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| << | < | > | >> |IndiceEl Cinzio descoverto di Francesco Saba Sardi 7 Adytum ignavis procul hinc abeste profani. Alli lettori 25 Indice delli proverbi che contiene lo libro 27 Avvertenza, Fonti 28 Prefatione 29 Alli lettori del libro excusatione de l'auttore 33 Alli blatteratori et sgridatori del libro et dello auttore morditori 34 Allo sopra detto delli inclyti signori de' Medici Clemente VII l'auttore humilmente alli santi piedi prostrato 35 In animi dotes ius fortuna non habet nec in amicorum donis imperium. Allo sopradetto Clemente VII 36 Libro della origine delli volgari proverbi 37 Chi prima va al molino prima macina, proverbio ms. 504 Sia maledetto Pesaro et Lanzano, sonetto ms. 520 O zoccholanti, maledetta setta, sonetto ms. 520 Perché, frate, mi è 'etto che stampare, sonetto ms. 520 Forsi tu aspetti, o mio char Fabiano, sonetto ms. 521 Lettera di un acquirente 524 Cauda. In margine ai Modi ovvero Posizioni quivi chiamati a illustrare la Cinzieide di Francesco Saba Sardi con i Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino 529 Nomi propri 565 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Capita assai di rado di trovarsi tra le mani un'opera di grandi, sontuose proporzioni come questa e che a lungo sia rimasta, più che obliata (e può essere frutto di casualità), volutamente ignorata, accuratamente nascosta. E tenacemente deprecata. Più in tempi piuttosto recenti, va detto, che in quello in cui è stata concepita e realizzata. Descoverto il suo autore, descoverto questo suo magnum opus. E lo dico in veneto perché veneziana è stata la vicenda, sostanzialmente veneziana la lingua in cui si è proposta. Anche se in apparenza in fiorentinesco. Termine che vuole designare sia il linguaggio eletto dall'autore, sia l'uso particolare al quale lo ha piegato. Linguaggio: quello che da qualche secolo era andato imponendosi, per forza propria e contingenze esteriori, almeno ai letterati. Il "miracolo" fiorentino che ha saputo assicurare "al linguaggio d'Italia una tradizione in lingua volgare", come sostiene Giacomo Devoto. Miracolo compiuto da un "'milite ignoto' dimenticato ma vittorioso, rappresentante di quegli amanuensi che hanno determinato la fortuna di una poesia che assicurava la chiara pronuncia delle vocali finali e che non era estranea alla ossatura fonetica né all'armonia dei testi". Quanto all'uso fattone da Aloisio Cinzio de' Fabrizi (ovvero Aloyse Cynthio de gli Fabritii, dove forse il cognome è Cynthio e de gli Fabritii una tarda aggiunta) per comporre questo suo Libro della origine delli volgari proverbi, esso risponde al metodo di uno straordinario "mescolatore", un paratattico che, se si è immesso nella corrente principale del grande fiume del "linguaggio d'Italia", non ha però mai perduto di vista il divenire del sistema linguistico veneziano estesosi "fino alle frontiere alpine e, nelle aree più vicine, addirittura a confondersi con i parlari originari". E sempre Devoto fa giustamente notare che se gli eventi politici connessi con la Lega di Cambrai si fossero conclusi in favore di Venezia, il veneziano sarebbe potuto senza meno diventare il linguaggio d'Italia "secondo lo stesso procedimento che ha imposto così in Francia come in Inghilterra una lingua di base cancelleresca e non letteraria". Se Cinzio ha optato per il "fiorentinesco", è stato, come scrive lui stesso nella Prefatione dei Proverbi, per far sì "che le comuni et divolgate cose porrà finanzi agli lettori suoi, ma con nuovo et inusitato modo, talmente che le scritture suoe del cieco et errante volgo leveranno le tenebre da gli suo' caliginosi occhi, et de gli non volgari con dilettatione et ammiratione