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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Greg Ruggiero 5 Introduzione di Tariq Ali 9 Gli insegnamenti inascoltati dell'11 settembre 13 Stati Uniti contro Iraq: una modesta proposta 18 Iraq, le ragioni del no alla guerra 22 Ora che la guerra è cominciata 26 L'Iraq è un esperimento 30 Una road map verso il nulla 34 L'11 settembre e l'era del terrore" 39 Gli Stati Uniti e l'Onu 43 Dilemmi dell'egemonia 47 Saddam Hussein in tribunale 51 Saddam Hussein e i crimini di stato 55 Un muro come arma 59 Gli Stati Uniti, santuario del terrorismo 63 Tempi pericolosi: La guerra tra Stati Uniti e Iraq e le sue conseguenze 67 Le radici dell'ostilità irachena 71 Le regole del disimpegno in Israele e Palestina 75 Chi deve comandare il mondo, e come? 79 John Negroponte: dal Centroamerica all'Iraq 84 Per gli Stati Uniti la costruzione della democrazia deve cominciare in casa 88 Il distacco tra istituzioni e cittadini 92 "Noi" siamo buoni 96 La presidenza imperiale e le sue conseguenze 99 La débàcle irachena e l'ordine internazionale 103 La "promozione della democrazia" in Medio Oriente 107 L'universalità dei diritti umani 111 Il dottor Stranamore nell'epoca del terrore 116 Previdenza sociale, la crisi che non c'è 120 L'agenda segreta della guerra in Iraq 124 Il retaggio di Hiroshima e il terrorismo di oggi 128 L'11 settembre e la dottrina delle "buone intenzioni" 132 L'amministrazione Bush nella stagione degli uragani 137 Il "disegno intelligente" e le sue conseguenze 140 Sudamerica al punto di svolta 144 Il significato nascosto delle elezioni in Iraq 149 La vittoria di Hamas e la "promozione della democrazia" 153 L'Asia, le Americhe e la superpotenza regnante 157 La "guerra giusta" e il mondo reale 161 Come evitare la prova di forza con l'atomica iraniana 165 Guardando il Libano attraverso un mirino 170 L'America Latina proclama la sua indipendenza 176 Un'alternativa per le Americhe 180 Iraq, la posta in gioco 184 La guerra fredda tra Washington e Teheran 189 La grande anima del potere 194 La guerra delle tortillas e l'ordine internazionale 200 Note 204 Indice analitico 225 |
| << | < | > | >> |Pagina 9IntroduzioneNutro rispetto e ammirazione per Noam Chomsky da moltissimo tempo. Trovo interessante il fatto che quando qualcuno, un tempo di sinistra, decide di cambiare orientamento politico spostandosi a destra (cosa non infrequente), uno dei primi segnali di ciò che sta per fare è che inizia a rassicurare le persone per cui lavora o i suoi colleghi dicendo: "Non faccio parte della sinistra alla Chomsky". In realtà, molti di coloro che hanno iniziato dicendo "non faccio parte della sinistra alla Chomsky" hanno finito per schierarsi con George W. Bush. Pertanto, se vi dovesse mai capitare di sentire qualcuno dire quella frase, state in guardia: non si sa dove potrebbe andare a finire. È difficile parlare di Noam: non solo perché il suo lavoro è conosciuto in tutto il mondo, ma anche perché è capace di spaziare in molti campi e di parlare in contesti diversissimi tra loro. Non è facile rinchiuderlo in un contenitore e dire: ecco, questo è Chomsky. Ma consentitemi di provarci. Quando cerco di pensare quale sia la figura di intellettuale pubblico più vicina a Noam, la persona che mi viene in mente è il filosofo britannico Bertrand Russell. In gioventù Russell divenne obiettore di coscienza e rifiutò di combattere nella Prima guerra mondiale. A differenza di Noam, proveniva da una delle più antiche ed eminenti famiglie aristocratiche del Regno Unito, i duchi di Bedford. Bertrand Russell, personalità radicale, mise in piedi un tribunale per portare in giudizio gli Stati Uniti come autori di crimini di guerra in Vietnam. Il problema fu che non riuscimmo a trovare neppure un albergo a Londra che fosse disponibile a concederci spazio per un tribunale del genere. Quando chiedemmo a Russell che cosa potevamo fare, disse: "Oh, è la prima volta che mi capita di rimpiangere di aver ceduto tutta