Copertina
Autore Felice Cimatti
Titolo Il possibile e il reale
SottotitoloIl sacro dopo la morte di Dio
EdizioneCodice, Torino, 2009 , pag. 184, cop.fle., dim. 14x21,5x1,2 cm , Isbn 978-88-7578-122-4
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe scienze cognitive , filosofia , antropologia , religione
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Indice


VII  Introduzione

     Capitolo 1
  3  Per un sacro non religioso

     Capitolo 2
 49  Una questione logica: la trascendenza

     Capitolo 3
 93  Dal profano al sacro, e ritorno

     Capitolo 4
137  Ancora il sacro, dopo la morte di Dio

179  Bibliografia


 

 

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Pagina VII

Introduzione


«Forse», scrive Kafka, «c'è solo un peccato capitale: l'impazienza». È impaziente chi non aspetta che il ragionamento che l'altro sta provando ad articolare, che si tratti di un ragionamento banale o intelligente non è importànte, si chiuda, e frettolosamente completa per lui il pensiero che, forse, stava esprimendo; è impaziente chi di fronte a un'immagine ricca di dettagli e colori si limita a un'impressione veloce, per quanto la sua velocità possa essere guidata dal gusto e dalla cultura, per rapidamente passare all'immagine successiva; è impaziente colui che non si ferma ad aspettare chi, per semplice pigrizia o perché appesantito dagli anni, ha un passo più lento del suo; è impaziente chi non ha tempo per osservare il gesto sfrontato o umile, non fa differenza, del mendicante che intralcia il suo cammino protendendo una mano verso di lui; è impaziente chi corre a leggere la fine dell'articolo, ché tanto ha già compreso dove vuole arrivare; è impaziente, infine, chi — semplicemente — è disattento. Nelle pagine che seguono si proverà a dare conto di questa affermazione di Kafka, e del nesso che lega questo «peccato capitale» al senso del sacro e alla logica. Ché in questo libro si parla del sacro, ma anche, appunto, di logica.

La tesi che sosteniamo (che non pretende certo di essere nuova, semmai di essere sostenuta con argomenti almeno in parte diversi da quelli consueti) è che l'esperienza del sacro non ha nulla a che vedere con la religione; che quindi sacro e religione appartengono ad ambiti affatto diversi della vita umana. Il sacro è un'esperienza, non una credenza, qualcosa che facciamo, non qualcosa in cui crediamo. È qualcosa che si prova in certe situazioni, non uno stato mentale, qualcosa che — in un senso che preciseremo — si vede, non qualcosa che si pensa. Ma, attenzione, è sì un'esperienza, ma non un'esperienza irrazionale o intuitiva; proveremo ad argomentare che quella del sacro è un'esperienza peculiare, un' esperienza logica. Il luogo comune vuole distinguere nettamente ciò che è logico da ciò che, invece, sarebbe proprio del sentimento, dell'emozione. La nostra tesi, al contrario, è che il sacro appare proprio all'intersezione fra logico ed emotivo. E appare non quando siamo sopraffatti da qualcosa di straordinario, anche se questa possibilità non si può escludere, non di fronte all'immane potenza della natura o a ciò che sfugge alla nostra comprensione; al contrario, il sacro è affatto immanente, è terra terra, il sacro appare quando - con uno sforzo che, tuttavia, non ha nulla di eroico, con uno sforzo umile, modesto - riusciamo a prestare attenzione (e qui cominciamo ad allontanarci dall'impazienza) al confine invisibile, proprio perché non è un confine empirico ma logico, fra ciò che osservo e ciò che al suo posto potrei osservare, fra un volto e la sua libertà, fra il reale e il possibile.