a' loro a' limi saranno a grado et, a gli sciocchi et rintuzzati ingegni, al studio di virtù", eccetera. Resta il fatto che il "cinziano" è un linguaggio zeppo di intrusioni non solo veneziane, ma variamente dialettali, latineggianti, frutto in larga misura di invenzione, e a renderlo deliziosamente imperfetto, imprevedibile, sragionante, e non di rado di ardua accessibilità, è la dilagante abilità dell'autore di farsi pescatore e fabbro di singole parole e forme inusuali e altrove irreperibili. Sicché l'opera di Cinzio, contesta oltretutto di elaborati e trovarobati estratti dalla tumultuosa corrente del Rinascimento — età dell'oro della produzione letteraria e più ampiamente artistica d'Italia — si presenta quale un'esplicita "lode dell'oscurità", un superstrato al sistema linguistico dei dotti di tutt'Italia. Ma la lode dell'oscurità è, per forza di cose, tutt'uno con la follia dell'arte. La quale non è del mondo. È dell'invenzione. Fortuna vuole che finalmente Cinzio e la sua Cinzieide siano stati "descoverti". Grazie a un editore che vuole essere un "ambasciatore dell'arte", e dunque un propositore di scritture spesso in palese controtendenza rispetto alla letteratura e all'obbligatorietà dei suoi codici. Perché Cinzio, censurato in vita (libri sequestrati, libri scomparsi, libri bruciati, "libri maledetti") è stato ricensurato in tempi a noi vicini. A opera, inutile dirlo, dell'accademia, elettiva interprete della letteratura. Situazione che merita un attento esame. A cominciare dai dati anagrafici, secondo la divulgata che rifiuta di accettare che un libro, ogni libro, potrebbe e anzi dovrebbe nascere e circolare anonimo. Solo così si potrebbe apprezzarlo di per sé, con il dovuto distacco, al di là di ogni contingenza estranea all'opera. Il giudizio che il Lettore (con la maiuscola, alla Cinzio; ogni lettore, lo voglia o meno, si impanca a Giudice) formula esplicitamente o con il sottinteso del disinteresse, dovrebbe riguardare lo scritto anziché l'autore e le sue idiosincrasie, in primo luogo le sue eventuali velleità di engagé. Ahimè, cessò, o Enea, quel tempo in cui si badava alla scrittura anziché ai decreti della sintattizzatrice e grammaticalizzatrice dell'attuale leggibilità, intendo l'editoria e il costume che presuppongono e impongono piuttosto una miriade di idoli, oggetti e personaggi di cult. E che anche Cinzio rischi di venire letto in questa chiave, dimenticando la sua Scrittura, è il prezzo da pagare per averlo "descoverto". Bel tipo, comunque, il Cinzio. | << | < | > | >> |Pagina 21Il loro contenuto, la loro forma, la sorte toccata a questo grandioso libro dei Proverbi forniscono in ampia misura la riprova di quanto siamo andati fin qui dicendo. E, aggiungo, era inevitabile, era fin troppo allettante, l'occasione della odierna resurrezione dell'opera per non proporre qualche accenno alla censura. Sarebbe fatica vana tentare di concettualizzare uno stile. E qui sarebbe come voler tradurre in termini logico-discorsivi l'invenzione: che, diciamo, è la Parola riconosciuta, constatata. Della quale è inutile ogni sforzo di risalire a una supposta sorgente. Lo stile non è un ghiacciaio che cola. Più agevole reperire un metodo. Quello di Cinzio non è privo di precedenti. Il nostro non ha immaginato tutti i suoi racconti, come Boccaccio non ha direttamente tirato fuori dall'onirico le sue novelle. Da dove dunque proviene la valanga di stravaganze, buffonerie, "sporcherie" e "mostruosità" dell'opera di Cinzio? Lo dice lui stesso: dalle innumerevoli favole di cui è piena l'antichità classica alla quale attinge i suoi esempi in positivo, per contrastare la miserabilità della sua epoca. E basta consultare il primo proverbio, La