la mia eredità. Fatemi fare un paio di telefonate". Alla fine, la prima riunione del tribunale internazionale sui crimini di guerra in Vietnam si tenne nell'Hotel Russell di Bedford Square, un tempo di proprietà della famiglia Russell, che Bertrand aveva ceduto perché non voleva più averci a che fare. La cosa importante di Russell, come di Noam, era che non aveva paura di dire chiaro e tondo quello che pensava, neppure davanti ai capi di stato e di governo. Ricordo una volta che incontrai Russell poco dopo che era stata commessa una terribile atrocità in Vietnam. Aveva appena partecipato a una cerimonia nel corso della quale il premier britannico gli si era avvicinato per salutarlo dicendogli: "Salve, Lord Russell". Dato che il primo ministro britannico era un sostenitore della guerra in Vietnam, Russell gli volse le spalle e se ne andò. "Non potevo sopportare l'idea di stringere la mano di quell'uomo", disse. Noam Chomsky è oggi una delle poche persone fatte della stessa pasta di Russell. La sua è la voce dell'America che dovremmo difendere e promuovere in tutto il mondo, perché se non ci fossero dissidenti come Chomsky sarebbe assai difficile difendere gli Stati Uniti e spiegare alla gente che all'interno del paese esiste spesso una vasta opposizione che non trova spazio nella stampa. La voce di Noam è una di quelle che si levano alte per sfidare la visione ufficiale delle cose. È questo che deve essere un intellettuale pubblico. Di recente abbiamo assistito a un profluvio di saggi e libri in cui si parla della figura dell'intellettuale pubblico additando ad esempio gente come Thomas Friedman, Michael Ignatieff, Christopher Hitchens e vari altri. Io penso che gli intellettuali si dividano in due categorie. Le persone che ho appena citato, a mio avviso, sono intellettuali di stato. Non sono intellettuali pubblici nel vero senso del termine; non parlano nel pubblico interesse. Difendono lo stato, parlano per conto dello stato e scrivono in difesa della violenza, delle menzogne, delle atrocità e dei crimini dello stato. Coloro che hanno sostenuto la guerra in Iraq sembrano fregarsene bellamente del fatto che oltre seicentomila iracheni siano stati uccisi dall'inizio della guerra all'autunno del 2006, al ritmo attuale di circa cinquecento vittime al giorno, secondo un recente studio pubblicato sulla rivista britannica Lancet. Gli intellettuali di stato che difendono la guerra in Iraq non parlano mai di queste cifre; sembra che non gliene importi nulla. A Chomsky invece interessano. Noam è particolarmente meticoloso nel suo modo di ricercare, analizzare e presentare i fatti. E ciò gli fa grande onore, tenendo conto di come è ghettizzato dalla cultura politica dominante degli Stati Uniti. Non voglio esagerare: le cose non vanno bene nemmeno in Europa. Ma se Chomsky vivesse in Italia, in Germania, in Francia o in Gran Bretagna, avrebbe uno spazio fisso assicurato in uno dei principali quotidiani di quei paesi. Non c'è alcun dubbio al riguardo, perché le cose in Europa non vanno ancora così male. La voce di Noam è autorevole in tutto il mondo nonostante sia trattato come un paria dall'establishment conservatore del suo paese nonché, in larga misura, dagli ambienti liberal, e nonostante il fatto che Noam Chomsky sia una delle voci americane che godono di rispetto in Iraq, in Pakistan e nell'intero continente latino-americano. Il motivo? Perché chiunque è consapevole che per promuovere una causa c'è bisogno del sostegno del popolo americano. C'è bisogno del sostegno dei cittadini americani, della gente comune. E Noam Chomsky è una persona che dà voce a molte delle lotte di questa gente, lotte che regolarmente non trovano spazio nei media americani o all'esterno. Ciò rende Chomsky estremamente importante per i dissidenti e i movimenti che si battono per la giustizia sociale in tutto il mondo. Noam Chomsky fa questo da molto tempo, quasi quarantacinque anni. La sua voce è diventata più forte col passare degli anni. La difficoltà che