Il caso del volto può forse aiutarci a comprendere quanto vogliamo dire: un modo, forse non l'unico ma certo non il peggiore, di intendere quale sia il senso dell'amore per qualcuno è che amare significa, prima di tutto, non chiedere nulla a chi si ama, e attendersi dall'altro se non quello che già, spontaneamente, è disposto a donarci. L'amore è, in questo senso, del tutto al di qua di ogni richiesta. L'amore è gratuito. Ora, nel volto di chi amiamo è visibile - quando riusciamo a osservarlo come qualcosa di sacro - proprio questa caratteristica fondamentale, che poi altro non è che dire che il volto dell'altro è libero. Ma la libertà la vediamo o la pensiamo? Posso pensare alla libertà, posso elencarne le caratteristiche, posso cercarla nelle leggi o nei comportamenti, ma com'è possibile vederla in un volto determinato, questo volto qui e ora davanti al mio sguardo impaziente e distratto? Un volto è, appunto, soltanto questo volto; mentre la libertà è, al contrario, tutto ciò che questo volto non è in questo momento, ma potrebbe essere in luoghi e tempi diversi. Il sacro appare quando in questo volto vedo anche la sua intrinseca e insopprimibile libertà; vedo quindi in questo corpo reale davanti a me ciò che è soltanto possibile e non presente. Per questo più sopra abbiamo parlato di sentimento logico, perché è contemporaneamente un sentire ma è un sentire che è in contatto con ciò che non sì può sentire o toccare o provare, perché non si può sentire ciò che non esiste come cosa; ma se non esiste potrebbe comunque esistere, è possibile appunto, e il possibile non è un'entità percettiva, ma logica. È qui il nesso con il «peccato capitale» di cui parlava Kafka: l'impaziente non coglie il sacro nel volto, lo vede solo come viso, come entità materiale, lo vede come un'entità a cui chiedere qualcosa, come utilizzabile. È un peccato, perché non vede la libertà negli occhi dell'altro, ma se è un peccato contro Dio è perché è un peccato contro il proprio prossimo. Già fin d'ora si coglie il nesso fra sacro, apparenza (il sacro appare, è qualcosa che si vede e si fa) ed etica. Ma su questo torneremo nelle pagine seguenti.

A questo punto, però, sono opportune alcune precisazioni. La prima è che in queste pagine si userà logico come sinonimo di linguistico, nel senso che il sentimento logico è inseparabile dal fatto che noi animali umani parliamo e comprendiamo una lingua determinata. In questo senso parlare non equivale affatto a comunicare; il parlare ci mette nelle condizioni di cogliere il nesso fra reale e possibile, fra presenza e non presenza, fra profano e sacro. Solo perché l'animale umano è l'animale che parla è in grado di provare l'esperienza del sacro. Non stiamo inoltre sostenendo che il sacro sia un'esperienza speciale, che solo una categoria particolare di esseri umani può provare. Al contrario, la nostra tesi è che si tratta di un'esperienza bio-logica fondamentale. Qui è importante cogliere i due elementi di quest'aggettivo; è un'esperienza bio logica, nel senso che rientra fra quelle proprie dell'animale umano, della specie vivente Homo sapiens, come il volare è un'esperienza biologica delle rondini o il "toccare" con le orecchie è propria dei pipistrelli; ma è anche un'esperienza bio logica, perché si tratta di qualcosa che possiamo vivere soltanto attraverso la logica propria delle lingue umane. Il sacro è affatto mondano, abbiamo scritto sopra, proprio in questo senso, perché non richiede un allenamento o doti particolari; sei un animale umano se puoi provare l'esperienza del sacro. Per questa ragione non richiede uno sforzo particolare. Detto altrimenti, il sacro non è un problema di volontà, come non è un problema di volontà respirare o imparare a parlare quella che diventerà la propria lingua materna.

Secondo questa descrizione, inoltre, è fondamentale che quello del sacro sia un sentimento logico; se fosse soltanto un sentimento, infatti, si tratterebbe di qualcosa di soggettivo e individuale, che solo alcuni potrebbero provare. Il sacro non è un sentimento soggettivo; al contrario, ogni Homo sapiens è in condizione di provarlo. C'è da aggiungere che il nesso con la logica significa anche che quello del sacro non è un sentimento privato, interno a chi lo prova. Siccome passa per la logica, cioè la lingua che si parla, e dato che la lingua è un'istituzione pubblica, l'esperienza del sacro non è - di conseguenza - né privata né tanto meno racchiusa nell'interiorità di chi la prova.