invidia non morite [morirà] mai, pieno di esempi del buon tempo che fu. (Cinzio non mostra di avere alcuna fede nelle future magnifiche sorti: del resto, lui vivente non erano state ancora inventate.) Di uomini e vicende preclari, sono zeppi i suoi capitoli, ma la "Cinzieide" è soprattutto, a contrasto, ricca di storie falliche, di vicende della "cunina", di animali non di rado parlanti: una zoologia fatta di accostamenti e connubi, di rimaneggiamenti e travisamenti di precedenti fanfaluche. Perché l'ordinario, il quotidiano, lo straordinario, il realistico e l'impensabile, il delicato e lo scurrile hanno convissuto per millenni nella immaginazione di ogni tempo e luogo, sempre tributaria del mito e del mitologico, nella quale si sono mescolati saggezza popolare, terrore dell'ignoto e dell'inabitato e inabitabile, l'amore, l'odio, la gelosia, l'invidia, l'indifferenza. E nella fiaba o favola (per me omonimi) si ritrova sempre l'itinerario, la scoperta, meravigliosa e sconvolgente, che l'esistenza è viaggio senza meta e senza moventi iniziali. Avviene. La favola è il farsi degli eventi, ma non è il fatto se non in quanto ineffabile e inoggettuabile: al più ontologizzato, nella misura in cui può esserlo l'esecuzione musicale, la quale non è la musica, non è neppure lo spartito. La prova di verità (o di inesistente verità) della favola è "quel di più", che è poi la follia come condizione dell'arte, insita nella Parola stessa. In altri termini, in quanto istanza dell'Altro che non è immagine speculare di alcunché di esteriore; e la follia è condizione del viaggio artistico. Assurdo, a questa stregua, voler indicare, nell'opera di Cinzio, i depositi ai quali ha attinto. Ha affondato le mani in Sicilia? In Arabia? Nelle stalle delle veglie contadine invernali? Ha ascoltato le nonne favoleggianti? O i saggi dell'antichità, quelli che parlano, ma non dicono: rivelano? La traslazione che ne dà Cinzio è una cascata, un tumultuoso fiume di affabulazioni. Questo, il contenuto. Che, notoriamente, sta alla forma come l'inconscio al consapevole. Che sono indissolubili. Che sono il dreamtime. E in questo consiste l'inaccettabile dei Proverbi. A meno, com'è ovvio, e come mi provo a fare, di mettersi sul suo stesso piano, di collocarsi nel suo tempo. Un tempo in cui favole e leggenda non si erano scisse, in cui la storia era ancora in larga misura cronaca. In cui appariva accettabile che l'esistenza non avesse un senso, nonostante i ripetuti tentativi del binomio potere-religione di cacciarvelo a viva forza, con le prediche, le istanze patriottiche, i richiami al buon senso e alla virtù, i divieti e, sempre più numerosi, i roghi e i massacri, e cangiando il tabù in legge. Non resta dunque che proporre, a illustrazione di un metodo, qualche esempio della ricorrente struttura delle narrazioni in endecasillabi di Cinzio. | << | < | > | >> |Pagina 27La invidia non morite mai 39 Ogni scusa ee buona pur che la vaglia 57 Lettere non danno senno 66 Chi non si può distender si ritragga 84 Alli cani magri van le mosche 102 Futuro caret 116 Chi di gatta nasce sorge piglia 124 La va da tristo a cattivo 136 Ogni cosa ee per lo meglio 148 Altri han le noci et io ho le voci 162 [...] | << | < | > | >> |Pagina 207Anticamente, come scritto i' trovo, par che in Sicilia un principe regnasse in pescar dotto quanto prisco o nuovo; 3 il qual si dice che acciò drieto andasse però che udito aveva che 'l mar cova un pesce che beato ch'il pigliasse 6 (che 'l non ee cosa de quante a l'huom giova, cotesto avendo, che egli aver non spera, come che vista già si avea la pruova), 9 onde non sol il giorno perfin sera, ma tutta notte andava ancor errando per tutte l'acque più ch'in selve fiera, 12 tal che in mar pesce ignoto od ammirando non si trovava, ben che rado il fosse che ciascun non sapesse andar nomando. 