Copertina
Autore Benedetta Cibrario
Titolo Lo scurnuso
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2011, I Narratori , pag. 192, cop.fle., dim. 12x19,5x1,4 cm , Isbn 978-88-07-01873-2
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa italiana , citta': Napoli
PrimaPagina


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Indice


  9  Parte prima
     NAPOLI. INTORNO AL 1792

 11  1. Tommaso lannacone si sveglia di malumore

 23  2. Del modo in cui Purtualle arriva a Napoli

 32  3. Abitudini di Purtualle bambino

 42  4. Sebastiano viene mandato a imparare il mestiere di scultore

 54  5. Nello studio di Gaspare Riccio, alla salita dei Cristallini

 62  6. Sebastiano medita di fuggire ma non mette mai in atto il progetto

 68  7. Gli anni passano. Sebastiano disubbidisce a Gaspare Riccio
        ma per la prima volta non ne paga le conseguenze

 79  8. Modellatore di figure umane

 85  9. Morte di Tommaso Iannacone

 89 10. Sebastiano ritrae Iannacone


 91  Parte seconda
     NAPOLI, MONTECALVARIO E CHIAIA. 1939-1943

 93  1. Annina Scotti stira il vestito del marito

 97  2. L'artefice della loro fortuna

104  3. Girolamo Valcarcel, duca di Albaneta, collezionista

110  4. Il tesoro di salita dei Cristallini

117  5. Lavori di mani

122  6. Il presepe si monta comunque, guerra o non guerra

127  7. Francesco di Belmonte e la sua "vocazione" tardiva

132  8. Una carriera in ascesa: Francesco di Belmonte diventa cardinale
        e incontra per la prima volta Girolamo Albaneta

138  9. Girolamo Albaneta prende una decisione e fa una proposta
        al cardinale Belmonte

149 10. Giovanni Scotti passa di mano come il presepe Albaneta

154 11. Il cardinale Belmonte chiede a Giovanni Scotti di redigere
        un inventario e si immalinconisce

159 12. Cenere

163 13. Il cinema è sempre il cinema


173  Parte terza
     PENISOLA SORRENTINA. ESTATE 2009


187  Nota dell'autrice


 

 

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Pagina 11

1.
Tommaso Iannacone si sveglia di malumore



Tommaso Iannacone si svegliò innervosito dal dolore alle mani che peggiorava di mese in mese. Aveva dormito malissimo e si era rigirato sul pagliericcio tutta la notte, addormentandosi una mezza dozzina di volte per risvegliarsi subito dopo — o almeno così gli era sembrato —, ogni volta più stanco e più avvilito. Da qualche settimana aveva cominciato a farsi un impacco alle mani tutte le sere: prima di andare a dormire si spalmava un unguento a base di olio di bacche di alloro e grasso di pecora e lo teneva in posa sotto le mani fasciate, la mattina lavava via l'unguento in eccesso e applicava un secondo impacco di argilla. L'intero procedimento era di sua invenzione e ne andava fiero, gli sembrava che gli procurasse un po' di sollievo. Senza scendere dal letto si sistemò seduto, la schiena appoggiata al muro. Si guardava le mani ancora bendate con un certo scoraggiamento: ora sentiva vampe di fuoco anche alle dita dei piedi e un formicolio che risaliva lungo la gamba destra, fino a lambirgli i fianchi. Avrebbe dovuto estendere l'operazione unguento-fasciatura-sfasciatura-argilla anche alle dita dei piedi? All'intera gamba?

Una volta alzato, aveva sentito cento spilli che lo trafiggevano, neanche fosse stato Cristo in croce. Ormai anche i movimenti più semplici e naturali gli causavano dolore; perfino infilarsi i pantaloni e allacciarsi la camicia erano diventate operazioni faticose.