i suoi nemici incontrano nell'opporsi ai suoi argomenti li ha spesso costretti a ricorrere alla calunnia e alla malafede. Anche se Noam appare di rado in televisione e non trova spazio nella grande stampa, i suoi libri circolano in tutto il mondo. La sua voce non può essere soffocata. Gli opinionisti che scrivono per il New York Times e il Washington Post si sentono ancora obbligati ad attaccarlo. È interessante perché, se volessero, potrebbero ignorarlo senza problemi. Ma non possono. Non possono ignorarlo perché la voce di Chomsky è diventata la coscienza del suo paese ed è ascoltata in tutto il mondo. La prima volta che lessi dei testi scritti da Noam fu negli anni Sessanta, all'epoca della guerra in Vietnam. Ne fui influenzato, così come influenzò tante generazioni dopo la mia. È meraviglioso vederlo viaggiare in tutto il mondo, specialmente quando parla ai giovani e passa il testimone del dissenso a una nuova generazione. È un compito di estrema importanza al giorno d'oggi, perché viviamo in un mondo turbolento e sgradevole. Un mondo in cui gli Stati Uniti sono diventati troppo dominanti dal punto di vista militare, tanto da mettere a rischio il loro stesso bene. Abbiamo bisogno di nuove voci di dissenso. Penso che la nostra parola d'ordine dovrebbe essere quella di creare due, tre, tanti Chomsky. Spero che la lettura di queste pagine possa contribuire esattamente a questo. Tariq Ali | << | < | > | >> |Pagina 13Gli insegnamenti inascoltati dell'11 settembre [4 settembre 2002]L'11 settembre ha sconvolto molti americani, rendendoli consapevoli della necessità di prestare molta più attenzione a quello che il governo statunitense fa nel mondo e a come viene percepito. Al centro del dibattito sono state poste molte questioni che prima non erano prese in considerazione. Tutto questo è positivo, e va anche incontro a quel minimo di buon senso necessario se vogliamo ridurre la probabilità di future atrocità. Può essere consolante sostenere che i nemici "odiano le nostre libertà", come ha affermato il presidente Bush, ma è poco saggio ignorare il mondo reale, che trasmette lezioni differenti. Il presidente non è il primo a chiedersi "perché ci odiano?". In una discussione con il suo staff, quarantaquattro anni fa, il presidente Eisenhower parlò della "campagna di odio contro di noi [nel mondo arabo], non da parte dei governi ma dei cittadini". Il suo consiglio per la sicurezza nazionale ne delineò le cause fondamentali: gli Stati Uniti sostengono governi corrotti e oppressivi e "si oppongono al progresso politico ed economico" perché sono interessati a tenere sotto controllo le risorse petrolifere della regione. I sondaggi condotti nel mondo arabo dopo l'11 settembre rivelano che le stesse ragioni valgono anche oggi, unite al risentimento suscitato da alcune scelte politiche. Sorprendentemente, questo è vero anche per i settori privilegiati e filo-occidentali della regione. Cito giusto un esempio recente: sulla Far Eastern Economic Review del 1° agosto 2002 Ahmed Rashid, autorevole esperto di Asia Centrale, ha scritto che in Pakistan "cresce la rabbia perché il sostegno statunitense sta consentendo al regime militare [di Musharraf] di rinviare le promesse di democrazia". Ecco perché non facciamo un favore a noi stessi se scegliamo di credere che "loro ci odiano" e "odiano le nostre libertà". Al contrario, sono persone a cui piacciono gli americani e che ammirano molto gli Stati Uniti, comprese le loro libertà. Quello che odiano sono le politiche che negano le libertà a cui anche loro aspirano. È per questo che gli sproloqui di Osama bin Laden dopo l'11 settembre - per esempio sull'appoggio statunitense a regimi corrotti e brutali, o sull'"invasione" statunitense dell'Arabia Saudita — trovano terreno fertile anche tra chi lo disprezza e lo teme. Dal risentimento, dalla rabbia e dalla frustrazione i gruppi terroristici sperano di ricavare sostegno e nuove reclute. Dovremmo anche renderci conto che gran parte del mondo considera Washington un regime terroristico. Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno intrapreso o appoggiato in Colombia, Nicaragua, Panama, Sudan e Turchia, per fare solo alcuni esempi, azioni che rispondono alle definizioni ufficiali statunitensi di "terrorismo" (se non peggio), cioè le stesse azioni per le quali gli americani applicano questo termine ai nemici. "Mentre denunciano regolarmente vari paesi come 'stati fuorilegge', ha scritto Samuel Huntington nel 1999 su Foreign Affairs, austera rivista dell'establishment, "agli occhi di molte nazioni gli Stati Uniti stanno diventando la superpotenza fuorilegge,- la principale minaccia esterna alle loro società." Non è servito a modificare queste percezioni il fatto che l'11 settembre 2001, per la prima volta, un paese occidentale è stato sottoposto sul proprio territorio a un orrendo attacco terroristico di un tipo assai familiare alle vittime del potere occidentale. Un attacco che va ben oltre quelli che sono stati a volte definiti "rappresaglie terroristiche" dell'Ira, dell'Fln algerino o delle Brigate rosse. L'atto terroristico dell'11 settembre ha suscitato aspre condanne in tutto il mondo e un'ondata di solidarietà per le vittime innocenti. Ma con qualche riserva. Un sondaggio internazionale, condotto dalla Gallup alla fine del settembre 2001, ha evidenziato lo scarso consenso a "un attacco militare" degli Stati Uniti in Afghanistan. Il sostegno più basso si è registrato in America Latina, la regione che ha la maggiore esperienza in fatto di interventi statunitensi (per esempio, il 2 per cento di consensi in Messico). L'attuale "campagna di odio" nel mondo arabo è, naturalmente, alimentata anche dalla politica degli Stati Uniti nei confronti del conflitto israeliano-palestinese e dell'Iraq. Washington ha fornito il sostegno cruciale alla dura occupazione militare israeliana, che è giunta al suo trentacinquesimo anno. Un modo per attenuare le tensioni tra israeliani e palestinesi sarebbe smettere di alimentarle, come invece facciamo non solo rifiutando di uniformarci al consolidato orientamento internazionale che riconosce il diritto di tutti gli stati della regione a vivere in pace e sicurezza, compreso uno stato palestinese negli attuali Territori occupati (forse con piccoli e reciproci ritocchi delle frontiere), ma anche fornendo un cruciale sostegno economico, militare, diplomatico e ideologico agli incessanti sforzi israeliani che mirano a rendere tale esito irraggiungibile. In Iraq, dieci anni di severe sanzioni dovute alle pressioni statunitensi hanno rafforzato Saddam Hussein e provocato nel contempo la morte di centinaia di migliaia di iracheni: forse più persone "di quante ne siano mai state uccise nel corso della storia da tutte le cosiddette armi di distruzione di massa", hanno scritto nel 1999 su Foreign Affairs gli analisti militari John e Karl Mueller. Le giustificazioni fornite da Washington per attaccare l'Iraq sono molto meno credibili oggi rispetto a quando Bush padre salutava Saddam come un alleato e un partner commerciale, dopo che aveva già commesso i suoi crimini peggiori, come la strage di Halabja, dove l'Iraq attaccò i curdi con gas tossici, i massacri dell'operazione Anfal e altre atrocità simili. All'epoca l'assassino Saddam, appoggiato da Washington e Londra, era più pericoloso di quanto non sia oggi. Quanto a un attacco statunitense contro l'Iraq, nessuno, compreso Donald Rumsfeld, può realisticamente prevederne i possibili costi e le conseguenze. Gli estremisti islamici sperano certamente che un attacco all'Iraq faccia molte vittime e distrugga gran parte del paese, fornendo così reclute per azioni terroristiche. Probabilmente apprezzano anche la "dottrina Bush" che proclama il diritto di attacco contro minacce potenziali, che sono praticamente illimitate. Il presidente degli Stati Uniti ha annunciato: "Non è possibile sapere quante guerre ci vorranno per assicurare la libertà in patria". Nulla di più vero. Le minacce sono