15 Et d'i suo' antichi giurava per l'ossi tanti animali non aver la terra quante de pesci son le squadre grosse; 18 ma ancor che sì per tutto il chiuda et serra et lagi et fiumi et con ciascun ingegno per tutti i mari il giorno et la notte erra, 21 mai aggiugner non puote a cotal segno che quel che desidrava si prendesse, onde talhor volea morir da sdegno; 24 faroti, si tu vuoi, primo in pintura, ma sì dentro dal capo aveassi messe coteste fantasie che pria morire avea proposto che mai desistesse. 27 Hor mentre che esso ognhora ad irretire con ogni studio questo pesce attende, che per altro non si ode che 'l sospire, 30 fortuna (il cui poter senno trascende, sì che ingegno non val, industria od arte, ch'hor su ne manda et hor giù ne distende) 33 lo diede a un pescator di quella parte il più miser di roba et più tapino, ma buon, con cui sì mal sorte comparte; 36 il qual, come soleva, giuso chino per votar nella barca la sua rete, colla man prese 'sto pesce divino. 39 Né sì tosto fuor d'acqua il si vedete che a dir incomenciolli: «Ah! Non mi dare, ti priego, morte! Ma tue man stian quete, 42 ché quello son che sol ti può aiutare facciendo lieta la tua mesta mente, sì che per sempre avrai a triumphare». 45 Di che il meschin alhor non altramente col volto stava a queste sue parole qual forte teme et cosa grata sente; 48 ma pur veggendo che lasciar no 'l vuole, a dir, mutato in vista et in colore, cominciò qual merce chi chieder suole: 51 «Si andar de qui me lasci, o mio signore, et, qual ti chieggio, me doni la vita, parla, ché quanto brama avrà il tuo core. 54 [...] | << | < | > | >> |Pagina 259Quanto, lector, sia vana la fatica di cui l'ingegno a custodir ripone una al coir innanimata fica 3 quivi udirai, et de' nostre matrone come ee impossibel over molto raro trarle di capo una presa openione 6 né men intenderai aperto et chiaro, ancor che veda che 'l sia un gran partito, che meglio ee di non farle alcun riparo, 9 ché 'l par che più questo nostro apetito vada desiando quel che gli ee negato, come Tantalo al beer d'esser unito. 12 Ma poi veggio il voler suo sì sfrenato che non so che affirmar di libertate, che ancor, con quella, s'hanno mal portato. 15 Ma ben io dico (et ee la veritate) che chi al marital giogo ee sottoposto poche convien veder liete giornate. 18 Ma per tornar al primo mio proposto, fu di Fiorenza una grande famiglia, il cui sangue ad ogn'altro era preposto; 21 chiamavasse costor di Rodibriglia, ricchi de possessioni et di thesoro, tal che con pochi alhor avean simiglia. 24 Onde, come era conveniente a loro, per moglie il padre una sua figlia diede ad un Gometio et egli carcò d'oro; 27 vero ee che, si a l'historia qui si crede, in essa del suo tempo, qual si scrive, di dodeci et più lustri si fa fede, 30 et della donna le bellezze dive, che Berta era nomata, a gli vinti anni dice che ancora non eranno arrive. 33 Hor così, acciò che niente non si appanni, un mese non passò che gelosia al vecchio incomentiò dar grandi affanni, 36 ché, ancora che di lei nulla sentia, pur tema giorno et notte il cor gli sprona che meglior non trovasse compagnia. 39 Davanti non le andava una persona che a tutti li occhi addosso non gli avesse, pensando che di lei ciascun ragiona; 42 a prediche l'afflitta, feste o messe andar non la lasciava, né mai fuora volea che da i balconi l'apparesse; 45 tardi mai non ussiva od a bonhora fuora di casa che tosto il ritorno era, sì tema ognhor di lei l'acora. 48 Tutta la notte et ancor tutto il giorno mai non restava di cridarle in testa: «Guarda che non me faci qualche scorno! 51 [...] | << | < | |