Davanti a un bicchiere d'acqua – che gli sembrò amara – e a un boccone di pane, aveva rimuginato parecchio: ne aveva visti di storpi, lui, per le strade di Napoli, a mendicare e a puzzare di malattia, cumuli di stracci in cui si distingueva a malapena una testa d'uomo, schifati pure dai cani. E quel malanno che gli gonfiava le dita era una maledizione, senza il mestiere sarebbe diventato lui pure un cumulo di stracci, ecco, era così che sarebbe andata, se lo sentiva; in quarant'anni di lavoro non aveva messo niente da parte, uno straccione in più in mezzo alla strada finché una gelata non lo avesse finito; e già si vedeva, rigido come l'argilla secca, mezzo morto, senza che nessuno lo riconoscesse per quello che era stato, Tommaso Iannacone, il miglior figuraro del vicolo, l'ultimo di una dinastia. Il pensiero correva a suo padre e a suo nonno e alla loro clientela illustre, duchi e marchesi, ricchi commercianti, forestieri che masticavano appena qualche parola di napoletano ma si facevano capire a gesti, aprendo il portamonete sul tavolo e rovesciandovi sopra una manciata di denari.

Ai tempi del gran re, quando Carlo III e sua moglie spendevano e spandevano per fare Napoli più bella di Vienna e di Madrid, più ricca di Parma e più elegante di Parigi, gli Iannacone modellavano per il presepe del principe di Ischitella, per quello del libraio Torres e per quello reale; e il re, ginocchioni – Iannacone se lo immaginava così, il Borbone –, a giocare coi pastori muovendone le gambe e le braccia come Ninì con la bambola di stoffa.

Se lo vedeva, calzato di seta bianca, con le code della marsina che strusciavano per terra mentre Giuseppe Postiglione montava lo scoglio del presepe alla corte borbonica, a sinistra l'annuncio ai pastori, al centro il Mistero e a destra la taverna, così simile alle osterie che Tommaso frequentava in gioventù. Le pensava tutte, le taverne di Napoli – quella delle Crocelle, quella di vico San Gennaro all'Olmo e quella ancora più equivoca delle Tre Regine –, non come bettole di malaffare ma come luoghi benedetti, predisposti dal Signore per farvi accadere miracoli, a dispetto della folla di avventori rumorosa, violenta e bestemmiatrice, miracoli nei quali occorreva solo aver fede: Lucia era figlia di un tavernaro di San Liguoro e l'aveva conosciuta mentre sgusciava tra i tavoli, nella penombra dei lumi accesi. Nei capelli aveva lo stesso bagliore dei rami rilucenti appesi alle travi del soffitto. Dopo aver sciacquato i bicchieri, si asciugava le mani nel grembiule che portava rimboccato alla cintura e quando rideva diventava bellissima, un impasto di gioventù e gaiezza. I miracoli, pensava Tommaso, sono figli dell'immaginazione di Dio.

Quando era nata Ninì e l'aveva vista scalciare tra i panni, il miracolo si era compiuto nella sua interezza e negli anni successivi lui avrebbe sempre pensato così a quella bambina che sgambettava nei vicoli con i riccioli di rame chiaro di sua madre, un miracolo di Dio.


Tommaso, a differenza del padre, scultore e architetto scenografo, aveva solo doti di modellatore.

La sua grande occasione – così la considerava, a distanza di tanto tempo – era capitata qualche anno dopo la nascita di Ninì. Un mercante di Toledo – alto e grosso, con le spalle curve e una bocca sensuale – si era presentato alla bottega Iannacone con una richiesta relativamente insolita. Da più parti gli era stato fatto il nome degli Iannacone quali artefici di alcuni dei più bei pastori che aveva visto in giro in città; del padre di Tommaso si diceva che fosse un ottimo scultore, capace di dedicarsi con uguale accuratezza tanto a una figura alta due palmi quanto a un busto a grandezza naturale. Il mercante – un armaiolo di fama – desiderava portare con sé in Spagna un presepe curatissimo nei particolari e sfarzoso nei finimenti. Voleva un gran numero di pastori, oltre a quelli tradizionali; e li voleva agghindati nei minimi dettagli. Agli ori e agli argenti dei forzieri, come pure alle scimitarre degli orientali, poteva provvedere lui stesso, vista la sua esperienza di fabbricante di lame. A tutto il resto dovevano pensare gli Iannacone: sete, cesti, perle, vetri, ceramiche di Grottaglie, pettini di tartaruga e coralli pendenti; e naturalmente i pastori e le accademie: voleva un presepe che lasciasse a bocca aperta gli spagnoli di Toledo; e che testimoniasse la floridezza dei suoi commerci napoletani e la sua sintonia, dopo tanti anni trascorsi a Napoli, con quel popolo così vicino al cuore spagnolo.