C'è un altro aspetto dell'esperienza del sacro sul quale è opportuno insistere da subito: il sacro, in quanto sentimento logico, non è uno stato cognitivo, non è un sapere. Provare l'esperienza del sacro non significa credere in questo o quest'altro (è una nota banalità, ma ricordiamolo ancora una volta: credere nei dogmi di una fede non ha nulla a che vedere con l'esperienza del sacro, né la favorisce né l'ostacola; si tratta appunto di fenomeni diversi). In questo senso il problema del sacro è del tutto distinto da quello dell'esistenza o non esistenza di Dio. Il sacro non rimanda a nulla di trascendente, a nessun aldilà. Propriamente, che Dio esista o non esista non ha a che fare con il sacro, che è un fenomeno naturale e bio-logico. Da questo punto di vista l'esperienza del sacro riguarda tanto il credente quanto l'ateo. Così come il problema del valore antropologico e culturale del sacro riguarda, anche e soprattutto, le società che più si sono allontanate dalla religione (ammesso che ne esistano). Ché se il sacro è una esperienza bio-logica allora è un'esperienza costitutiva dell'animale umano, come appunto il parlare o il respirare, ma anche il pregare: se infatti chi prega cerca di «ristabilire l'ordine turbato, di equilibrare forze in squilibrio, di ristrutturare un cosmo destrutturato», allora, evidentemente, chi o che si prega non fa grande differenza; la preghiera di un ateo ha lo stesso valore antropologico di quella di un credente. Non possiamo rinunciare al sacro. Il problema è che è difficile separare il sacro dal religioso, l'esperienza dalla credenza, il bio-logico dallo storicamente determinato (e come tale destinato a morire). Ma si tratta di una distinzione fondamentale, senza la quale non capiamo buona parte dei problemi della nostra esperienza contemporanea. In effetti è un grave equivoco (e interessato, a tutto vantaggio delle religioni costituite) continuare a sostenere, come troppo spesso si sente fare, che l'«inclinazione umana ad ordinare» la realtà implicherebbe «un ordine trascendente», l'aspirazione a «un'altra realtà». Si può benissimo fare a meno di «angeli e [...] diavoli» senza per questo rinunciare al sacro.

Un'ultima parola su come questo libro è stato scritto e costruito. Per forza di cose, anche se ciò potrà infastidire chi predilige gli specialismi, si muove fra campi disparati, e spesso lontani, provando a far dialogare figure e tradizioni assai diverse fra loro: le scienze cognitive, i testi dei mistici, la filosofia, l'antropologia della religione, la linguistica teorica, la teologia. L'effetto complessivo potrà sembrare non organico. Può darsi, ma è una preoccupazione che non c'è sembrata importante, come non rilevante c'è sembrata l'esigenza stilistica di evitare le ripetizioni. In effetti in più punti del libro lo stesso problema — la distinzione fra sacro e profano — viene ripreso, anche se ogni volta con strumenti concettuali diversi. È stata una scelta necessaria, perché il sacro non ha una collocazione settoriale, non sta soltanto in un "modulo" della natura umana, e tanto meno in un solo dipartimento universitario. Abbiamo allora provato a seguirlo nelle sue diverse forme. Ci permettiamo, cambiando appena il testo della citazione, fare nostro il motto con cui Karl Barth apre L'Epistola ai Romani, riferendosi proprio al suo uso dei testi della tradizione: «Non si devono trascurare le differenze tra il loro tempo e il nostro, tra il luogo in cui scrissero e il nostro, col fine però di riconoscere che queste differenze non hanno nessuna importanza essenziale». Per vie intricate questo libro deve molto a un amico che non è più con noi, Tommaso Russo Cardona.

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Pagina 3

Capitolo 1

Per un sacro non religioso


Mistica: l'oscura autopercezione del mondo che è al di fuori dell'Io, dell'Es. Sigmund Freud, Risultati, idee, problemi


Sentimenti logici

Il sacro appare. Il punto di partenza per una qualsiasi analisi che voglia almeno provare a essere antropologicamente adeguata è questa fondamentale constatazione: il sacro è qualcosa di sensorialmente evidente (per questo è apparente, ossia percepibile), cioè si vede, si sente, si annusa, si tocca, si gusta. Il sacro ha a che fare con l'esperienza dei sensi, cioè il sacro è corporeo. Ma che cosa appare? Non appare una realtà trascendente, perché il trascendente — per definizione — non appare (e se invece apparisse allora non sarebbe trascendente; vedi Capitolo 2). Un'analisi antropologica del sacro, in particolare un'analisi bio-logica del sacro, si svolge tutta al livello della vita mondana, della vita terra terra, dell'esistenza nel tempo e nello spazio, nella storia. Il sacro appare, quindi. In questo libro proveremo ad analizzare dapprima le condizioni che permettono a questo fenomeno di manifestarsi — condizioni che individueremo nella natura linguistica della mente umana, nel fatto, cioè, che il tipico pensiero umano è un «pensiero verbale» — e poi le conseguenze estetiche, ed etiche, di questo apparire.