dappertutto, anche a casa. La ricetta della guerra infinita crea per gli americani rischi di gran lunga superiori a quelli posti dai presunti nemici, per motivi che le organizzazioni terroristiche comprendono molto bene. Vent'anni fa l'ex capo dei servizi segreti militari israeliani, Yehoshaphat Harkabi, eminente arabista, espresse un'idea valida ancora oggi: "Offrire una soluzione onorevole ai palestinesi rispettando il loro diritto all'autodeterminazione: questa è la soluzione al problema del terrorismo. Quando la palude scomparirà, non ci saranno più zanzare". All'epoca Israele era sostanzialmente al riparo da ritorsioni all'interno dei Territori occupati, un'immunità che è proseguita fino a poco tempo fa. Ma l'avvertimento di Harkabi era giusto e la lezione è valida in generale. Ben prima dell'11 settembre era già chiaro che, con l'avvento delle moderne tecnologie, i ricchi e i potenti sono destinati a perdere il monopolio quasi assoluto sugli strumenti di violenza e devono aspettarsi di subire atrocità sul loro territorio. Se insistiamo a creare altre paludi, ci saranno più zanzare, con terrificanti capacità di distruzione. Se invece impieghiamo le nostre risorse per prosciugare le paludi, affrontando le radici delle "campagne di odio", possiamo non solo ridurre le minacce che abbiamo di fronte ma anche essere all'altezza degli ideali che professiamo e che non sono fuori dalla nostra portata, se decidiamo di prenderli sul serio. 4 settembre 2002 | << | < | > | >> |Pagina 120Previdenza sociale, la crisi che non c'è [29 maggio 2005]Nel dibattito sulla previdenza sociale, chi muove le fila dell'amministrazione Bush ha già vinto, almeno nel breve periodo. Bush e Karl Rove, il suo vicecapo di gabinetto, sono riusciti a convincere la maggioranza della popolazione statunitense – compresi due terzi degli studenti universitari – che la previdenza sociale rappresenta un grave problema. Così hanno posto le premesse perché sia preso in considerazione il piano proposto dall'amministrazione, che punta a introdurre conti previdenziali privati al posto del sistema pensionistico pubblico. L'opinione pubblica è stata dunque spaventata, come è successo quando hanno definito imminente la minaccia rappresentata da Saddam Hussein e dalle armi di distruzione di massa. I rappresentanti al Congresso sono sottoposti a forti pressioni e i leader dei due schieramenti contano di presentare entro il giugno 2005 una legge di riforma della previdenza sociale. Per capire realmente la situazione è opportuno ricordare che, secondo un recente rapporto dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il sistema di previdenza sociale degli Stati Uniti è uno dei sistemi pensionistici pubblici meno generosi tra quelli di tutti i paesi avanzati. L'amministrazione Bush afferma di volerlo "riformare", ma in realtà vuole smantellarlo. Una possente campagna di propaganda del governo e dei mezzi di informazione ha inventato una "crisi della finanza pubblica per lo più inesistente. Se dovessero emergere problemi in un remoto futuro, potrebbero essere risolti con misure banalissime, per esempio adottando una maggiore e più equa progressività dell'imposta sul reddito. La versione ufficiale è che in futuro i figli del baby-boom degli anni Sessanta peseranno di più sul sistema previdenziale perché nel frattempo la percentuale di persone che lavorano rispetto al numero degli anziani sarà diminuita. Questo è certamente vero: ma cos'è successo ai figli del baby-boom quando avevano da zero a vent'anni? A prendersi cura di loro non ha forse pensato la gente che lavorava? Senza contare che all'epoca la società americana era molto più povera di oggi. Riassumendo, quindi, negli anni Sessanta la realtà demografica ha determinato un problema, ma non certo una crisi. La questione è stata affrontata con un forte incremento della spesa pubblica per le scuole e altre strutture destinate ai bambini. Se il problema non è stato irrisolvibile quando i figli del baby-boom avevano da zero a