Tommaso sgranò gli occhi: un incarico tanto importante né lui né suo padre se lo sarebbero mai aspettato; ed era evidente che una committenza simile li avrebbe sfamati per anni.

Per un'opera così ambiziosa, disse suo padre con la voce vibrante dall'emozione, era necessario come prima cosa produrre un bozzetto accurato, in sughero e stucco. Pensava a uno scoglio largo un paio di braccia e altrettanto alto. Lo stucco consentiva una grande versatilità di impiego. E si potevano creare anche effetti luministici e prospettici mandando a chiamare al Purgatorio ad Arco il più giovane dei Lampitelli, capacissimo di rifare paesi e lontananze come e meglio degli antichi pittori.

Lo spagnolo non aveva pensato alla possibilità del bozzetto e il suggerimento del padre di Tommaso gli piacque al volo: prese una sedia, la accostò al tavolo e si buttò a discutere i particolari, scendendo in dettagli minutissimi. Come tutti coloro – giudicò Tommaso – che non hanno idea di niente e pensano di poterla avere su tutto.

Nel giro di un paio di giorni gli Iannacone proposero al mercante un progetto di massima: uno scoglio che rappresentava due monti uniti da un valloncello, in cui dovevano scorrere un torrente e magari una cascata, a rappresentare le campagne subito fuori Napoli, e qua e là una manciata di marmi e cocci che dicesse agli spagnoli di Toledo dell'abbondanza di materiale di scavo nascosto sotto la lava e le vecchie ceneri. Il tutto doveva essere colorato in terra bruciata, tranne le grotte di tufo ricoperte di licheni di cera e seta. E intanto che suo padre spiegava, Tommaso già si immaginava una folla di figure modellate nell'argilla, alte non più di quattro dita, dipinte con grande accuratezza. Il mandriano con le bufale, la brigata di sfaccendati all'osteria, il cavaliere straniero agghindato come una gran dama, il mendicante e la venditrice di cocomeri. E un magnifico corteo di nobili, uomini e donne orientali seguiti da giovani paggi in giustacuore e cappello piumato.

Per l'esecuzione di quel bozzetto erano stati necessari tre mesi di lavoro di padre e figlio, insieme a due lavoranti occasionali. Tommaso aveva modellato la figlia dell'oste con il grembiule rimboccato in vita, come lo portava Lucia quando serviva il vino. La popolana che allattava era Lucia, come se la ricordava mentre porgeva a Ninì neonata il seno gonfio di latte; la bambina che giocava con le dita affondate nel cesto di conchiglie era Ninì, e Ninì la guardiana di oche con il ramo di frassino in mano. E ancora Ninì e Lucia, una mentre tirava la veste alla venditrice di taralli, l'altra vestita da circassa, con il collo ingioiellato di perle e turchesi. Iannacone padre, riconoscendo i tratti della nuora e della nipote, lo sfotteva; ma Tommaso lo lasciava dire, che sfottesse pure: il suo non era un omaggio galante, né un gesto d'amore. Il presepe rappresentava semplicemente un resoconto fedele di quanto era accaduto nella sua vita; lui si limitava a modellarlo nella creta perché – a differenza di suo padre – sapeva copiare, non inventare.

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Pagina 93

1.
Annina Scotti stira il vestito del marito



Ogni sera, intorno alle dieci, Annina Scotti prepara il vestito di grisaglia del marito. Entra in camera da letto e lo ritira dalla sedia dove lui l'ha deposto frettolosamente, i pantaloni in disordine, con gli orli a strusciare spaiati sul pavimento e la giacca infilata alla meno peggio sulla spalliera. Vista da dietro, la sedia fa pensare a qualcuno che abbia indossato una giacca troppo grande, che gli piove dalle spalle e arriva quasi fino a terra. Lì accanto riposano le altre spoglie – le scarpe con i lacci, una camicia bianca di cui si indovina ancora la stiratura. La cintura nera, con la fibbia dorata che perde lucentezza e fa balenare in superficie chiazze di metallo argentato, impercettibili al punto da sembrare un inganno della luce serale.

