatoria. Ed egli conclude «si vede così l'utilità delle interpretazioni»'.

Ai nostri giorni, questo accorgimento si chiama Neolingua (grazie ad Orwell) e i moderni casistici non sono meno abili nell'usarlo di quanto lo fosse il monaco pascaliano.

Nei due precedenti capitoli, tenendo presente la raccomandazione degli intellettuali liberal secondo i quali con «l'avanzare della conoscenza» è necessario attenersi a metodi di controllo sociale «sottili» e «sofisticati», evitando i sistemi «rozzi, ovvii e diretti», ho preso in esame alcune modalità di controllo del pensiero presenti nelle società democratiche.

Il mezzo più efficace consiste nel porre limiti a ciò che è pensabile, obiettivo che si raggiunge tollerando il dibattito, persino incoraggiandolo, ma mantenendolo nell'ambito di limiti precisi. Tuttavia i sistemi democratici ricorrono anche a mezzi più crudi, tra cui uno dei principali è l'«interpretazione di una frase». Così, l'aggressione e il terrore di Stato nel Terzo Mondo diventano «difesa della democrazia e dei diritti umani», e la «democrazia» è considerata efficacemente operante quando il governo è saldamente nelle mani «dei ricchi che abitano in pace nelle loro abitazioni», secondo la prescrizione di Winston Churchill per l'ordine nel mondo. All'interno deve essere garantito il dominio dei ceti privilegiati e la popolazione va ridotta allo stato di osservatore passivo, mentre all'estero possono essere necessarie anche severe misure per evitare che il nostro potere corra dei rischi. Una volta interpretata correttamente la frase, è certamente vero quanto ha dichiarato il corrispondente del «Times» Neil Lewis, e cioè che «il desiderio di vedere la democrazia di stile americano replicarsi in tutto il mondo è stato un tema persistente della politica estera USA».

Non vi è, quindi, «contraddizione» quando si auspica per il Sud Vietnam democrazia e indipendenza e nello stesso tempo si distrugge il Paese per sconfiggere il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), oppure quando si procede alla distruzione dell'opposizione buddista politicizzata, prima di permettere «elezioni» sapientemente orchestrate. Il nostro approccio casistico ci permette di procedere in questa direzione anche quando riconosciamo che il terrore USA costringerà «a combattere per sopravvivere» i nostri avversari, anche se hanno sempre sostenuto che il loro conflitto con gli Stati Uniti ed i loro alleati «avrebbe dovuto essere gestito a livello politico, e l'uso della forza militare era in sé illegittimo». Il nostro rifiuto di una soluzione politica a favore della forza militare è però naturale, perché sappiamo anche che il FLN era l'unico «partito politico di massa in Sud Vietnam», ad eccezione forse dei buddisti, «ed aveva dimensioni e potere tali che entrando in una coalizione si correva il rischio che la balena avrebbe mangiato il pesciolino». Secondo il medesimo ragionamento, non si poteva non inquinare la prima ed ultima elezione libera nella storia del Laos, perché aveva vinto il partito sbagliato; non si poteva non organizzare o appoggiare il rovesciamento dei governi eletti in Guatemala, Brasile, Repubblica Dominicana, Filippine, Cile e Nicaragua; non si poteva non sostenere od organizzare direttamente il terrorismo su vasta scala per fermare la minaccia di democrazia, riforme sociali e indipendenza nell'America centrale degli anni '80; [...]

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