Che vogliamo dire, però, quando sosteniamo la tesi che il sacro non ha relazione con il trascendente? Che cosa appare, nel sacro, se non il trascendente? Se il trascendente è ciò che in qualche modo si colloca oltre la nostra comune realtà umana, quella in cui viviamo e sentiamo e pensiamo e moriamo, allora, come mostreremo nel Capitolo 2, una realtà trascendente non c'è. E non perché Dio non esista (la nostra, cioè, non è la presa di posizione di un ateo). Perché la non esistenza del trascendente non è un fatto empirico, bensì logico-linguistico, nel senso che il problema non è che nessuno ha mai potuto accertare l'esistenza fisica di Dio, che nessuno lo abbia mai incontrato, ma che la nozione stessa di uno spazio diverso e distinto da quello mondano - è questo il trascendente - non ci interessa. Credere che esista qualcosa del genere riguarda soltanto chi lo crede, e in questo libro ci interessa solo il nucleo bio-logico dell'animale umano, e in quel nucleo - è una delle tesi di questo libro - quella credenza non trova posto. L'intero problema della trascendenza diventa, in questo contesto, un problema di tipo logico, non fattuale; la questione del trascendente diventa, in questa prospettiva, quella dei limiti logici del linguaggio umano. Al contrario, il mondo della vita è questo mondo qui, di un altro mondo non è dato parlare, in nessun senso, sia scientifico che poetico. Può darsi, qualcuno obietterà, ma se non lo possiamo dire o pensare lo possiamo invece sentire interiormente; quello di Dio, si è soliti dire, non è un problema razionale. Il punto è che l'esperienza del sacro non è un fenomeno di questo tipo: non è un sentire interiore, non è uno stato soggettivo o privato. Ma, allo stesso tempo, non è nemmeno un'esperienza cognitiva, non è un pensiero o una credenza. Cominciamo la nostra analisi, intanto, da una celebre descrizione dell'esperienza del sacro:

Quando diciamo che Dio è l'oggetto dell'esperienza religiosa vissuta, dobbiamo tenere presente che Dio è spesso una nozione assai poco precisa; molte volte questa nozione non si identifica affatto con quel che abitualmente intendiamo per Dio. L'esperienza religiosa vissuta si riferisce a qualche cosa: in molti casi è impossibile dire più di questo, e, perché l'uomo possa attribuire a questo qualche cosa un qualsiasi predicato, è necessario che venga costretto a rappresentarselo come qualcosa di diverso. Sull'oggetto della religione quindi si potrà dire anzitutto questo: è qualche cosa di diverso, che sorprende. [...] Finora non si parla affatto di soprannaturale o di trascendente, anzi si può parlare di Dio soltanto in modo improprio; abbiamo soltanto un'esperienza vissuta, collegata al diverso che stupisce. Lungi dal prospettare la minima teoria e neppure la più elementare generalizzazione, ci contentiamo della constatazione empirica: quest'oggetto esce dall'ordinario)

L'oggetto della «esperienza religiosa vissuta» non necessariamente ha a che fare con Dio. È il primo punto, e fondamentale: l'esperienza del sacro, di questa ci stiamo occupando, non coincide affatto con quella che ha per oggetto quell'entità - qualsiasi cosa sia, quest'entità - a cui ci si riferisce, ad esempio in italiano, con la parola Dio. Il sacro è distinto dal religioso, se intendiamo - in prima approssimazione - per religione quanto ha a che fare con pratiche istituzionalizzate e storicamente determinate. C'è di più, ci dice Van der Leeuw, il sacro appare in una molteplicità di campi dell'esperienza umana. In questo senso, come vedremo, il sacro si configura con un tipo di esperienza che, propriamente, solo in casi eccezionali se non marginali è connesso alla religione. In questo senso il sacro è un fenomeno che riguarda tutti gli animali della specie Homo sapiens, che siano credenti, atei, agnostici o che non si siano mai posti il problema di Dio. Quella del sacro è una esperienza affatto mondana e umana; propriamente non è nemmeno una esperienza laica, ché il laico presuppone comunque l'orizzonte del religioso. In questo libro ci occuperemo del sacro come di un fenomeno affatto immanente, implicito nella nostra natura, come il respirare o il parlare una lingua che abbiamo appreso da chi si è preso cura di noi durante la nostra infanzia; in questo senso il sacro è un dato bio-logico.