Annina raccoglie il vestito, la camicia, la cintura, le calze, le scarpe e la cravatta di lana grigia che le pende dal braccio come una biscia acquatica e morta; richiude la tenda che separa il letto matrimoniale dalla cucina-salotto, o comunque si possa chiamare quella stanza dove lei cucina, parla, mangia, lava, stira, dove ci si siede intorno al tavolo aprendo le pagine del giornale che Giovanni porta a casa dall'ufficio postale, le sere in cui il direttore lo ha dimenticato sulla scrivania. Prima di prelevare il vestito, Annina ha già allestito il teatro di operazione: ha tirato uno spago tra il chiodo che regge la stampa di una fontana e il cardine della porta e fa scorrere un anello di ferro in cui infila l'uncino della gruccia di legno. Sul tavolo ha steso una coperta di lana beige piegata in due e un lenzuolo vecchio. Il ferro da stiro è di fabbricazione tedesca, seminuovo, un regalo di Giovanni. Ha il profilo aerodinamico di un mercantile come quelli ormeggiati al porto ferdinandeo. Sul manico di bachelite nera spicca una ghiera rossa con le tacche bianche; Annina posiziona la ghiera con precisione tra le parole wolle e baumwolle, esattamente a metà, e aspetta che la piastra raggiunga quello stadio invisibile delimitato a nord e a sud, o a est e a ovest, dai confini tra quelle parole, wolle e baumwolle, il cui significato per lei non ha alcuna connessione con ciò che esprimono, bensì semplicemente con ciò che producono: una piastra tiepida o ben calda.

In ogni caso, le parole tedesche di cui wolle e baumwolle sono semplicemente gli avamposti circolano ovunque da quando l'Italia ha siglato una così stretta alleanza con la Germania: fuoriescono dagli altoparlanti, dalle radio, dai cinegiornali; fioriscono come una muffa sui muri, nei manifesti e sulle pagine del "Mattino"; e si addensano anche in casa di Annina e Giovanni, storpiate dalla lunga abitudine napoletana ad amalgamare le parole straniere e a rendere più morbida, quasi impercettibile, la loro origine lontana. Prima che la spia rossa alla base del ferro si spenga, Annina passa sulla giacca e sui pantaloni uno straccio imbevuto d'acqua e poi strizzato, per togliere eventuali tracce di polvere. Va a caccia di minuscole macchie – visibili solo a lei – come una cercatrice di lumache dopo un pomeriggio di pioggia. Quando stira la giacca e i pantaloni, dopo aver imbevuto un secondo straccio di un'essenza di sua invenzione – un misto di acqua di fiori d'arancio, colonia e aceto – lo stende tra la stoffa e il ferro. La temperatura, tra wolle e baumwolle, fa evaporare i residui d'acqua e nuvole di vapore profumato penetrano nel tessuto o si sollevano dal tavolo, pronte a sparire in un attimo.

Annina, che da più di vent'anni lavora in casa Albaneta, conosce tutti gli artifici di una grande stireria: come lavare via l'unto dal colletto e dai polsini di una camicia, come si inumidiscono e si arrotolano strettissime le lenzuola che devono essere stirate senza che una sola piega ne sciupi la levigatezza. Ha imparato a dosare l'amido in grani, prima di scioglierlo in due dita d'acqua fredda e poi diluirlo a seconda della consistenza che vuole ottenere per un colletto, lo sparato di un frac o una tovaglia di fiandra di lino.

Per Annina, che Giovanni ogni mattina indossi un abito pulito e stirato di fresco è da trent'anni un atto d'amore. E Giovanni si sottopone a questa lieve vessazione — la percepisce così, una mania innocua di sua moglie — deciso a goderne i vantaggi, primo tra tutti quello di essersi fatto tra i suoi colleghi una fama di elegantone. Una volta stirati il vestito e la camicia, Annina li appende alla gruccia e li lascia lì a dondolare impercettibilmente nella corrente d'aria. Con la stessa cura strofina le scarpe nere con una spazzola di crine finché non brillano come l'ossidiana, di cui conserva un pezzo comprato durante una gita sul Vesuvio qualche anno prima.