vent'anni, perché dovrebbe esserlo quando avranno tra i settanta e i novant'anni? Il dato rilevante, in questo caso, è il cosiddetto indice di dipendenza, cioè il rapporto numerico tra lavoratori attivi e popolazione. Questo indice ha toccato il suo punto più basso nel 1965 e secondo le stime dell'Amministrazione della previdenza sociale tornerà a toccarlo solo nel 2080. Ma ogni proiezione che si spinga così avanti nel tempo è priva di senso. In aggiunta, ogni problema di bilancio che dovesse insorgere a causa della necessità di assistere la generazione del baby-boom quandò sarà nell'età della vecchiaia è stato già messo in conto, attraverso l'aumento delle imposte sul reddito introdotto nel 1983 proprio a questo scopo. Quando morirà l'ultimo figlio del baby-boom, la società americana sarà diventata molto più ricca e ciascun lavoratore produrrà una ricchezza assai maggiore di oggi. In altre parole, la crisi l'abbiamo già superata. Eventuali nuovi problemi si potranno affrontare con qualche semplice aggiustamento. Nel frattempo, però, si staglia all'orizzonte una crisi della finanza pubblica molto più seria: quella dell'assistenza sanitaria. Il sistema sanitario degli Stati Uniti è uno dei più inefficienti del mondo industrializzato; il suo costo pro capite è molto più alto che in altri paesi e per giunta i suoi risultati sono tra i peggiori. Il sistema è privatizzato e questo è uno dei motivi per cui è tanto inefficiente. I costi di gestione sono assai più alti rispetto a programmi analoghi in altri paesi, per tacere di molti altri difetti intrinseci ai sistemi sanitari privatizzati. Eppure non è in programma nessuna "riforma" del sistema sanitario. Siamo quindi di fronte a un evidente paradosso: la crisi finanziaria – quella reale e grave del sistema sanitario – non è una vera crisi, mentre la non-crisi (del sistema previdenziale) impone un intervento per distruggere un sistema efficiente e solido. Di fronte a questo paradosso, un osservatore razionale si metterebbe a cercare le differenze tra il sistema di previdenza sociale e quello di assistenza sanitaria che possano spiegarlo. Il motivo è presto detto. Il nostro sistema sanitario non può essere preso di mira perché è controllato dalle assicurazioni e dalle industrie farmaceutiche. È un sistema intoccabile, e rimarrà tale anche se sta causando enormi problemi finanziari (a parte i costi umani), almeno fino a quando qualche altro gruppo di potere, probabilmente l'industria manifatturiera, non getterà tutto il suo peso su questo settore; o meglio, fino a quando le istituzioni democratiche non saranno in grado di funzionare abbastanza bene da far sì che l'opinione pubblica possa svolgere un ruolo chiave nelle decisioni politiche. Un'altra ragione è che la previdenza sociale conta poco per i ricchi, mentre è decisiva per la sopravvivenza dei lavoratori, dei poveri, dei loro familiari a carico e dei disabili. Ed essendo un programma governativo, ha costi così contenuti da non dare alcun beneficio alle istituzioni finanziarie. Ne dà solo alla popolazione "invisibile", non alle classi agiate, per prendere in prestito la ruvida definizione di Thorstein Veblen. Il sistema sanitario, al contrario, funziona benissimo per la gente che conta. Privilegia di fatto i ricchi, mentre profitti enormi gonfiano le casse dei gruppi di potere privati grazie a sistemi di gestione guidati dalla logica del profitto, e non orientati alla salute del cittadino. Per curare il popolo invece bastano conferenze sulla responsabilità. Di recente il Congresso degli Stati Uniti ha dato il via libera a una riforma della legge fallimentare che stringe la morsa sulla popolazione meno abbiente. Circa metà dei fallimenti negli Stati Uniti sono causati dai costi delle parcelle sanitarie. Anche in questo caso è netta la divaricazione tra opinione pubblica e politica ufficiale. Come in passato, la maggioranza degli americani è favorevole a un'assicurazione sanitaria pubblica. In un sondaggio condotto nel 2003 dal