Il sacro, inoltre, è quell'oggetto o fenomeno che «esce dall'ordinario», che è «diverso», che «sorprende». C'è sacro quando si manifesta un' interruzione nel tessuto consueto (normale) dell'esperienza, quando qualcosa per qualche ragione risalta rispetto all'ordinario corso delle cose. Questo vuol dire che il sacro registra l'apparizione di qualcosa di eccezionale, di miracoloso? Non sta rientrando in gioco, in questo modo, quel trascendente che vogliamo escludere dall'ambito del sacro? E, ancora, in questo modo non si torna a insistere sul carattere irrazionale, affatto soggettivo, del sentimento del sacro? In effetti, se vogliamo mantenere il carattere non fortuito e non soggettivo di quest'esperienza (io la provo, tu no; tu la sentì, io no), cioè il suo valore bio-logicamente universale, che quindi riguarda tanto il credente che il non credente, si tratta intanto di cogliere il valore specifico di questo sentimento.

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Pagina 12

Il corpo, il corpo umano fatto di carne e sangue, ha occhi, occhi che la storia naturale ha predisposto a percepire altri corpi, altri oggetti, umani e no, viventi e no. Gli occhi servono proprio a questo, a vedere gli oggetti del mondo. Detto altrimenti, gli occhi vedono ciò che è visibile, ciò che, appunto, si offre alla vista. Il problema che ci poniamo ha a che fare con la natura di un visibile molto particolare, quella speciale entità visibile che è il volto dell'altro. Prima di chiarire perché già il semplice fatto del vederlo, questo speciale visibile, sollevi un grave problema e percettivo ed etico, introduciamo una doppia distinzione terminologica: distinguiamo, dapprima, la faccia dal volto. La faccia è un oggetto, un'entità materiale come qualsiasi altra, fatta di certe sostanze, composta, deperibile come tutti gli oggetti sono deperibili. La faccia è quell'oggetto, ad esempio, studiato dagli scultori o dai chirurghi estetici. Gli esseri umani (ma non solo, talvolta si può scorgere un volto anche in animali non umani) hanno, oltre a una faccia, anche un volto (ma non necessariamente, ci può essere anche volto senza faccia); negli esseri umani possiamo vedere, oltre a una faccia, anche un volto. Possiamo vedere, perché, sebbene l'apparenza del volto sembri indiscutibile e affatto naturale, accade molto spesso che il volto receda dalla piena visibilità, e si veda soltanto una faccia, cioè una cosa; questo è quanto è accaduto, ad esempio, nei campi di sterminio (e difatti gli internati erano un numero, non più persone con un nome e, appunto, un volto). Qual è la differenza fra faccia e volto? È la differenza essenziale che proveremo ad analizzare fra poco, una differenza che pone un problema talmente complicato da essere, in realtà, quasi insolubile. Faccia e volto, comunque, teniamoli distinti, ma non come oggetti diversi (come un cucchiaio e una forchetta, ad esempio), bensì come oggetti che appartengono a generi logici diversi. Altra distinzione da ricordare, quella fra occhi del corpo corporeo e occhi del corpo logico (che è il corpo che ha un volto). Gli occhi che vedono alberi e rondini, le stelle e la luna sono gli occhi del corpo corporeo, essi stessi fatti di carne e sangue. Questi occhi sono fatti, dalla selezione naturale, per vedere gli oggetti visibili. Sono gli occhi, ad esempio, del gatto o della talpa. Occhi corporei. Il volto, è questa la tesi che proponiamo, non è visibile con questi occhi, bensì con gli occhi del corpo logico. Il corpo logico, ci venga concessa, per il momento, questa tautologia, è quel corpo in grado di vedere il volto.

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