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Pagina 104

3
Girolamo Valcarcel, duca di Albaneta,
collezionista



Da mezzo secolo il duca di Albaneta si faceva un vanto di allestire il presepe più bello di tutta Napoli e di possedere veri e propri capolavori. Si trattava, per la maggior parte, di una raccolta ereditata dal padre e dal nonno, entrambi appassionati collezionisti di pastori. Sui suoi acquisti personali, il duca manteneva il segreto. Costretto dalla duchessa a un'intensa vita sociale, si aggirava al Tennis Club o al Circolo dell'Unione con l'espressione afflitta di un somaro condotto al mercato. Ai ricevimenti la sua aria svagata irritava la duchessa, costretta a sussurrargli decine di volte i nomi degli ospiti e a portarlo per mano a salutare le personalità invitate, di cui invariabilmente Albaneta ignorava la carica. Tendeva l'orecchio alle voci della città solo quando veniva a sapere che un dissesto finanziario o un'eredità contesa avrebbe potuto fargli acquistare un pezzo di valore. Negli anni, si compiaceva, aveva portato a segno un paio di bei colpi: un gruppo di capre e pecore sicuramente di mano di Nicola Vassallo e una Madonna di Giuseppe Sammartino.

La grande occasione, quell'unica, vera, potente emozione che fa da spartiacque nella vita del collezionista, gli era capitata quasi per caso nel giugno 1920: Corrado Petrarulo, una mezzatacca di antiquario che non gli aveva mai proposto niente di interessante ma solo repliche ottocentesche di fattura mediocre, era andato a trovarlo, un sabato mattina, tutto accaldato come se avesse un principio di insolazione. Il duca si era fatto trovare in maniche di camicia mentre dava ordini per disporre una quarantina di tavoli uniti a ferro di cavallo lungo tre lati del cortile.

"Perdonate signor duca, forse non è il momento, ma ho un affare per voi."

"Dite bene, amico mio, non è il momento. Alle tre," Albaneta diede un'occhiata all'orologio, "apriamo il portone e qui entra un mare di gente. È il 21 giugno, il giorno di San Luigi."

Petrarulo fece segno che non aveva capito.

Il duca schioccò le dita per richiamare l'attenzione di un ragazzo al balcone del primo piano. "Più lungo quel cordone," urlò, "che ci vogliamo fare con quella miseria? Fino a giù deve arrivare, altrimenti come lo appendiamo lo zio?"

Petrarulo non fiatò. Qualunque cosa il duca stesse facendo, assorbiva tutta la sua attenzione.

"Portate lo zio, avanti!" urlò di nuovo il duca, nervosissimo. "Portatelo e appendetelo! Tra mezz'ora apriamo il portone e qui è ancora tutto da fare!"

"Signor duca," mormorò Petrarulo.

"Non ora Petrarulo, statevi buono. Godetevi la messinscena, ma non parlate. Succede una volta l'anno, e va fatto per bene."

Petrarulo si allontanò e si infilò nella guardiola del portiere. "Ma che fanno?" chiese. "È un matrimonio?"

"Ma quale matrimonio," disse il portiere con aria da cospiratore, "oggi è il giorno di San Luigi."

"Ebbene?" fece Petrarulo, "che ci devono fare con san Luigi?"

Il portiere scosse la testa scoraggiato. "Ma di dove siete voi?"

"Di Capodimonte. Perché me lo domandate?"

"Ah, ecco. Se foste di Napoli sapreste ogni cosa."

"Sarebbe a dire?"

"Quattro, cinquecento anni fa, un certo Luigi Albaneta fu preso dai turchi. Sicurissimo che lo avrebbero impiccato, scuoiato e fatto asciugare al sole come il pesce secco, fece voto a san Luigi che se fosse tornato vivo avrebbe sfamato i napoletani. I turchi lo risparmiarono e il prigioniero riuscì ad arravogliarseli. Nessuno sa come avvenne il miracolo, fatto sta che quello tornò sano e salvo e molto più ricco di com'era partito. Un sant'uomo davvero. Fece costruire un palazzo principesco, diventò duca e mantenne il voto di sfamare i poveri una volta l'anno. Poi l'usanza si perse. Io dico che è normale, era un voto bellissimo e generoso, ma pure allora era come oggi, tale e quale: i soldi diminuiscono e i poveri aumentano, e gli Albaneta erano benefattori, sì, ma tenevano pure l'occhio al portafogli. Cinquant'anni fa lo zio del duca attuale decise di riprendere la tradizione. E misteriosamente diventò sempre più ricco. Io dico che Dio vede e prende nota, quando si ricorda. Oggi nessuno potrebbe permettersi di sfamare i poveri di tutta Napoli, noi ci limitiamo a quelli del quartiere. Venite a vedere."