Washington Post in collaborazione con Abc News, l'80 per cento degli interpellati ha giudicato più importante avere un sistema sanitario per tutti che non "tenere basse le imposte". Tornando alla previdenza sociale, il sistema americano si fonda su un principio estremamente pericoloso: se la vedova disabile che abita dall'altra parte della città non ha da mangiare, sta a tutti noi preoccuparcene. Invece i "riformatori" della previdenza sociale preferirebbero vederci assoggettati al potere e dediti a massimizzare i nostri consumi. Occuparsi degli altri e assumersi la responsabilità collettiva di cose come la salute o le pensioni sono considerate attività altamente sovversive. 29 maggio 2005 | << | < | > | >> |Pagina 200La guerra delle tortillas e l'ordine internazionale [9 maggio 2007]Il caos generato da quello che viene chiamato "ordine internazionale" può essere molto doloroso per coloro che ne subiscono gli effetti nefasti. Anche le tortillas entrano in gioco in questo schema. Di recente, in molte regioni del Messico, il loro prezzo è aumentato di oltre il 50 per cento. Lo scorso gennaio, a città del Messico, decine di migliaia di lavoratori e contadini si sono radunati nello Zocalo, la piazza nel centro della città, per protestare contro i prezzi alle stelle delle tortillas. Il governo del presidente Felipe Calderón ha risposto siglando un accordo con i produttori e i distributori messicani per mettere un tetto ai prezzi delle tortillas e della farina di mais, ma verosimilmente si tratta solo di una misura di efficacia temporanea. I massicci rincari dell'alimento base nella dieta dei lavoratori e delle fasce povere della popolazione messicana sono in parte dovuti a quello che potremmo chiamare "effetto etanolo", vale a dire una conseguenza della corsa degli Stati Uniti all'etanolo ricavato dal mais come alternativa al petrolio, le cui fonti principali si trovano in aree del pianeta che pongono una seria minaccia all'ordine internazionale. Anche negli Stati Uniti l'effetto etanolo ha fatto schizzare verso l'alto i prezzi di una vasta gamma di prodotti alimentari, comprese altre colture, bestiame e pollame. Non c'è un legame diretto, ovviamente, tra l'instabilità in Medio Oriente e il costo necessario per sfamare una famiglia latino-americana, ma come sempre accade nel campo del commercio internazionale, la bilancia pende dalla parte di chi ha in mano il potere. Uno degli obiettivi primari della politica estera statunitense è sempre stato quello di creare un ordine globale che consenta alle grandi aziende americane libero accesso ai mercati, alle risorse e alle opportunità di investimento. Tale obiettivo è comunemente definito "libero scambio", ma basta un rapido esame per smontarne i presupposti. A ben guardare, si tratta di un obiettivo non molto diverso da quanto cercò di fare nell'ultimo scorcio del diciannovesimo secolo la Gran Bretagna, la precedente superpotenza, quando adottò il libero scambio dopo che centocinquant'anni di interventismo statale e ricorso alla forza avevano aiutato il regno di Sua Maestà a raggiungere una supremazia industriale ineguagliata da qualsiasi altro rivale. Gli Stati Uniti hanno seguito grosso modo lo stesso percorso. In genere le grandi potenze sono disposte ad aprirsi a qualche forma sia pure limitata di libero scambio quando sono convinte che gli interessi economici che esse proteggono possano trarne beneficio. Questa è stata ed è tuttora una caratteristica distintiva dell'ordine internazionale. Il boom dell'etanolo si adatta perfettamente a questo modello. Come osservato dagli economisti dell'agricoltura C. Ford Runge e Benjamin Senauer nel numero corrente di Foreign Affairs, "l'industria dei biocarburanti è da tempo dominata non dalle forze del mercato, bensì dalla politica e dagli interessi di poche grandi aziende", in primis Archer Daniels Midland, il maggiore produttore mondiale di etanolo. La produzione di etanolo è economicamente conveniente solo in virtù di sostanziosi sussidi