Il sole faceva scintillare le tovaglie bianche che ricoprivano le tavolate. Per ogni posto apparecchiato c'erano una bottiglia di vino e una forma di pane. In fondo a destra, vicino alla rimessa delle carrozze, quattro o cinque donne stavano scaldando l'acqua sopra una cucina da campo. Al cordone che pendeva dal primo piano, il duca in persona stava fissando il ritratto a olio di un uomo vestito di scuro.

"Che ne dite, Petrarulo," domandò, "che ve ne pare dello zio?"

L'antiquario non era tipo da impressionarsi davanti all'eccentricità di chicchessia e se il duca aveva di che scialare tanto meglio per lui.

"Ho comprato in blocco i beni di un farmacista alla salita dei Cristallini," disse.

"Che beni?" chiese il duca finendo di fissare il gancio del quadro alla fune.

"Cassapanche, sedie e una ventina di pastori. In ottime condizioni, pure i finimenti. Mi avete sempre detto che voi comprate solo pastori settecenteschi."

"Sì, sì," disse il duca, "vi sembra dritto il quadro? Non pende un poco a sinistra?"

"Mi pare dritto, signor duca. Vi interessano questi pastori?"

"Certo che mi interessano. Ora però pensiamo a san Luigi. Perché non vi accomodate a mangiare con noi? Io mi siedo là, dove c'è la poltrona. Mettetevi vicino a me."

Petrarulo fece segno di no con la testa. "Devo andare. Quando volete mi trovate a Capodimonte. Chiedete di me, Petrarulo Corrado."

Uscì dall'ingresso laterale. Davanti al portone chiuso, una massa di gente spingeva per entrare non appena avessero aperto i battenti. Morti di fame senza vergogna, pensò Petrarulo, livido al pensiero che il duca lo avesse invitato a mangiare insieme a quei pezzenti.

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Pagina 144

Belmonte schioccò la lingua.

"Non mi chiedete perché me ne approfitto?" riprese il duca.

"Sono tutto orecchi."

"Siete il solo acquirente che vorrei, l'unico che si merita i miei pastori. E poi questo presepe ve lo siete già comprato con gli occhi e con il cuore anni fa, Eminenza, quando veniste a benedirlo la prima volta; se lo volete è tutto vostro, ora. Pagatemi e portatevelo via. Ve lo rimontate dove volete, a casa vostra o al palazzo vescovile, come vi pare. Oppure, date retta a me, lo nascondete per bene, lo mandate in campagna, per proteggerlo dalle bombe. I pastori sono delicatissimi, si rompono con facilità e la seta dei vestiti si taglia con lo sguardo. Perdere tutta questa bellezza sarebbe un sacrilegio, uno dei tanti che si consumano ogni giorno. Sapete come si dice, no? Il presepe è una pagina di Vangelo spiegata ai napoletani. Se è così, se di Vangelo si tratta, tocca a voi rimediare. Avete denaro, conoscenze, influenza. Vi sono piovute sulla testa un certo numero di benedizioni, perdonatemi se mi permetto di ricordarvelo. Che ne dite? La mia offerta vi sembra interessante?"

Il cardinale era seduto su una poltrona di velluto verde, rigido e diritto, senza nemmeno sfiorare lo schienale. "Posso prestarvi il denaro," disse, "senza che mi vendiate il presepe. Sono un uomo ricco."

"Niente carità, Eminenza, e niente debolezze. Vi offro uno scambio, alla pari. Anzi, sulla mia offerta ci metto sopra anche il segreto che ho custodito meglio. Si chiama Giovanni Scotti. Senza di lui, non provateci nemmeno a montare un presepe. Scordatevi di vestire i pastori o di riuscire a sistemarli come si deve. Fu mia moglie a scoprirne l'esistenza, per caso. È il marito della nostra stiratrice, figuratevi. La sua abilità più evidente è quella di restauratore, ma le sue competenze vanno molto al di là. Giovanni Scotti non parla con nessuno, parla solo con i pastori. Io credo che sappia chi sono stati. Sapete meglio di me che sugli autori del presepe napoletano non si hanno molte notizie, a parte i grandi scultori che hanno lasciato opere firmate o di attribuzione certa. E immaginerete anche voi che molte di queste fisionomie sono reali. Queste sono le facce di duecento anni fa. Guardate questo storpio con le mani e i piedi bendati, potete immaginare che non abbia mai vissuto?"

"Albaneta, la vostra proposta mi turba."

"Non turbatevi per così poco, Eminenza. Guardatevi attorno. Vi pare che possiamo ancora indulgere in sottigliezze? Credevamo che la nostra città fosse più eterna di Roma, più saggia di Atene e molto più bella del vostro Paradiso. Credevamo che questo fosse un segno. L'indicazione che un miracolo si sarebbe compiuto oggi, domani o dopodomani. Crediamo nelle leggende, nei miracoli, nelle profezie, parliamo con i morti e con i santi. Come Giovanni Scotti che parla con i pastori. Ma adesso sono stanco. I napoletani sono stanchi. Ci si stanca anche della bellezza, non credete? Ci si stanca di aspettare promesse che non si compiono, miracoli che non accadono. Ieri pomeriggio sono cadute le bombe sul lungomare e le esplosioni hanno fatto tremare anche questo mio vecchio palazzo. In segno di gratitudine per la nostra misteriosa salvezza, mia moglie ha fatto benedire dal parroco tutta la strada e lo ha ringraziato con una zuccheriera d'argento, vuota naturalmente, l'ultima del servizio inglese. Guardate i miei angeli in gloria, turbinano come uno sciame di api colorate. Non si sono accorti di nulla. Giocano, smemorati e distanti. Le loro ali sono fatte di legno, come sapete. Se fossero di terracotta sarebbero troppo pesanti e non avremmo quell'illusione di un volo compiuto in piena libertà e leggerezza che tanto ci incanta. Libertà illusoria, naturalmente, sono appesi a fili invisibili, legati mani e piedi; nati nei vicoli, anche loro. Prigionieri, Eminenza, come tutti noi, qui.

"Datemi retta, compratevi il mio presepe e invitate Giovanni a casa vostra. Offritegli un bicchiere di vino e cominciate a giocare. Può dipingervi un fondale in due giorni, scegliete voi tra i tanti colori del cielo di Napoli quello che si intona di più al vostro umore del momento. Lui vi dipingerà il cielo settecentesco con le sue striature di celeste e rosa o quello così limpido da sembrare compatto come una volta di smalto. Volete un cielo cupo? La notte stellata? Scotti sa rammentarvi la luce della luna invernale, la stessa che vi avrà sorpreso da bambino le notti in cui un incubo è venuto a svegliarvi. O i colori trasparenti della nostra estate, quando l'alba stende le pieghe del mare. Scotti sistemerà i vostri pastori – i nostri, lasciatemelo dire – come voi non vi sognate nemmeno di poter fare. Ve li indicherà a uno a uno. Vi dirà che la pescivendola è stata una bella ragazza di Castellammare di Stabia, o che il tavernaro era un attaccabrighe finito poi impiccato. Lo vedete l'erbivendolo che guida una giumenta con la gerla stracolma com'è contento di avere tanto ben di Dio da piazzare al mercato? E il ragazzino scontroso vicino allo storpio? Ogni volta che montavamo il presepe, Scotti voleva metterli vicini, lo Scurnuso e il ragazzino senza camicia. Diceva che è così che dev'essere. Non vi credete, eh, non sono impazzito. Vendo tutto e spedisco i miei nipoti da un'altra parte, questo è quanto. Forse Scotti è uscito pazzo. Inventa storie, leggende, dicerie. È possibile che si burli di noi, di me e di voi e di questa nostra debolezza, conservare qualcosa di fragile e inutile quando tutto il resto affonda. Oppure è un visionario, uno scimunito, che inventa una trama dove non ce n'è. Decidete voi. Io, per me, ho deciso."

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