pubblici e dazi doganali molto elevati che mettono fuori competizione l'etanolo brasiliano a base di zucchero, molto più a buon mercato ed efficiente dal punto di vista energetico. Uno dei risultati sbandierati dagli Stati Uniti durante il viaggio del presidente Bush in America Latina, nello scorso marzo, è stato l'accordo siglato con il Brasile sulla produzione congiunta di etanolo. Ma mentre declamava le virtù del libero mercato (valide solo per gli altri), Bush sottolineava con forza che le alte tariffe doganali a protezione dei produttori statunitensi sarebbero rimaste in piedi, insieme naturalmente alle varie forme di sussidi governativi al settore. Nonostante glì enormi sussidi all'agricoltura, pagati dai contribuenti, i prezzi del mais – e delle tortillas – sono cresciuti rapidamente. Una delle cause sta nel fatto che le industrie che utilizzano il mais importato negli Stati Uniti acquistano sempre più le varietà messicane a buon mercato, innalzando così i prezzi delle tortillas. Un altro fattore significativo – il cui peso è destinato ad aumentare – può essere anche il Nafta, l'area di libero scambio voluta dagli Stati Uniti nel 1994. Uno degli effetti asimmetrici del Nafta è stato quello di inondare il Messico con prodotti dell'industria agricola statunitense che godono di forti sussidi, spingendo fuori mercato i piccoli produttori messicani. I dati presi in esame dall'economista messicano Carlos Salas indicano che dopo un costante incremento, a partire dal 1993 l'occupazione nell'agricoltura ha cominciato a calare proprio in coincidenza con l'entrata in vigore del Nafta, principalmente tra i produttori di mais: una diretta conseguenza del Nafta, anche secondo altri economisti. Un sesto della forza lavoro messicana impegnata nell'agricoltura è stata cancellata negli anni del Nafta, un fenomeno ancora in atto che deprime i salari negli altri settori dell'economia e aumenta l'immigrazione verso gli Stati Uniti. Max Correa, segretario generale dell'organizzazione sindacale Central Campesina Cardenista, stima che "ogni cinque tonnellate acquistate da produttori stranieri, un campesino diventa candidato all'emigrazione". È assai probabile che non sia stata una semplice coincidenza la decisione presa dal presidente Clinton nel 1994, quando, al momento dell'entrata in vigore del Nafta, militarizzò il confine con il Messico, che in precedenza era abbastanza aperto. Il regime del "libero scambio" spinge il Messico dall'autosufficienza alimentare alla dipendenza dalle esportazioni statunitensi. E con l'aumento del prezzo del mais negli Stati Uniti, stimolato dallo strapotere delle grandi aziende e dall'intervento statale, si può facilmente prevedere che il prezzo del nutrimento principale della popolazione continuerà la sua folle corsa anche in Messico. I biocarburanti sono destinati sempre più ad "affamare i poveri" di tutto il mondo, secondo Runge e Senauer, con la conversione delle colture di base – come la cassava nell'Africa subsahariana, per citare uno degli esempi più nefasti – in produzione di etanolo per le fasce privilegiate. Altrove, come in Asia sud-orientale, le foreste tropicali vengono disboscate per fare spazio alla coltivazione di olio di palma destinato ai biocarburanti. Per non parlare poi dei minacciosi impatti sull'ambiente derivanti dalla produzione di etanolo dal mais negli Stati Uniti. L'aumento del prezzo delle tortillas e altri più impietosi capricci dell'ordine internazionale illustrano alla perfezione quanto sia stretta l'interconnessione tra ciò che succede in luoghi anche distanti del globo, dal Medio Oriente al Midwest americano, nonché quanto sia urgente stabilire rapporti commerciali fondati su accordi autenticamente democratici tra le persone, e non su interessi il cui scopo, a prescindere dai costi umani, è il profitto delle grandi aziende, protette e finanziate dagli stati che le stesse aziende controllano in larga misura.
9 maggio 2007
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